sabato 31 luglio 2010
Stazione di Bologna, 2 agosto 1980
Antonella Ceci, anni 19
Angela Marino, anni 23
Leo Luca Marino, anni 24
Domenica Marino, anni 26
Errica Frigerio in Diomede Fresa, anni 57
Vito Diomede Fresa, anni 62
Cesare Francesco Diomede Fresa, anni 14
Anna Maria Bosio in Mauri, anni 28
Carlo Mauri, anni 32
Luca Mauri, anni 6
Eckhardt Mader, anni 14
Margret Rohrs in Mader, anni 39
Kai Mader, anni 8
Sonia Burri, anni 7
Patrizia Messineo, anni 18
Silvana Serravalli in Barbera, anni 34
Manuela Gallon, anni 11
Natalia Agostini in Gallon, anni 40
Marina Antonella Trolese, anni 16
Anna Maria Salvagnini in Trolese, anni 51
Roberto De Marchi, anni 21
Elisabetta Manea ved. De Marchi, anni 60
Eleonora Geraci in Vaccaro, anni 46
Vittorio Vaccaro, anni 24
Velia Carli in Lauro, anni 50
Salvatore Lauro, anni 57
Paolo Zecchi, anni 23
Viviana Bugamelli in Zecchi, anni 23
Catherine Helen Mitchell, anni 22
John Andrew Kolpinski, anni 22
Angela Fresu, anni 3
Maria Fresu, anni 24
Loredana Molina in Sacrati, anni 44
Angelica Tarsi, anni 72
Katia Bertasi, anni 34
Mirella Fornasari, anni 36
Euridia Bergianti, anni 49
Nilla Natali, anni 25
Franca Dall'olio, anni 20
Rita Verde, anni 23
Flavia Casadei, anni 18
Giuseppe Patruno, anni 18
Rossella Marceddu, anni 19
Davide Caprioli, anni 20
Vito Ales, anni 20
Iwao Sekiguchi, anni 20
Brigitte Drouhard, anni 21
Roberto Procelli, anni 21
Mauro Alganon, anni 22
Maria Angela Marangon, anni 22
Verdiana Bivona, anni 22
Francesco Gomez Martinez, anni 23
Mauro Di Vittorio, anni 24
Sergio Secci, anni 24
Roberto Gaiola, anni 25
Angelo Priore, anni 26
Onofrio Zappalà, anni 27
Pio Carmine Remollino, anni 31
Gaetano Roda, anni 31
Antonino Di Paola, anni 32
Mirco Castellaro, anni 33
Nazzareno Basso, anni 33
Vincenzo Petteni, anni 34
Salvatore Seminara, anni 34
Carla Gozzi, anni 36
Umberto Lugli, anni 38
Fausto Venturi, anni 38
Argeo Bonora, anni 42
Francesco Betti, anni 44
Mario Sica, anni 44
Pier Francesco Laurenti, anni 44
Paolino Bianchi, anni 50
Vincenzina Sala in Zanetti, anni 50
Berta Ebner, anni 50
Vincenzo Lanconelli, anni 51
Lina Ferretti in Mannocci, anni 53
Romeo Ruozi, anni 54
Amorveno Marzagalli, anni 54
Antonio Francesco Lascala, anni 56
Rosina Barbaro in Montani, anni 58
Irene Breton in Boudouban, anni 61
Pietro Galassi, anni 66
Lidia Olla in Cardillo, anni 67
Maria Idria Avati, anni 80
Antonio Montanari, anni 86
giovedì 29 luglio 2010
"Appuntamento a ora insolita" di Vittorio Sereni
La città - mi dico - dove l'ombra
quasi più deliziosa è della luce
come sfavilla tutta nuova al mattino...
"... asciuga il temporale di stanotte"... ride
la mia gioia tornata accanto a me
dopo un breve distacco.
"Asciuga al sole le sue contraddizioni"
- torvo, già sul punto di cedere, ribatto.
Ma la forma l'immagine il sembiante
- d'angelo avrei detto in altri tempi -
risorto accanto a me nella vetrina:
"caro - mi dileggia apertamente - caro,
con quella faccia di vacanza. E pensi
alla città socialista?"
Ha vinto. E già mi sciolgo: "Non
arriverò a vederla" le rispondo.
(Non saremo più insieme dovrei dire).
"Ma è giusto,
fai bene a non badarmi se dico queste cose,
se le dico per odio di qualcuno
o rabbia per qualcosa. Ma credi all'altra
cosa che si fa strada in me di tanto in tanto
che in sé le altre include e le fa splendide,
rara come questa mattina di settembre...
giusto di te fra me e me parlavo:
della gioia."
