sabato 14 gennaio 2023

Verba volant (825): scarpa...

Scarpa,
sost. f.

Oggi vi racconto la storia di una scarpetta, anzi della scarpetta più famosa della letteratura. Il problema è che non so da dove e da quando cominciare. Forse da un basso napoletano alla fine del Cinquecento. Oppure dall’antico Egitto al tempo dei faraoni della XXVI dinastia. O magari da qualche villaggio del Jiangxi durante il lungo regno dell’imperatore De Zong. Ma Luca Martini mi dice che non devo divagare troppo e quindi ho deciso di cominciare questo racconto nella Parigi del Seicento. Ossia da quando quella magica scarpetta è diventata di vetro.
Siamo nello studio ingombro di antiche carte, polverosi manoscritti e pesanti incunaboli di Charles Perrault. Sì, quello delle fiabe. Tutti, ma proprio tutti, conoscono le sue storie, molti meno il nome dello scrittore, magari confondendosi con i fratelli Grimm, gli austeri filologi tedeschi dell’Ottocento, anch’essi autori di un fortunato volume di fiabe, praticamente le stesse raccontate dal loro predecessore francese, perché tutti loro hanno semplicemente raccolto, riadattandole più o meno fedelmente, storie tradizionali, in qualche caso molto antiche, lo stesso che aveva fatto Giambattista Basile prima di tutti loro. Le stesse storie che nel Novecento hanno saccheggiato quelli della Disney, finendo per esserne considerati gli autori.

Credo che avrete ormai capito che vi voglio parlare di Cenerentola. Spero di non dovervi riassumere la storia, immagino che tutti abbiate visto - da bambini, da genitori, da nonni - il film a cartoni animati del 1950, con le voci, tra le altre, di Eleanor Audley e Verna Felton, rispettivamente la cattiva Lady Tremaine e la distratta Fata madrina - genialmente diventata, nella versione italiana la Fata Smemorina. Queste due attrici sono nomi importanti del doppiaggio dei film di animazione, la prima è stata anche Malefica, mentre la seconda la Regina di cuori e la suocera di Fred Flinstone. Nella versione italiana le voci sono di due artiste altrettanto brave, anche se oggi purtroppo dimenticate: Tina Lattanzi e Laura Carli. Ma questo non c’entra. Torniamo a Parigi.
Anzi, prima di tornare nello studio di Perrault, Zaira mi ricorda che noi siamo di una generazione, prima dell’home video e di internet, che ha imparato a conoscere Cenerentola non dal film della Disney, ma dalle Fiabe sonore della Fratelli Fabbri Editori. Se anche voi siete abbastanza vecchi, vi ricordate certamente quei 45 giri e i grandi albi con le belle illustrazioni realizzate dai migliori disegnatori italiani. E soprattutto ricordate la sigla che precedeva ogni favola: “A mille ce n’è / nel mio cuore di fiabe da narrar”.
Quelle storie erano raccontate dalla bella voce impostata di Silverio Pisu, il figlio di Mario, che, dopo una carriera da cantante impegnato nei cabaret milanesi, si è dedicato con successo al doppiaggio. Ve la ricordate la versione di Addio Lugano bella cantata da Gaber nella trasmissione Questo e quello? Insieme a Giorgio ci sono Enzo Jannacci, Lino Toffolo, Otello Profazio e il nostro Silverio.
Pisu è anche l’autore dei testi delle sessanta favole della raccolta. E si diverte ad aggiungere qualche particolare stravagante. Per Cenerentola inventa Venceslao, il gattone della ragazza, che osserva sgomento - e un po’ arrabbiato, visto che si tratta del suo pranzo - la trasformazione dei topi in cavalli. E, dopo la fatidica mezzanotte, il Principe si lamenta che nessuno ha preso la targa della carrozza.
A questo progetto lavora un bel gruppo di attori, tra cui Ugo Bologna, Sante Calogero, Pupo De Luca e Isa Di Marzio. Mentre tutte le canzoni e le musiche - oltre alla sigla - sono composte da Vittorio Paltrinieri, che le esegue insieme al Quartetto Radar, quelli di Bidibodibù per un celebre “carosello”. Un bel gruppo di bravi artigiani dello spettacolo, di artisti che sapevano fare il loro mestiere. E noi possiamo dire, con affetto e con una punta di nostalgia, di aver avuto la fortuna di ascoltare quegli antichi “audiolibri”, quei piccoli sceneggiati creati apposta per noi bambini.

