sabato 21 marzo 2020

Verba volant (761): risveglio...

Risveglio, sost. m.

È bellissima Smyrna, è ancora una bambina che raccoglie fiori nei giardini del grande palazzo e gioca con le sue compagne, ma ormai il suo corpo è quello di una donna. Sua madre vede lo sguardo con cui il padre osserva le forme di Smyrna, che il peplo non riesce più a nascondere. E sa cosa succederà, perché Cencreide conosce bene suo marito e sa che non si fermerà, che il desiderio sarà più forte di qualunque altra cosa, spezzerà ogni limite, anche il più sacro. Quando la donna lascia il palazzo per partecipare alle cerimonie in onore di Demetra, sa che sarà proprio quella notte. Non ha neppure il coraggio di guardare sua figlia, di salutarla un'ultima volta. Cencreide non si sbaglia. L'uomo ha deciso, ha già trovato la complice, che per paura o per avidità, quella notte porterà Smyrna nella sua camera.
Lo so, né l'autore della Biblioteca, né Igino, né Ovidio raccontano la storia in questo modo. Dicono che è stata Smyrna a innamorarsi del padre, punita da Afrodite perché un giorno si è rifiutata di fare un sacrificio o perché la madre ha peccato dicendo che la ragazza era più bella della stessa dea. E che la nutrice ha propiziato quell'incontro incestuoso per salvare la vita alla giovane, che altrimenti si sarebbe suicidata. E naturalmente che il padre non sapeva: tutto si è consumato al buio. O secondo un'altra tradizione, che è stato fatto ubriacare. Lui credeva soltanto che fosse una giovane della stessa età della figlia: è stato ingannato, poveretto. E infatti, dopo nove notti, quando ha scoperto la verità, si è così infuriato da voler uccidere la figlia colpevole di un tale delitto. No, mi dispiace, non credo a questa versione così rassicurante e comoda per noi maschi, in cui l'uomo è l'unico innocente.
Il mito racconta che alla fine Smyrna muore. Anzi che benignamente gli dei l'hanno trasformata in un albero di mirra. Poco prima che il padre la raggiunga e così l'uomo non può che sfogare la propria rabbia su un tronco. Ma Smyrna è rimasta incinta e da quell'albero nasce un bambino. Come dice Ovidio
at male conceptus sub robore creverat infans
Quel bambino è Adone. Un nome strano per un bambino, perché in tutte le lingue di origine semitica significa signore. E infatti Adonai è il nome con cui più frequentemente ci si rivolge al dio dell'Antico testamento. E ritroviamo la storia di questo giovane bellissimo, amato con incredibile passione dalla potente divinità fecondatrice, in tutto il mondo antico. È una storia di amore e di morte, che gli aedi dell'antica Grecia cantano con la consueta disincantata poesia.
Anche Adone è bellissimo, come la madre, e di quel fanciullo, rimasto orfano e allevato dalle Naiadi, ninfe delle acque dei fiumi e delle sorgenti, si innamora Afrodite. Ma è ancora un bambino, la dea deve aspettare che cresca, ma non può correre il rischio che qualcun'altra lo veda. E così lo chiude in una cassa di legno e manda quel voluminoso bagaglio a Persefone affinché lo custodisca negli Inferi. Sembra un buon piano, nessuno potrà mai andare laggiù. Afrodite però non ha tenuto conto della curiosità della regina delle ombre, che si chiede cosa avrà di così prezioso da nascondere quella dea bella e altezzosa. Quando finalmente apre la cassa e vede Adone naturalmente se ne innamora e decide che non lo restituirà ad Afrodite. Questa va su tutte le furie e invoca il giudizio di Zeus. Il re degli dei non ne vuole sapere di affrontare una grana del genere: non vuole scontentare nessuna di quelle due dee così potenti e così assegna il giudizio a Calliope, una delle nove Muse. 
La musa dimostra saggezza e decide che Adone avrebbe trascorso un terzo dell'anno con Persefone, un terzo con Afrodite e un terzo sarebbe stato libero di scegliere. La dea dell'amore si infuria per l'esito del giudizio e per prima cosa decide di vendicarsi di Calliope. Fa in modo che le Menadi si innamorino di suo figlio Orfeo, che però - come ben sappiamo - vive nel ricordo della scomparsa Euridice; sconvolte per il suo rifiuto, le Menadi lo uccidono. Poi indossa la sua cintura magica e seduce il giovane, che così decide di trascorrere con lei anche il terzo dell'anno che ha a sua completa disposizione. È un ragazzo Adone, dai tratti quasi femminei, neppure un accenno di barba. Francamente non credo sia stata necessaria quell'arma di seduzione per irretire Adone in un gioco di cui poco capisce. Afrodite non è migliore del padre di Smyrna. È solo meno brutale, ma non meno violenta. Anche lei ruba a quel bambino l'innocenza. Adone vivrà senza sapere cosa è davvero l'amore.  
Adone è un mortale e i mortali devono appunto morire. Ares è geloso di quel giovane effeminato per cui Afrodite ha perso la testa. Mentre il giovane è a caccia - o meglio gioca alla caccia - il dio si trasforma in un orrendo cinghiale e uccide Adone. Afrodite è disperata: Zeus a questo punto non può che sancire quello già deciso da Calliope. Adone rimarrà solo per una metà dell'anno nell'Ade, mentre l'altra metà tornerà sulla terra.
E questi giorni che stanno intorno all'equinozio raccontano, ogni anno, il ritorno di Adone. Ci fanno tirare un sospiro, perché il peggio è passato, ma raccontano anche una storia di violenza e di morte.
Ce lo ricorda Ovidio. Afrodite dal sangue di Adone fa crescere dei fiori del colore del sangue.
Ma è fiore di vita breve:
fissato male al suolo e fragile per troppa leggerezza,
deve il suo nome al vento, e proprio il vento ne disperde i petali.