Mi prende sottobraccio.
"Non è vero che è rara, - mi correggo - c'è,
la si porta come una ferita
per le strade abbaglianti. È
quest'ora di settembre in me repressa
per tutto un anno, è la volpe rubata che il ragazzo
celava sotto i panni e il fianco gli straziava,
un'arma che si reca con abuso, fuori
dal breve sogno di una vacanza.
Potrei
con questa uccidere, con la sola gioia..."
Ma dove sei, dove ti sei mai persa?
"È a questo che penso se qualcuno
mi parla di rivoluzione"
dico alla vetrina ritornata deserta.
martedì 27 luglio 2010
Considerazioni libere (146): a proposito di risorse per la cultura....
Mi sembra utile far conoscere ai miei sparuti lettori - che sempre caldamente ringrazio per la loro attenzione e la loro benevolenza - alcuni dati che Carla Moreni ha illustrato in un suo interessante articolo apparso sull'inserto culturale de Il Sole 24 ore di domenica scorsa.
Da alcuni anni il 65% del pubblico del Rossini Opera Festival - che si tiene a fine estate a Pesaro da 31 anni - è fatto di stranieri. Sempre al Rof dei 120 giornalisti accreditati, 70 sono stranieri, da tutte le parti del mondo.
Gli organizzatori del Festival Verdi di Parma hanno destinato quattromila biglietti, circa un quarto del totale, a operatori turistici stranieri: sono già stati tutti venduti attraverso pacchetti turistici che prevedono soggiorni brevi nel nostro paese. Si calcola che l'indotto generato da questi visitatori sia di circa 12 milioni di euro, per un festival che costa la metà.
Si tratta evidentemente di appuntamenti importanti, con interpreti e allestimenti di grande livello, e non si può pensare di ripetere esperienze come queste in tutto il nostro paese, eppure questi numeri ci dovrebbero far riflettere sulle grandi potenzialità di questo settore del nostro panorama culturale. So bene che ci sono in giro per l'Italia enti lirici che sprecano risorse da decenni, so bene che in troppi casi gli orchestrali godono di privilegi e di rendite di posizione francamente ingiustificabili, eppure la soluzione non può essere quella proposta dal ministro Bondi - e di tanti altri suoi predecessori e, temo, successori - di tagliare in maniera indiscriminata le risorse da destinare al teatro musicale italiano. La soluzione non può neppure essere di lasciare tutto come è adesso - come sperano in troppi, che in questi anni ci hanno guadagnato, al di là dei loro meriti - pena la fine di tante esperienze importanti e di una tradizione importante, che è profondamente italiana.
Dire che la cultura può essere una delle principali risorse del nostro paese è stato detto così tante volte da suonare fin banale: il problema è che nessuno ci crede davvero. Dovrebbe essere un caposaldo del programma di governo di qualsiasi forza politica, ma invece...
Da alcuni anni il 65% del pubblico del Rossini Opera Festival - che si tiene a fine estate a Pesaro da 31 anni - è fatto di stranieri. Sempre al Rof dei 120 giornalisti accreditati, 70 sono stranieri, da tutte le parti del mondo.
Gli organizzatori del Festival Verdi di Parma hanno destinato quattromila biglietti, circa un quarto del totale, a operatori turistici stranieri: sono già stati tutti venduti attraverso pacchetti turistici che prevedono soggiorni brevi nel nostro paese. Si calcola che l'indotto generato da questi visitatori sia di circa 12 milioni di euro, per un festival che costa la metà.
Si tratta evidentemente di appuntamenti importanti, con interpreti e allestimenti di grande livello, e non si può pensare di ripetere esperienze come queste in tutto il nostro paese, eppure questi numeri ci dovrebbero far riflettere sulle grandi potenzialità di questo settore del nostro panorama culturale. So bene che ci sono in giro per l'Italia enti lirici che sprecano risorse da decenni, so bene che in troppi casi gli orchestrali godono di privilegi e di rendite di posizione francamente ingiustificabili, eppure la soluzione non può essere quella proposta dal ministro Bondi - e di tanti altri suoi predecessori e, temo, successori - di tagliare in maniera indiscriminata le risorse da destinare al teatro musicale italiano. La soluzione non può neppure essere di lasciare tutto come è adesso - come sperano in troppi, che in questi anni ci hanno guadagnato, al di là dei loro meriti - pena la fine di tante esperienze importanti e di una tradizione importante, che è profondamente italiana.