Adesso basta divagare. Quasi certamente Perrault non pensava che sarebbe diventato famoso grazie a quelle favole, pubblicate nel 1697 con il titolo Histoires ou Contes du temps passé avec des Moralités. Charles aveva mandato alle stampe il libro sotto il nome del suo terzo figlio, Pierre, che si chiamava come uno degli zii, traduttore in francese delle opere di Alessandro Tassoni e Receveur général des finances - ossia il responsabile delle tasse - nel governo di Colbert. Quel ragazzo gli dava dei pensieri: una testa calda, era stato anche in carcere a seguito di una rissa. Perrault era un padre vedovo - la moglie era morta quando i quattro figli erano ancora piccoli - ed era preoccupato per l’avvenire di quel ragazzo scapestrato, la pecora nera della famiglia. Sperava che, leggendo quelle storie edificanti, con la loro brava morale, la nobiltà francese avrebbe pensato che il ragazzo avesse messo la testa a posto. Inoltre il libro era dedicato a “Mademoiselle”, ossia Elisabetta Carlotta di Borbone-Orléans, la nipote del Re Luigi XIV: Perrault sperava in questo modo che il figlio fosse assunto come suo segretario. Il trucco non è andato a buon fine: il mondo intellettuale di Parigi ha capito subito che quel ragazzo diciannovenne non avrebbe potuto scrivere quelle storie, ma soprattutto usare quello stile così forbito, così tipico di suo padre. E quel posto è andato a un altro candidato, certamente più raccomandato del povero Pierre: allora andava così. D’altra parte la “seconda morale” della fiaba di Perrault recita: “Gran che certo, avere ingegno, coraggio, nobiltà, buon senso, e simili pregi che vi vengono dal cielo; ma a nulla vi serviranno per avanzar nella vita, se non avete o dei compari o delle comari che li facciano valere”. In sostanza per avere successo sempre meglio avere una “fata madrina”.
Perrault era certo che i posteri si sarebbero ricordati di lui per gli altri suoi lavori, magari per i suoi versi o forse le opere storiche. Non era certo immodesto, pensava di meritare il posto che gli era stato assegnato tra gli Immortali, il seggio n. 23 dell’Académie française, occupato prima di lui dal poeta Guillaume Colletet, amico di Richelieu, poi dal letterato Gilles Boileau, il più giovane eletto a quel prestigioso consesso, e Jean de Montigny. E su cui ora siede lo storico dell’arte ed ex direttore del Louvre Pierre Max Rosenberg. A proposito, un altro dei fratelli maggiori di Charles si chiamava Claude. Si era laureato in medicina alla Sorbona, ma i suoi interessi spaziavano in molteplici campi: oltre che un grande anatomista, è ricordato come botanico, studioso di meccanica, inventore, appassionato di architettura, tanto da tradurre l’opera di Vitruvio in francese e realizzare la grande facciata orientale del Louvre - quella che adesso dà su rue de l’Amiral de Coligny - con la sua celebre Colonnade, esempio mirabile del classicismo, che ha ispirato la facciata del Campidoglio e del Metropolitan Museum.
A dire la verità ai suoi tempi Charles Perrault era famoso soprattutto per la sua attività di polemista. A fine gennaio del 1687 legge ai suoi colleghi dell’Accademia una poesia intitolata Le Siècle de Louis le Grand. Gli Immortali ascoltano condiscendenti e decisamente annoiati: i soliti versi levigati e di maniera di Perrault. A un certo punto c’è qualcosa che sveglia la loro attenzione: il poeta dice che gli autori classici, a partire da Omero, sono sopravvalutati, molto meglio i poeti del Seicento, il secolo in cui le arti hanno raggiunto il loro apice. Si tratta di una tesi azzardata, ma gran parte degli accademici, punti sulla loro vanità, applaudono con entusiasmo. Pochi storcono la bocca per quei giudizi trancianti rivolti a venerati maestri, ma solo il poeta Nicolas Boileau, soprannominato il “Regent du Parnasse”, il seggio n. 1 dell’Accademia, si alza sdegnato, dicendo che è un crimine continuare ad ascoltare quelle farneticazioni. Comincia così la Querelle des Anciens et des Moderns, un dibattito intellettuale che proseguirà piuttosto stancamente per quasi un decennio.
Perrault è attivissimo come capofila dei “moderni”, scrive opere letterarie, pamphlet, risponde alle satire di Boileau. Il mondo accademico si appassiona a questo, per molti aspetti futile, dibattito. Tutti i letterati e gli intellettuali vi prendono parte, spesso schierandosi per una parte o per l’altra a seconda delle convenienze, seguendo amicizie e consorterie o peggio antipatie personali o sentimenti ancora meno commendevoli. Cose che succedevano tra gli intellettuali francesi del Seicento.
E c’entra anche la politica, perché i sostenitori dei “moderni” sono quelli più fedeli alla Corona, o quelli che sperano in qualche prebenda, mentre quelli che difendono gli “antichi” sono spesso critici verso il potere costituito, chi regge le Accademie e la Sorbona. Paradossalmente sostenere gli “antichi” diventa un segno se non di ribellione, di scarso entusiasmo per il potere. Lo stesso Boileau è vicino alle posizioni di Port-Royal. Anche un altro fratello maggiore di Charles, Nicolas, quello che, a differenza dei fratelli, si era laureato in teologia, era stato espulso dalla Sorbona proprio per le sue opinioni gianseniste, una cosa che per il fratello così ben inserito a Corte e nelle Accademie era un motivo di imbarazzo.