giovedì 19 marzo 2020

Verba volant (760): raviola...

Raviola, sost. f.

Fino al 1977 in Italia erano feste nazionali il giorno dell'Epifania, quello di san Giuseppe, l'Ascensione, il Corpus Domini e il giorno dei santi Pietro e Paolo. Si trattava naturalmente di feste religiose, anzi erano le feste di una religione, ma siccome allora il nostro era un paese semi-laico - o semi-confessionale, fate voi - non ci facevamo troppo caso.
Quelle feste cadevano quasi tutte in primavera, dal 19 marzo al 29 giugno, erano occasioni per fare piacevoli gite e, nell'Italia del boom, grazie al sapiente uso dei "ponti", anche delle prime vacanze di massa. E poi si trattava di feste fortemente radicate nella tradizione, dal nord al sud del paese. Per tutte queste ragioni l'abolizione di queste feste è stata vissuta con molte polemiche: il motivo di questa scelta, voluta dal terzo governo Andreotti - il cosiddetto governo "della non sfiducia" - è stata essenzialmente di natura economica. L'Italia non si poteva più permettere tutti quei giorni in cui si fermavano le attività produttive e industriali. Di queste cinque feste, come è noto, negli anni successivi è stata reintrodotta solo la Befana, non per una riscoperta di questa antichissima tradizione pagana né per ossequio alla chiesa cattolica, ma solo per "allungare" le vacanze natalizie e sostenere una nuova realtà economica, quella del turismo, che nel frattempo è cresciuta, mentre diventava più debole l'industria.
Perdonate la lunga premessa, ma il mio primo ricordo è legato proprio al giorno di san Giuseppe. Era il 19 marzo 1974 e i miei genitori decisero di andare alla Festa della raviola di Fiesso. Per i non bolognesi - e anche per i bolognesi troppo giovani - credo siano necessarie almeno un paio di note a margine.
Prima nota: la raviola è un dolce tipico bolognese, che adesso potete trovare nei forni tutto l'anno, ma che quando io ero bambino si faceva solo per la festa di san Giuseppe. Sono biscotti di frolla morbida, riempiti di mostarda - ma adesso ci mettono dentro di tutto, perfino quella crema alla nocciola mainstream della pubblicità - e abbondantemente bagnati nell'alkermes. Per me la raviola è una sorta di madeleine, ma decisamente più buona rispetto al dolcetto francese. Se Proust fosse cresciuto nella campagna bolognese, forse oggi non leggeremo la Recherce.
Seconda nota: Fiesso è una piccola frazione del comune di Castenaso, chiamata così perché in quel punto il torrente Idice, un affluente del Reno, fa una curva piuttosto decisa. Non c'è praticamente nulla a Fiesso, se non la grande chiesa dedicata a san Pietro. E non chiedetemi per quale motivo a Fiesso, proprio dietro la chiesa, si faceva - non so se si faccia ancora - la Festa della raviola il giorno di san Giuseppe. 
Immagino che la mia famiglia ci sia sempre andata a quella festa, perché Fiesso dista poco meno di sette chilometri da Quarto e soprattutto perché mio padre è nato e cresciuto tra Veduro e Marano, altre due piccoli frazioni di Castenaso. Mio padre a Fiesso conosceva tutti e tutti quelli di Fiesso allora conoscevano lui: era un mondo fatto così.