Dire che la cultura può essere una delle principali risorse del nostro paese è stato detto così tante volte da suonare fin banale: il problema è che nessuno ci crede davvero. Dovrebbe essere un caposaldo del programma di governo di qualsiasi forza politica, ma invece...
lunedì 26 luglio 2010
Considerazioni libere (145): a proposito di guerre "pulite"...
Le cronache della prima guerra mondiale ci raccontano di comandanti che ordinavano insensati attacchi contro le linee nemiche, in cui perdevano la vita decine e decine di giovani soldati: operazioni votate all'insuccesso, destinate a spezzare, con la conquista di una collina o di pochi metri di terreno, la tragica immobilità della guerra di trincea.
Questo succedeva quasi un secolo fa; ora i generali sono ben più attenti all'opinione pubblica e quindi cercano di combattere una guerra asettica, "pulita", senza morti, almeno dalla propria parte del fronte. Un bravo generale, capace di controllare i giornalisti in una conferenza-stampa quanto i nemici sul campo di battaglia, sa che non solo deve vincere, ma non deve perdere neppure uno dei suoi uomini.
A Gaza l'esercito israeliano sta sperimentando da qualche tempo un sistema di fucili radiocomandati, posti sulle mura che delimitano i confini della Striscia, e manovrati in una sala di controllo, lontana e sicura, da donne soldato in forza all'Israel Defense Forces. Israele ha addestrato infatti un corpo scelto di donne soldato, di 19 e 20 anni, con il compito di stare sedute davanti a una consolle, controllando sullo schermo la linea di confine e manovrando i joystick di comando dei fucili. E' quasi un videogioco, ma naturalmente coloro che si trovano nel mirino di questi fucili non sono animazioni virtuali, ma persone in carne e ossa. Queste giovani donne soldato forse non potrebbero definirsi cecchini, eppure il loro compito è proprio quello: pattugliare attraverso una telecamera un tratto di muro, osservare movimenti sospetti e in caso che avvenga qualcosa di anomalo, sparare. Basta un click, la pressione sul bottone del joystick, e l'uomo al di là dello schermo cade a terra, senza alcun rischio per la ragazza che spara, che la sera può tranquillamente tornare a casa. Immagino che nessuna di loro sarà davvero tranquilla una volta ritornata a casa: decidere in pochi secondi della vita e della morte di una persona è una responsabilità che forse non andrebbe lasciato a un giovane da poco maggiorenne.
Non voglio in questa mia "considerazione" parlare di Israele e della Palestina, ho già avuto modo in altre occasioni di esprimere la mia opinione. Avrei scritto le stesse cose se il sistema di controllo radiocomandato fosse stato allestito da Hamas e gestito da giovani ragazze palestinesi. D'altra parte, nelle guerre in Iraq e in Afghanistan, gli Stati Uniti stanno utilizzando in misura sempre più massiccia i droni radiocomandati, controllati da basi militari nel Nevada. E altri stati si stanno dotando di questa tecnologia, se già non l'hanno sperimentata. E non voglio neppure soffermarmi sugli errori: i droni statunitensi hanno ucciso decine di civili, anche bambini, scambiati per terroristi così come i fucili israeliani hanno diverse volte colpito bersagli sbagliati: è in fondo una conseguenza inevitabile della guerra, visto che non esistono né bombe intelligenti né soldati infallibili.
Al di là di chi spara, mi preoccupa che vengano banalizzati la morte e il rischio di morire. In fondo chi si trova a guidare un drone o a maneggiare un fucile posto a chilometri a distanza finisce per non essere troppo diverso dal proprio coetaneo che quotidianamente siede davanti al suo computer, armato di joystick, per combattere una battaglia virtuale. Naturalmente non è così per chi si trova al centro del mirino, ma questo il soldato-giocatore, il soldato che non corre mai pericolo, rischia di non saperlo mai.
Questo succedeva quasi un secolo fa; ora i generali sono ben più attenti all'opinione pubblica e quindi cercano di combattere una guerra asettica, "pulita", senza morti, almeno dalla propria parte del fronte. Un bravo generale, capace di controllare i giornalisti in una conferenza-stampa quanto i nemici sul campo di battaglia, sa che non solo deve vincere, ma non deve perdere neppure uno dei suoi uomini.