E la scarpetta? Non mi sono dimenticato. Sia Erodoto che Strabone raccontano che i calzari di Rodopi, la “cenerentola” egizia, diventata sposa del faraone Amasis, sono di oro rosso, e di una preziosa stoffa d’oro sono anche i sandali di Ye Xian, la ragazza di cui sappiamo che aveva piedi splendidi e piccolissimi - una caratteristica particolarmente apprezzata ancora oggi dagli uomini cinesi - mentre Giambattista Basile non dice di cosa sono fatte le pianelle di Zezzola, la Gatta cenerentola della tradizione napoletana. Ma come le scarpette della fiaba di Perrault e di quella dei Grimm - anche queste d’oro - tutte queste calzature hanno la peculiare caratteristica di adattarsi soltanto a una persona. Evidentemente queste storie sono molto precedenti al tempo del prêt-à-porter.
La folclorista inglese Marian Roalfe Cox, autrice del fondamentale testo del 1893 Cinderella: Three Hundred and Forty-Five Variants of Cinderella, Catskin and Cap o’Rushes, Abstracted and Tabulated with a Discussion of Medieval Analogues and Notes, dice che delle trecentoquarantacinque versioni della fiaba solo sei citano il vetro come materiale delle scarpette. Ma, grazie a Perrault - e a Disney - ormai nell’immaginario comune quelle scarpette sono di vetro. E The Glass Slipper è il titolo del film del 1955 basato sulla fiaba di Cenerentola, con un’incantevole Leslie Caron nel ruolo della giovane e due grandi caratteriste, Elsa Lanchester ed Estelle Winwood, in quelli rispettivamente della matrigna e di una misteriosa vecchietta si rivelerà una fata. Elsa è la “sposa” di Frankenstein, ma è meglio che mi fermi, anche perché Estelle ha interpretato il suo ultimo ruolo a novantasei anni, alla fine di una carriera lunghissima. E se comincio non finisco più.
Vi devo raccontare del vetro. Genevieve Warwick, che insegna storia dell’arte all’Università di Edimburgo, autrice del saggio Cinderella’s Glass Slipper: Towards a Cultural History of Renaissance Materialities, ci spiega perché Perrault ha fatto questa scelta così inusuale.
Perrault era un borghese, suo nonno realizzava arazzi per la Corte, suo padre era avvocato presso il Parlamento di Parigi, e Charles era nella condizione in cui ci troviamo tanti di noi che ci definiamo scrittori: non poteva sperare di vivere solo scrivendo, e quindi era costretto a lavorare.
Nel 1663 Colbert lo nomina segretario dell’Académie des inscriptions et belles-lettres, l’istituzione che ha il compito di redigere le iscrizioni sui monumenti e sulle medaglie in onore di Luigi XIV, e due anni dopo lo promuove controllore generale della Sovrintendenza agli edifici del Re. Per Charles si tratta di un bel balzo di carriera, che gli offre una notevole influenza nella vita artistica della Corte di Francia. È proprio grazie a questo incarico che riesce a far assegnare a Claude il rifacimento della facciata del Louvre, dopo aver scartato il progetto di Bernini, e a Pierre un progetto sulle fontane della nuova reggia che Luigi vuole costruire a Versailles. Grazie al “piccolo” della famiglia, i Perrault si sono davvero ben sistemati: ecco un’altra cosa che adesso non succede più.
Il Re vuole che nel corpo centrale della sua nuova reggia ci sia una grande sala, che renda evidente ai visitatori la grandezza della Francia sotto il suo regno. Incarica di questo ambizioso progetto Jules Hardouin-Mansart e l’architetto realizza un salone lungo settantatré metri e largo più di dieci che raggiunge l’attico del corpo centrale della reggia, con diciassette grandi finestre ad arco, aperte verso i magnifici giardini, a cui corrispondono sull’altro lato diciassette specchi, altrettanto grandi, in grado di far sembrare la sala ancora più vasta. Poi il re affida a Charles Le Brun la decorazione del soffitto, discutendo animatamente con il pittore sulla scelta dei soggetti: al centro campeggia un dipinto significativamente intitolato Il Re governa autonomamente. Oggi la Galleria degli Specchi è un’attrazione turistica e desta lo stesso ammirato stupore che provocava ai regnanti, ai ministri e agli ambasciatori che Luigi vi riceveva. Feste di nozze, battesimi reali, balli di carnevale: tutto è stato festeggiato in questa sala. E, non a caso, proprio qui nel 1871 Bismarck decide di far proclamare a Guglielmo I la nascita dell’Impero tedesco, dopo la fine della guerra franco-prussiana, e con lo stesso intento simbolico, nel 1919 il governo francese ne fa lo scenario della firma del Trattato di Versailles, che sancisce, tra l’altro, la fine di quell’Impero.
A Perrault viene affidato il delicato compito di sovraintendere alla realizzazione dei vetri e degli specchi che servono per decorare la Grande Galerie. Anche questo, nelle intenzioni del Re, deve essere un segno della grandezza della Francia. Ancora nel XVII secolo Venezia aveva il monopolio della realizzazione degli specchi. È stato proprio Colbert a fondare la Manufacture royale de glaces de miroirs, divenuta poi Compagnie de Saint-Gobain, capace di togliere il monopolio europeo del prodotto agli artigiani veneziani.
Inoltre, seguendo così da vicino il processo di lavorazione del vetro, Perrault impara che quel prodotto nasce dalla cenere. Perché, come dice la prima “morale”: “La buona grazia è il vero dono delle Fate; senza di essa, nulla si può, con essa, tutto". A questo punto di cosa poteva essere fatta la scarpetta che permette a una principessa, ingiustamente relegata al ruolo di sguattera, di tornare al posto che le compete nel mondo? Di vetro ovviamente. E Cenerentola diventa la metafora della Francia tornata grande grazie a Luigi e al suo vetro. Perrault capisce, molto prima di Disney, che le favole possono diventare un ottimo strumento di propaganda politica.
E poco importa se è davvero impossibile ballare indossando delle scarpette di vetro. A proposito nella versione danese le scarpette sono d’oro, ma Askepot, che evidentemente è una ragazza piuttosto previdente e pratica, indossa delle galosce per proteggere le sue preziose calzature, che non si sporchino di fango.