Quell'anno però c'era l'austerity. Credo sia necessaria la terza nota di questa mia storia. La notte del 22 novembre 1973 il governo italiano - il quarto Rumor, un esecutivo sostenuto dal cosiddetto "centro-sinistra organico" - decideva di varare il piano che fu chiamato appunto dell'austerity. A partire dal successivo primo dicembre bar e ristoranti dovevano chiudere entro la mezzanotte, mentre cinema, teatri e sale da ballo dovevano farlo alle 23.00, che era l'orario in cui finivano le trasmissioni televisive. Venivano spente le insegne luminose e pubblicitarie, mentre l'illuminazione pubblica doveva essere ridotta del 40%. La velocità sulle strade venne limitata a 100 km/h sulle strade extraurbane e a 120 km/h sulle autostrade. Ma il provvedimento che ha avuto un impatto più forte sugli italiani è stato quello di vietare la circolazione nei giorni festivi dei mezzi motorizzati, comprese barche e aerei. E c'erano pochissime eccezioni: carabinieri, medici, preti - ma questi ultimi solo nel loro Comune. Una circolare specificava che persino l'auto del Presidente della Repubblica non poteva circolare. Il motivo di questa drastica decisione è stata la crisi petrolifera.
Il 6 ottobre 1973, il giorno della festa ebraica dello Yom Kippur, Egitto e Siria attaccarono Isreale. La guerra del Kippur terminò poche settimane dopo, perché Stati Uniti e Unione Sovietica volevano evitare quella si chiamava escalation, con un sostanzialmente pareggio, anche se sul campo le forze egiziane e siriane ebbero la meglio. I paesi arabi associati all'Opec decisero allora di sostenere l'azione di Egitto e Siria aumentando il prezzo del petrolio e ponendo l'embargo nei confronti dei paesi più apertamente schierati con Israele. Inoltre la chiusura di fatto del canale di Suez costringeva le petroliere a circumnavigare l'Africa, aumentando tempi e costi dei viaggi e quindi dei carburanti. Provvedimenti simili a quelli italiani furono presi negli Stati Uniti e in tutta Europa. 
Il mondo occidentale, senza il petrolio, si trovò in crisi. Per questo quel pomeriggio di un giorno di marzo i miei genitori decisero di andare a Fiesso, alla Festa della raviola, in bicicletta. Io naturalmente non sapevo nulla dell'austerity, dell'Opec, di Rumor, della guerra del Kippur, ma ricordo che venni caricato nel sellino della bicicletta di mio padre - un sellino che stava davanti, attaccato alla canna, tra chi pedalava e il manubrio, una roba che immagino oggi sarebbe fuorilegge - e andammo a Fiesso. E non mi ricordo altro: solo quel viaggio in bicicletta, in un pomeriggio di primavera. Immagino che non mi diedero neppure una raviola, perché c'era l'alkermes. Ma, come direbbe Kavafis
La raviola ti ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti di più.

lunedì 16 marzo 2020

Verba volant (759): quarantena...

