Più di un anno fa ho dedicato una di queste "considerazioni" – la nr. 91 per la precisione – a quel fenomeno che adesso gli organismi internazionali cominciano a chiamare land grabbing, ossia l'acquisto o l'affitto per decine di anni di migliaia e migliaia di ettari di terreno in Africa, Asia e America latina da parte di grandi compagnie multinazionali. Naturalmente questa vera e propria "corsa alla terra" è cominciata da tempo, ma la crisi finanziaria vi ha dato un notevole impulso: quando la finanza ha cominciato a vacillare sotto i colpi della speculazione, gli stessi speculatori hanno capito che era meglio rifugiarsi su beni più solidi e la terra è certamente uno di questi. Sono infatti proprio quelli che hanno fatto i soldi con le transazioni finanziarie a essere i protagonisti di questo ritorno alla old economy: in fondo di cibo ci sarà sempre più bisogno, visto che la popolazione mondiale tende a crescere, i prezzi rimarranno alti e quindi il profitto sarà garantito. Anche perché la terra nei paesi poveri del mondo costa poco, a volte pochissimo e rende parecchio. Gli stati petroliferi arabi fanno incetta di terreni per garantire le scorte alimentari necessarie per le loro popolazioni, la Cina – molto attiva in Africa – lo fa anche con l'obiettivo di espandere la propria influenza politica in quel continente strategico, le grandi compagnie multinazionali per impiantare monocolture di biocarburanti, facendo anche finta di farlo per il bene del pianeta e per non sfruttare le risorse energetiche tradizionali: tutti questi ne ricavano guadagni immensi. Ci guadagnano qualcosa, un'inezia rispetto ai guadagni globali, quei governanti corrotti – spesso sostenuti dai governi occidentali – che vendono e svendono le terre dei loro paesi. Se sono pochissimi quelli che ci gudagnano, naturalmente sono moltissimi quelli che ci rimettono, prima di tutto i contadini che in quelle terre vivevano e lavoravano. Ma anche noi ci rimettiamo, perché crescono i prezzi degli alimenti e perché il mondo è sempre più inquinato. Il land grabbing è il nuovo colonialismo e peserà sempre di più sulle fragilissime economie dei paesi in via di sviluppo.
Torno sull'argomento perché alcuni mesi fa la Banca mondiale ha fatto uscire su questo tema il rapporto Rising global interest in farmland; visto che ormai questa istituzione ha un peso così rilevante nella vita pubblica dei nostri paesi, tanto da condizionarne le scelte politiche, mi sembra utile capire cosa pensa di una questione così importante chi effettivamente comanda negli Stati Uniti e in Europa. La Banca mondiale riconosce che il problema esiste e che in seguito alla crisi del cibo del 2008 le grandi compagnie internazionali hanno aumentato in maniera considerevole i propri investimenti per l'acquisto di terreni, menzionando anche il fatto che i governi e le compagnie hanno stretto accordi senza tener conto della volontà delle comunità locali, alle quali non sempre sono stati riconosciuti i risarcimenti dovuti. Il rapporto si conclude con l'indicazione di sette principi per gli investimenti agricoli nei paesi più poveri, che riguardano tutela ambientale, rispetto dei diritti di proprietà, trasparenza eccetera; questi principi rimangono però belle parole dal momento che la Banca mondiale conclude che queste regole non possono essere imposte, ma devono essere recepite volontariamente dalle compagnie. Una pia illusione, nel migliore dei casi, visti gli interessi in ballo.
Quelli della Banca mondiale analizzano di continuo quello che succede nell'economia globale e lo scorso 16 agosto hanno presentato il rapporto Food Price Watch, in cui si spiega che "i prezzi alimentari mondiali hanno raggiunto il culmine. Coniugati a una volatilità persistente, costituiscono una minaccia permanente per i poveri dei Paesi in via di sviluppo". Bene, questo è il problema ed è detto senza infingimenti, ma la Banca mondiale può perdere il pelo, non certo il vizio. Il rapporto presenta molti dati sulle variazioni dei prezzi dei principali prodotti agricoli nei singoli paesi, concentrandosi in particolare sulla situazione del Corno d’Africa e della Somalia, dove la guerra
– come ho di recente raccontato – pesa enormemente sulle condizioni di vita di quei popoli. Ma quando passa dalla descrizione all'analisi cita come cause principali la siccità e i cambiamenti climatici globali e, in second'ordine, l’instabilità politica di quei paesi. Non cita mai le responsabilità dirette di coloro che speculano sulla terra e sul cibo. Probabilmente perché tra questi ci sono le grandi compagnie che quotidianamente lavorano e operano con la stessa Banca mondiale.
Gli economisti che hanno l'onesta intellettuale di riconoscere le leggi fondamentali della loro materia – e non solo Amartya Sen e chi viene dai paesi in via di sviluppo – spiegano che la fame non è una calamità naturale, come un terremoto o uno tsunami, ma un fenomeno che può essere eliminato, se solo ci fosse la volontà di farlo: bisognerebbe da un lato introdurre delle regole efficaci e cogenti nei mercati che operano sui titoli che si basano sulle commodities alimentari, e dall'altro lato sostenere modelli di produzione agroecologici, su piccola scala e basati sul lavoro di chi vive in quei territori. Certo servirebbero risorse, ma servirebbe soprattutto la capacità della politica di imporre le proprie scelte alla Banca mondiale e alle altre istituzioni finanziarie. Invece, come è noto, è la Banca mondiale che impone le proprie scelte alla politica. Dal momento che per gli esperti della Banca mondiale la causa principale dell'attuale crisi alimentare è il cambiamento climatico, la soluzione è quella di favorire chi sta acquistando grandi quantità di terreni. Infatti la Banca mondiale da un lato presta denaro ai grandi investitori affinché possano acquistare nuovi terreni e vi impiantino le monocolture e garantisce le assicurazioni contro le perdite legate alle siccità e agli eventi naturali; dall'altro lato agisce sui governi dei paesi in via di sviluppo affinché modifichino le leggi sulla proprietà della terra, favorendo la creazione dei grandi latifondi. Inoltre i Principi di Investimento Agricolo Responsabile, che ho citato prima, servono a dare una legittimazione etica a chi si accaparra la terra su larga scala.
Quando si parla del controllo che l'1% dei ricchi ha sul governo dell'economia del nostro pianeta si parla concretamente anche di questo. Quelli della Banca mondiale dimenticano – o fanno finta di dimenticare – che è il mercato che non garantisce cibo per tutti e non l'agricoltura. Questa cosa dobbiamo sempre averla in mente, perché è fondamentale. La terra produce e può produrre le risorse per dare da mangiare a tutti noi, è la distribuzione che lo impedisce. Il paradosso è che la Banca mondiale in occasione del G20 di Parigi del giugno scorso ha proposto di aiutare i paesi più poveri a uscire dalla fame, utilizzando prodotti finanziari derivati sul cibo, in sostanza ha proposto di affidare ai mercati la soluzione del problema che essi stessi hanno creato. Loro si stanno comprando tutta la terra, la terra migliore, quella più fertile e la stanno impoverendo con il sistema delle monocolture, ai contadini rimane poca terra, quella più difficile da coltivare e meno redditizia, con il cibo che diminuisce e i prezzi che fatalmente aumentano. Credo ci sia motivo per protestare e per dire che le cose così non possono andare avanti.
Non conoscevo questo fenomeno. Condivido molto queste riflessioni
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