A Gaza l'esercito israeliano sta sperimentando da qualche tempo un sistema di fucili radiocomandati, posti sulle mura che delimitano i confini della Striscia, e manovrati in una sala di controllo, lontana e sicura, da donne soldato in forza all'Israel Defense Forces. Israele ha addestrato infatti un corpo scelto di donne soldato, di 19 e 20 anni, con il compito di stare sedute davanti a una consolle, controllando sullo schermo la linea di confine e manovrando i joystick di comando dei fucili. E' quasi un videogioco, ma naturalmente coloro che si trovano nel mirino di questi fucili non sono animazioni virtuali, ma persone in carne e ossa. Queste giovani donne soldato forse non potrebbero definirsi cecchini, eppure il loro compito è proprio quello: pattugliare attraverso una telecamera un tratto di muro, osservare movimenti sospetti e in caso che avvenga qualcosa di anomalo, sparare. Basta un click, la pressione sul bottone del joystick, e l'uomo al di là dello schermo cade a terra, senza alcun rischio per la ragazza che spara, che la sera può tranquillamente tornare a casa. Immagino che nessuna di loro sarà davvero tranquilla una volta ritornata a casa: decidere in pochi secondi della vita e della morte di una persona è una responsabilità che forse non andrebbe lasciato a un giovane da poco maggiorenne.
Non voglio in questa mia "considerazione" parlare di Israele e della Palestina, ho già avuto modo in altre occasioni di esprimere la mia opinione. Avrei scritto le stesse cose se il sistema di controllo radiocomandato fosse stato allestito da Hamas e gestito da giovani ragazze palestinesi. D'altra parte, nelle guerre in Iraq e in Afghanistan, gli Stati Uniti stanno utilizzando in misura sempre più massiccia i droni radiocomandati, controllati da basi militari nel Nevada. E altri stati si stanno dotando di questa tecnologia, se già non l'hanno sperimentata. E non voglio neppure soffermarmi sugli errori: i droni statunitensi hanno ucciso decine di civili, anche bambini, scambiati per terroristi così come i fucili israeliani hanno diverse volte colpito bersagli sbagliati: è in fondo una conseguenza inevitabile della guerra, visto che non esistono né bombe intelligenti né soldati infallibili.
Al di là di chi spara, mi preoccupa che vengano banalizzati la morte e il rischio di morire. In fondo chi si trova a guidare un drone o a maneggiare un fucile posto a chilometri a distanza finisce per non essere troppo diverso dal proprio coetaneo che quotidianamente siede davanti al suo computer, armato di joystick, per combattere una battaglia virtuale. Naturalmente non è così per chi si trova al centro del mirino, ma questo il soldato-giocatore, il soldato che non corre mai pericolo, rischia di non saperlo mai.
venerdì 23 luglio 2010
Considerazioni libere (144): a proposito di Faith...
Questa è una storia che è cominciata in Nigeria, è continuata a Bologna e ora rischia di finire in maniera tragica là dove è iniziata. Si è svolta e sta andando avanti nell'indifferenza di una città che pensa ad altro - alle ferie, al Civis, alle primarie - e che evidentemente ha dimenticato parte della propria anima. Per fortuna qualcuno ne ha parlato e quindi - grazie anche alla velocità della rete - possiamo sperare che la storia di Faith venga conosciuta dal maggior numero di persone. Possiamo sperare che questa giovane donna nigeriana venga salvata da un destino che sembra segnato e soprattutto possiamo sperare che questa vicenda ci insegni qualcosa per il futuro.
Faith Aiworo è una ragazza nigeriana di 23 anni che è fuggita dal suo paese perché condannata a morte: ha ucciso l'uomo che stava tentando di violentarla. Circa tre anni fa è arrivata in Emilia-Romagna, ha cercato di rifarsi una vita; è riuscita ad evitare la strada - dove "lavorano" tante sue connazionali - e ha trascorso questi anni lavorando duramente, senza diritti e senza permesso di soggiorno. Due settimane fa ha subito un nuovo tentativo di violenza sessuale, ma fortunatamente le sue urla hanno allarmato i vicini che hanno chiamato i carabinieri. Il suo aggressore è finito in carcere, mentre Faith è stata condotta nel Cie di Bologna, il Centro di identificazione ed espulsione. Contro di lei è stato emesso un provvedimento di espulsione, che, dal momento che è il terzo, è stato immediatamente eseguito. Ora Faith è in Nigeria, di nuovo in carcere e su di lei pesa la condanna a morte.