Quarantena, sost. f.

Le lingue sono sistemi complessi e raramente sappiamo quando e dove sono nate le parole che noi pronunciamo - più o meno a proposito - ogni giorno. Quarantena è una di queste rare eccezioni. È il 1346: nel nord della Cina si sviluppa una terribile pestilenza, che, attraverso la Siria, raggiunge, dopo alcuni mesi, i vasti territori dell'Impero ottomano, dalla Turchia all'Egitto, fino alla penisola balcanica. Tra la fine del 1347 e il gennaio del '48 la peste arriva anche nel nostro paese, a Messina, a Genova, a Pisa, a Venezia, ossia in quelle città che sono al centro dei traffici in quello che allora è il mondo globalizzato, anche se nessuno lo chiamava così. Praticamente è la stessa cosa che è successa in queste settimane, la sola differenza è che oggi il virus non viaggia più in nave, ma in business class e quindi è decisamente più veloce.
La Repubblica di Venezia interviene con decisione e nomina tre tutori della salute pubblica che, tra i primi provvedimenti adottati, stabiliscono di isolare per quaranta giorni le navi e le persone prima che entrino in laguna. Nasce così la parola quarantina. Nonostante questo drastico decreto, tra il gennaio 1348 e il maggio 1349, la città di Venezia ha perso circa il 60% della popolazione, si stima tra le 72mila e le 90mila persone, su una popolazione che poteva oscillare tra i 120mila e i 150mila abitanti. Perché era sostanzialmente impossibile "chiudere" Venezia, una città che viveva di commerci e che era uno dei più importanti porti d'ingresso per le merci del Mediterraneo orientale in Europa.
Non si può mettere in ginocchio l'economia di un intero paese solo per questo allarme. E poi gli scienziati dicono cose diverse e contrastanti. Perché io devo smettere di commerciare se il mio concorrente continua: alla fine della pestilenza lui sarà più ricco di me. E se il mio padrone mi ordina di continuare a lavorare io come faccio a smettere; dopo che faccio, come mantengo la mia famiglia? Dobbiamo comunque garantire i servizi essenziali. E poi io non mi ammalo: tanto muoiono solo i vecchi. Immagino che questo abbiano detto e pensato tanti veneziani in quell'inverno del 1348. 
E pensate cosa doveva essere la quarantena nel 1348, senza telefoni, senza televisione, senza internet. In una nave alla fonda nell'Adriatico, con accanto a te, a meno di un metro, uno che forse poteva avere la peste. E comunque tutti e due puzzavate come capre, viste le scarse possibilità di pulirsi. E senza sapere cosa stava succedendo alla tua famiglia là in città.
Noi invece abbiamo in questi giorni un disperato bisogno di uscire. E sapete cosa faremo appena sarà finita la quarantena? Andremo fuori, brandendo i nostri telefonini, facendo foto inutili e magari collegandoci con la persona con cui fino a qualche ora prima siamo stati in quarantena. Vogliamo andare fuori per essere collegati a internet. Vogliamo andare al bar e al ristorante per poter finalmente chattare. Se vi fate un giro in un parco in una normale domenica primaverile, senza quarantena, vedrete quanti sono collegati, quanti sono impegnati con le teste piegate sui loro telefoni. Giovani e vecchi. Poi naturalmente dobbiamo uscire perché abbiamo assolutamente bisogno di andare in un centro commerciale, in un outlet, perché finalmente possiamo ricominciare a fare shopping. Sempre brandendo il nostro telefono. Anzi quasi sicuramente ne compreremo uno nuovo, perché mentre siamo in quarantena abbiamo visto che il nostro modello è troppo vecchio. Non ci permette di fare le dirette Instagram belle come quelle che ha fatto il nostro vicino, che così ha preso molti più cuoricini di noi. 
Quando sarà tutto finito, non andrà tutto meglio, solo perché qualcuno suona la tromba o la fisarmonica sul balcone di casa o perché in tanti abbiamo condiviso arcobaleni, bandiere, frasette rassicuranti e cose del genere. Lo facciamo a ogni "crisi". I "ricordi" di Facebook ci ricordano impietosamente di quando siamo stati tutti francesi, di quando siamo stati tutti gay, di quando siamo stati tutti klingon, a seconda di come in quel giorno si doveva cambiare la foto del profilo.
Leggo che in questi giorni qualcuno di noi è perfino solidale con i lavoratori dello spettacolo, naturalmente non ci pensiamo affatto ad andare a teatro quando sarà finita l'emergenza: in quei posti hanno il coraggio di chiederci di spegnere i telefoni prima di entrare.
Adesso siamo tutti solidali con medici e infermieri, solo perché pensiamo che possiamo avere bisogno di loro. Finita la quarantena continueremo a evadere le tasse, che - tra le altre cose - permettono di pagare gli stipendi a medici e infermieri e di avere un sistema sanitario efficiente. E poi a cosa servono tanti posti di terapia intensiva, magari vuoti? È un costo che non ci possiamo più permettere. Meglio tagliare. Cosa vuoi che succeda? Vuoi che venga la peste? E comunque muoiono solo i vecchi.