Credo che a questo punto sia necessario ricordare che a metà dell’Ottocento quelle scarpette di vetro hanno scatenato una piccola querelle. Nel 1841 Honoré de Balzac, nel romanzo Sur Catherine de Médicis, fa dire a un suo personaggio, di professione pellicciaio, che le scarpette di Cenerentola non sono di verre, ma di vair, che è la preziosa pelliccia di scoiattolo. Émile Littré, nel suo ponderoso Dictionnaire de la langue française, prende le parti di Balzac e di altri critici che, seguendo il grande romanziere, sostengono che sia molto più “razionale” pensare a scarpette di pelliccia piuttosto che di vetro. Evidentemente né Balzac né Littré erano dei ballerini, perché neppure pantofole foderate di pelliccia sono le calzature più adatte alla danza. Inoltre si adattano molto più facilmente ai piedi: forse perfino le sorellastre sarebbero riuscite a calzarle, senza tentare delle dolorose mutilazioni, come avviene nella più cruenta versione dei Grimm. Anzi, come dirà molti anni dopo Bruno Bettelheim, nel suo importantissimo testo The Uses of Enchantment: The Meaning and Importance of Fairy Tales, sembra molto più “razionale” che una scarpetta di vetro possa essere un pezzo unico e che un solo piede possa calzarla perfettamente. Comunque la querelle sulla presunta omofonia tra verre e vair era già stata risolta, con un sorriso, da Anatole France che, invitando il lettore a “diffidare del buon senso”, spiega che è tanto verosimile che le scarpette siano di vetro quanto che una zucca venga trasformata in una carrozza. La cosa davvero sorprendente, conclude France, sarebbe se una carrozza venisse trasformata in una zucca.
A proposito di letture razionaliste della fiaba, nel 1817 il genio illuminista di Gioachino Rossini accetta di scrivere la musica per un’opera dedicata a Cenerentola solo a patto di togliere tutti gli elementi magici e quindi scompaiono le magiche scarpette limited edition, la zucca - un’altra invenzione di Perrault che non si ritrova nelle versioni precedenti - e soprattutto la Fata madrina, sostituita da Alidoro, filosofo e antico precettore del principe. Il compositore pesarese non vuole magia: noi uomini bastiamo a combinare guai e talvolta a risolverli.
Comunque Perrault, frequentando, seppur soltanto da funzionario, la Corte, deve averne viste di bizzarrie a proposito di scarpe. Molte dame indossavano i cosiddetti “spilli”, scarpette altissime, su cui a fatica riuscivano a camminare, figurarsi se potevano ballare. Luigi era ossessionato dalle scarpe, molto più di Carrie Bradshaw, le cambiava di continuo ed erano sempre più elaborate, sempre più ricche di fiocchi, nappe, gioielli, le scarpe del Re non erano fatte per camminare, ma per essere invidiate. E chissà se Perrault scrivendo il Gatto con gli stivali non volesse rendere un omaggio, seppur velato, al coraggio di Luigi.
E il primo numero delle Fiabe Sonore è proprio dedicato a questa favola, con le splendide illustrazioni di Sergio, come si firmava il pittore Romano Rizzato. E di lui certamente conoscete le famose illustrazioni nell’edizione integrale di Pinocchio dei Fratelli Fabbri del 1965. Ma forse questo è meglio se ve lo racconto un’altra volta.