giovedì 5 marzo 2020

Verba volant (758): bisestile...

Bisestile, agg. m.

Il calendario solare non funziona. Anzi non può funzionare, perché il sole per fare il giro completo della terra impiega esattamente 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 46 secondi. Adesso non fate i pignoli, lo so anch'io che è la terra che gira intorno al sole, ma il risultato non cambia, ci sono sempre 5 ore, 48 minuti e 46 secondi che mancano. Però i maschi volevano che fosse il sole a regolare il corso del tempo, per sottrarre questo potere alle donne e al loro calendario lunare. E quindi a quell'errore bisognava trovare un rimedio.
C'è ad Alessandria questo matematico geniale, Sosigene, che è uno dei consiglieri più influenti della regina Cleopatra. Cinque ore e un po' possono sembrare poca cosa, ma anno dopo anno quella differenza diventa sempre più evidente. E imbarazzante per il potere dei maschi. Sosigene, grazie ai suoi studi, ha trovato un modo per risolvere il problema, ma non può fare nulla da una remota provincia dell'impero. Per fortuna la sua padrona è così intelligente e affascinante che ha fatto perdere la testa a uno degli uomini più potenti di Roma e allora quell'oscuro astronomo egiziano riesce a spiegare a Caio Giulio Cesare la propria idea: se ogni quattro anni si aggiunge un giorno, l'anno solare sarebbe durato 365 giorni e 6 ore. Continua a esserci un errore, questa volta in eccesso, ma di soli 11 minuti e 14 secondi.
Cesare capisce subito che si tratta di una grande idea e siccome tra le sue molte cariche c'è anche quella di pontefice massimo, nel 46 a.C. ha l'opportunità di promulgare un nuovo calendario, che prevede appunto che ogni quattro anni venga aggiunto un giorno dopo il sesto prima delle calende del mese dedicato a Marte. Quel giorno in più si sarebbe chiamato anch'esso sesto, anzi bi-sesto. Per omaggiare Cleopatra, Cesare introduce anche l'uso egiziano di far cominciare l'anno il primo gennaio e non il primo marzo, come hanno sempre fatto i romani. Cosa non si fa per portarsi a letto una donna.
Per sistemare gli errori accumulati nel passato e riportare l'equinozio di primavera al 25 marzo, vengono aggiunti due mesi "straordinari", fra novembre e dicembre, uno di 33 giorni e l'altro di 34. Il 46 a.C. è durato così 445 giorni e per questo si è meritato l'epiteto di annus confusionis, ossia l'anno della confusione. Sono anche altre le cause della confusione, ma gli uomini preferiscono sempre dare la colpa ai calendari. Il 45 a.C., ossia l'anno in cui il calendario giuliano è ufficialmente entrato in vigore, è stato il primo anno bisestile della storia. L'anno successivo Cesare viene ucciso, ma non certo per aver imposto questo nuovo calendario. 
Negli anni successivi alla morte di Cesare calcolare esattamente quali debbano essere gli anni bisestili non è una priorità, e la confusione continua, ma Ottaviano, sconfitta Cleopatra e diventato Augusto, impone la pace e l'ordine, e il calendario giuliano, con quel giorno in più una volta ogni quattro anni, diventa il calendario di tutto il mondo. L'8 a.C. è il primo anno bisestile dell'era augustea. Certo i grandi imperi che sorgono a oriente hanno il loro modo per calcolare il tempo, e anche all'interno dell'impero sopravvivono alcuni vecchi calendari - come quello a cui sono ostinatamente fedeli gli ebrei - addirittura in America - ma ai tempi di Augusto nessuno sa che ci siano queste terre misteriose a occidente - ci sono popoli che usano ancora il calendario lunare. Però sono tempi semplici: se l'imperatore decide che quello è il calendario, tutti si devono adeguare.