sabato 7 gennaio 2023

Verba volant (824): fatale...

Fatale
, agg. m. e f.

Lo so che Anjelica è filologicamente perfetta e Catherine è sensualmente letale, ma per quelli della mia generazione Morticia Frump in Addams avrà sempre i grandi occhi azzurri di Carolyn Jones.

Carolyn è una ragazza di Amarillo che nella seconda metà degli anni Quaranta, come tante sue coetanee, divora le riviste dedicate alle dive e ai divi di Hollywood. Ma fin da bambina soffre di asma e questo limita molto le sue attività quotidiane: non riesce neppure ad andare al cinema con le amiche per vedere i suoi eroi sul grande schermo. Il padre ha abbandonato la moglie, lei e sua sorella minore. Il nonno, oltre che ospitarle, fa in modo che la ragazza faccia un intervento di rinoplastica per curare quella malattia e le paga la retta alla prestigiosa scuola di recitazione della Pasadena Playhouse.
Un talent scout la nota proprio in uno degli spettacoli della scuola e Carolyn viene messa sotto contratto dalla Paramount Pictures. E finalmente nel 1952, diretta da William Dieterle, debutta nel classico del noir The Turning Point: è una delle ragazze del nightclub del “cattivo” Ed Begley. I film in cui compare in questi anni non sono capolavori e le sue parti sono piccole, ma Carolyn comincia a farsi notare per la sua bellezza fuori dagli stereotipi dell’epoca e per il suo sguardo penetrante. È la ragazza che il folle scultore, interpretato da Vincent Price, “trasforma” nella statua in cera di Giovanna d’Arco in House of Wax. Interpreta la donna di un gangster in The Big Heat. In Shield for Murder è la biondissima e fatale Beth che fa girare la testa a Edmond O’Brien. Nel 1953 arriva finalmente la grande occasione: il ruolo di Alma in From Here to Eternity, con Burt Lancaster, Montgomery Clift, Frank Sinatra e Deborah Kerr. Ma Carolyn ha un attacco di polmonite, la produzione non si può fermare per quella giovane attrice, che viene sostituita da Donna Reed, che, proprio per quel film, vincerà l’Oscar, uno degli otto di quella fortunata pellicola.
La carriera di Carolyn comunque non si ferma. Nel 1956 è una delle protagoniste di Invasion of the Body Snatchers e ha una piccola parte in The Man Who Knew Too Much di Alfred Hitchcock. Poi arriva la nomination come attrice non protagonista per The Bachelor Party, in cui interpreta una ragazza misteriosa e sensuale, con quel vestito nero e i capelli a caschetto corvini, conosciuta solo con il nome l’Esistenzialista che, nonostante partecipi a ogni genere di feste, è sola ed estremamente malinconica. E ancora è Ronnie in King Creole, la giovane amata da Elvis Presley e uccisa da un perfido Walter Matthau. Lavora con Kirk Douglas, Frank Sinatra, Anthony Quinn e contemporaneamente fa anche molta televisione: con quegli occhi spesso viene scritturata per interpretare la “cattiva”.
Anche per questo quando, alla fine del 1963, David Levy la chiama per offrirle il ruolo della madre in una serie che sta per produrre per la ABC dedicata ai personaggi creati alla fine degli anni Trenta dal fumettista Charles Addams per The New Yorker, Carolyn esita: lei non è un’attrice comica e francamente quel progetto le appare un po’ azzardato. John Astin, il coprotagonista della serie, ha lavorato a Broadway in produzioni importanti come The Threepenny Opera, ma non è molto conosciuto a Hollywood, certamente molto meno di lei. Anche se non hanno mai lavorato insieme, Carolyn conosce ovviamente Jackie Coogan, che dovrebbe interpretare lo zio bizzarro: tutti a Hollywood conoscono Jackie, il “monello” di Chaplin, quello che ha fatto tanto per tutelare gli attori bambini, ma per i ragazzini a cui si rivolge la serie è un illustre sconosciuto. Comunque Carolyn non si può permettere di rinunciare a un ruolo da protagonista in una serie di trentaquattro puntate su una rete nazionale.
Carolyn si diverte molto sul set, fa amicizia con Blossom Rock, che le racconta le storie della vecchia Hollywood, quando lei era Sally, la centralinista del Blair General Hospital, in tutti i film della serie con protagonista il Dr. Kildare, mentre il gigantesco Ted Cassidy, nelle pause di lavorazione, suona il piano per la troupe.
Gli sceneggiatori creano per Carolyn il personaggio di Ophelia Frump, la sorella maggiore di Morticia, la “pecora bianca” della famiglia, visto che, a differenza degli altri, predilige questo colore per vestirsi e ha in testa una corona di fiori le cui radici le scendono fino ai piedi. E con lo svolazzante vestito di Ophelia, Carolyn può finalmente muoversi, e stendere con una mossa di judo il povero Gomez. La mano di Carolyn è anche l’interprete di Lady Fingers, la “cosa” a servizio della principessa Millicent von Schlepp - l’attrice Elvia Allman, la voce di Clarabella - che si fidanzerà con The Thing - che invece è la mano di Ted Cassidy.
La serie si rivela un inaspettato successo, anche se dura soltanto due stagioni. Per Carolyn è il ruolo più importante della carriera, che pure dura ancora molti anni, nei quali dimostra di essere un’ottima attrice. Nel 1967 a Broadway sostituisce Vivien Merchant nel ruolo di Ruth, l’enigmatico personaggio femminile che tutti gli uomini della famiglia del marito finiscono per desiderare, nel dramma di Harold Pinter The Homecoming. Torna anche al cinema: è la tenutaria di un bordello del classico horror del 1976 Eaten Alive. Ma è attiva soprattutto in televisione. È Marsha la Regina dei Diamanti, una delle “special guest villains” della fortunata serie Batman. Nella prima storia in cui compare, al termine del primo episodio l’Uomo Pipistrello non rischia la vita, come succede di solito, ma sta per sposarsi proprio con Marsha, che vuole diventare sua moglie per carpirne tutti i segreti. Servirà il provvidenziale intervento di Alfred, all’inizio del secondo episodio, per far saltare le nozze. Poi Carolyn è Ippolita, la madre di Lynda Carter in Wonder Woman e la moglie del padrone della piantagione in Roots. E appare come guest star in puntate di Ironside, Ellery Queen, Quincy M.E., The Love Boat - in cui fa la parte di una matrigna che vuole tarpare le ali alla carriera di cantate della figlia, aizzata dalle sorelle invidiose - Fantasy Island. Infine, all’inizio degli anni Ottanta, ottiene, anche se minata dal cancro, il ruolo di Myrna, la matriarca della famiglia Clegg, nella soap Capitol. È l’ultima sua parte da “cattiva”, poco prima di morire, a soli cinquantatré anni.