Il calendario giuliano accumula un giorno di ritardo ogni 128 anni rispetto al trascorrere delle stagioni: alla fine del Cinquecento l'equinozio di primavera è ormai anticipato all'11 marzo. Anche in quel tempo l'errore comincia a essere evidente. E imbarazzante, tanto più che rende sempre più difficile calcolare esattamente il giorno in cui festeggiare la Pasqua, una festa a cui i "nuovi" pontefici di Roma sono particolarmente legati. Uno di loro, Gregorio XIII, il bolognese Ugo Boncompagni, decide quindi di porre rimedio a questa cosa e costituisce una commissione di esperti, presieduta da Cristoforo Clavio, un gesuita tedesco professore al Collegio Romano, e composta dal calabrese Luigi Lilio, dal siciliano Giuseppe Scala e dal perugino Ignazio Danti, sono tutti esperti di matematica e di astronomia.
Giovedì 4 ottobre 1582 Gregorio XIII - la cui statua domina il voltone d'ingresso di Palazzo d'Accursio a Bologna - firma la bolla papale Inter gravissimas, che introduce il nuovo calendario. Il giorno successivo è venerdì 15 ottobre e in questo modo sono recuperati i giorni "perduti" e viene riallineato il calendario al sole. Per ovviare al problema negli anni successivi, la commissione decide che quel giorno in più non sarebbe stato aggiunto automaticamente ogni quattro anni, come diceva Sosigene. Sono bisestili infatti gli anni non secolari il cui numero è divisibile per quattro - ad esempio il 2020 - e quelli secolari il cui numero è divisibile per quattrocento. Per questo il 1700, il 1800 e il 1900 non sono stati bisestili. Eliminando tre anni bisestili ogni quattrocento, una differenza tra l'anno solare e il calendario rimane, ma è di soli 26 secondi in eccesso, ossia di un giorno ogni 3.323 anni. Il problema ce lo porremo nel 4905, anno in cui presumibilmente non solo noi saremo morti, ma la razza umana si sarà estinta.
L'introduzione del nuovo calendario è un po' più complicata rispetto a quella del giuliano, perché l'autorità del papa non è certo quella di Augusto. I paesi cattolici naturalmente adottano molto presto il gregoriano, ma gli altri resistono. I paesi protestanti lo faranno all'inizio del Settecento, il Regno Unito nel 1752, ma alla lunga tutti si devono adeguare, il mondo "globale" ha bisogno di un unico calendario. Il Giappone lo introduce nel 1873, la Cina nel 1912, la Turchia nel 1924. La chiesa ortodossa non ne vuole sapere di usare il calendario di Roma - e ancora oggi usa quello giuliano - e così sarà il "rivoluzionario" Lenin a introdurre il calendario gregoriano in Russia. E per questo la Rivoluzione d'ottobre si chiama così, anche se è iniziata il 7 novembre.
E oggi solo Iran, Afghanistan, Etiopia e Nepal non adottano ufficialmente il calendario gregoriano.