Una lunga parrucca corvina, un attillato vestito nero che termina in una serie di tentacoli e quei grandi occhi chiari che ci ammaliano dallo schermo: in questo modo quell’attrice trentaquattrenne originaria del Texas diventa Morticia, come lo stesso Charles Addams decide di chiamare il suo personaggio. Solo con la serie televisiva infatti gli Addams acquistano un nome di battesimo e si definiscono in maniera precisa i legami familiari e i caratteri dei personaggi, nonché le loro complicate genealogie. E si viene a sapere che sono in qualche modo imparentati con la grande famiglia che ha una sola D nel cognome, quella dei due presidenti: un fatto di cui gli Addams con due D comunque non sono particolarmente fieri.
Per la precisione Addams ha “battezzato” Morticia e Wednesday una paio d’anni prima l’uscita della serie, per lanciare le due bambole con le fattezze dei suoi personaggi: potenza del merchandising.
Charles vuole che anche nella serie, come nelle sue vignette, Morticia sia il vero capo della famiglia, attenta e sempre pronta a prendersi cura degli altri, una perfetta padrona di casa, una moglie innamorata e una madre premurosa. Morticia è, a suo modo, l’ideale mamma americana, come sarà dieci anni dopo Marion Cunningham, anche se un po’ più sofisticata. E decisamente più upper class. Ma è una mamma che taglia i boccioli di rosa per mettere nei vasi soltanto gli steli, cura una pianta carnivora, chiamata Cleopatra, rimane imperturbabile quando Pugsley gioca con gli esplosivi o lo zio Fester accende le lampadine mettendole in bocca o Mano - come chiamiamo in italiano The Thing - spunta da qualsiasi anfratto della casa. La forza comica del personaggio è che Carolyn, con la sua bellezza altera e irrigidita in quell’elegante costume, affronta ogni stranezza che capita nella loro cadente villa vittoriana al 0001 di Cemetery Lane senza minimamente scomporsi.
Accanto ad Addams, per realizzare la serie Levy chiama Nat Perrin, che ha a lungo collaborato con Groucho Marx ed è stato uno degli sceneggiatori di Hellzapoppin’. E Nat mette in pratica tutto quello che ha imparato osservando la comicità surreale dei Marx Brothers. Come loro, gli Addams fanno cose che agli occhi degli altri sembrano folli, ma senza rendersene conto, anzi considerando folli i comportamenti delle persone “normali”. Probabilmente Morticia è una strega - d’altra parte sua madre, la vecchia e dolce Nonna Frump, è Margaret Hamilton, la Malvagia Strega dell’Ovest - e infatti compie ogni genere di magia, ma non è come Samantha di Bewitched - l’altra fortunata serie dell’ABC andata in onda per la prima volta nel 1964 e che in Italia sarà Vita da strega - che è ben consapevole di essere una strega, anche perché sua madre Endora glielo ricorda di continuo, ma vorrebbe essere “normale”. Morticia è semplicemente Morticia. E credo proprio che abbia ragione lei: siamo noi a essere strani.