Il calendario di papa Gregorio XIII è destinato a resistere al tempo. Anche la sua bella statua bronzea, opera di Alessandro Menganti, che si trova a Bologna, dimostra una certa capacità di resistere ai tempi. Quando alla fine del Settecento stanno per entrare le truppe napoleoniche in città, l'Assunteria dei Magistrati, temendo che il generale ne ordini la rimozione per farne cannoni, decide di trasformarla in quella del santo Petronio: basta togliere la tiara e sostituirla con una mitra, aggiungere un pastorale e un'iscrizione in latino Divo Petronio Civitatis Patrono. Come si dice "scherza con i fanti, ma lascia stare i santi" e i francesi non possono certo togliere alla città l'immagine venerata del patrono. Nel 1895, quando ormai il pericolo è passato da tempo, si decide di rimettere le cose a posto e Gregorio torna a benedire chi cammina per piazza Maggiore.
Ci sono curiosi paradossi in queste storie di calendari. Quello giuliano non sarebbe nato se non ci fosse stata Cleopatra, una donna la cui memoria è stata demonizzata dai maschi che l'hanno usata e poi sconfitta. Mentre quello gregoriano è basato essenzialmente sui precisissimi calcoli elaborati da Nicolò Copernico e pubblicati nel De revolutionibus orbium coelestium, un testo messo all'Indice dalla chiesa cattolica. Clavio era un convinto sostenitore della teoria geocentrica e considerava un'eresia la tesi copernicana secondo cui è la terra a girare intorno al sole. I nostri calendari sono figli di una puttana e di un eretico.
Credo meriti di essere ricordato che c'è stato un calendario solare ancora più preciso di quello gregoriano: la differenza rispetto al trascorrere delle stagioni è soltanto di due secondi in eccesso. Purtroppo questo calendario non ha avuto fortuna, è stato adottato in un solo paese e per soli undici anni.
Il 1° ottobre 1929 l'Unione sovietica di Stalin introduce il calendario rivoluzionario sovietico. Tutti i mesi sono composti da trenta giorni. Poi vengono inseriti cinque giorni di festa, che non appartengono a nessun mese: il giorno della festa di Lenin, dopo il 30 gennaio, i due giorni della festa del lavoro, dopo il 30 aprile, e infine i due giorni della festa dell'industria, dopo il 7 novembre. È festa anche il giorno bisestile, che viene inserito dopo il 30 febbraio. Nel calendario rivoluzionario sono bisestili gli anni non secolari il cui numero è divisibile per quattro e gli anni secolari solo se, divisi per nove, danno come resto due o sei: in questo modo ci sono 218 anni bisestili ogni 900 anni.
Quel calendario però impone anche la settimana di cinque giorni. Una pacchia direte voi: un giorno di festa ogni cinque invece che ogni sette. Eppure il popolo non è contento, perché per non fermare la produzione si decide che quel giorno di festa non sia lo stesso per tutti, ma si divide la popolazione in cinque grandi classi, distinte ognuna con un colore, e ogni colore deve far festa in un giorno diverso. E così può succedere che il marito del gruppo rosa faccia festa un giorno diverso dalla moglie del gruppo verde. Diventa praticamente impossibile organizzare i grandi pranzi di famiglia. Eppure, nonostante questo innegabile vantaggio, i russi non amano questo calendario e poi non dà neppure quei risultati sperati in termini di produttività. E così Stalin nel 1940 decide che è meglio tornare alla settimana di sette giorni - e tutti a casa la domenica - e naturalmente al calendario gregoriano. Un altro curioso paradosso: puoi anche essere Stalin, ma alla fine è il popolo che sceglie il calendario.