Faith doveva essere considerata una rifugiata politica, doveva essere accolta nel nostro paese perché nel suo rischia la vita ingiustamente. Faith deve essere salvata dalla mobilitazione delle istituzioni italiane - prima di tutto il Ministero degli esteri - e delle associazioni, come Amnesty che si occupano quotidianamente dei diritti umani. Questa è la prima cosa da fare, senza tentennamenti. Ma poi bisogna anche riscrivere una legge ingiusta, che non ha saputo difendere i diritti di questa giovane donna; evidentemente esistono degli automatismi nei provvedimenti di fermo ed espulsione che bisogna saper fermare in casi estremi come quelli che ora stiamo raccontando. Infine bisogna che ci sia un sussulto nelle coscienze, perché questa storia non può essere relegata in una pagina di cronaca, ci mette davanti a problemi enormi: i diritti delle donne nei paesi in via di sviluppo, i rapporti tra il nostro paese e quei paesi che non rispettano i diritti umani elementari, le politiche di accoglienza e di asilo. La storia di Faith non è una storia di cronaca estiva.
Faith Aiworo è una ragazza nigeriana di 23 anni che è fuggita dal suo paese perché condannata a morte: ha ucciso l'uomo che stava tentando di violentarla. Circa tre anni fa è arrivata in Emilia-Romagna, ha cercato di rifarsi una vita; è riuscita ad evitare la strada - dove "lavorano" tante sue connazionali - e ha trascorso questi anni lavorando duramente, senza diritti e senza permesso di soggiorno. Due settimane fa ha subito un nuovo tentativo di violenza sessuale, ma fortunatamente le sue urla hanno allarmato i vicini che hanno chiamato i carabinieri. Il suo aggressore è finito in carcere, mentre Faith è stata condotta nel Cie di Bologna, il Centro di identificazione ed espulsione. Contro di lei è stato emesso un provvedimento di espulsione, che, dal momento che è il terzo, è stato immediatamente eseguito. Ora Faith è in Nigeria, di nuovo in carcere e su di lei pesa la condanna a morte.
Faith doveva essere considerata una rifugiata politica, doveva essere accolta nel nostro paese perché nel suo rischia la vita ingiustamente. Faith deve essere salvata dalla mobilitazione delle istituzioni italiane - prima di tutto il Ministero degli esteri - e delle associazioni, come Amnesty che si occupano quotidianamente dei diritti umani. Questa è la prima cosa da fare, senza tentennamenti. Ma poi bisogna anche riscrivere una legge ingiusta, che non ha saputo difendere i diritti di questa giovane donna; evidentemente esistono degli automatismi nei provvedimenti di fermo ed espulsione che bisogna saper fermare in casi estremi come quelli che ora stiamo raccontando. Infine bisogna che ci sia un sussulto nelle coscienze, perché questa storia non può essere relegata in una pagina di cronaca, ci mette davanti a problemi enormi: i diritti delle donne nei paesi in via di sviluppo, i rapporti tra il nostro paese e quei paesi che non rispettano i diritti umani elementari, le politiche di accoglienza e di asilo. La storia di Faith non è una storia di cronaca estiva.
giovedì 22 luglio 2010
"Oh, che será" di Chico Buarque De Hollanda
O que será que será
Que andam suspirando pelas alcovas
Que andam sussurando em versos e trovas
Que andam combinando no breu das tocas
Que anda nas cabeças, anda nas bocas
Que andam acendendo velas nos becos
Que estão falando alto pelos botecos
Que gritam nos mercados, que com certeza
Está na natureza, será que será
O que não tem certeza, nem nunca terá
O que não tem conserto, nem nunca terá
O que não tem tamanho
O que será que será
Que vive nas idéias desses amantes
Que cantam os poetas mais delirantes
Que juram os profetas embriagados
Que está na romaria dos mutilados
Que está na fantasia dos infelizes
Que está no dia-a-dia das meretrizes
No plano dos bandidos, dos desvalidos
Em todos os sentidos, será que será
O que não tem decéncia, nem nunca terá
O que não tem censura, nem nunca terá
O que não faz sentido
O que será que será
Que todos os avisos não vão evitar
Porque todos os risos vão desafiar
Porque todos os sinos irão repicar
Porque todos os hinos irão consagrar
E todos os meninos vão desembestar
E todos os destinos irão se encontrar
E o mesmo Padre Eterno que nunca foi lá
Olhando aquele inferno, vai abbençoar
O que não tem governo, nem nunca terá
O que não tem vergonha nem nunca terá
O que não tem juízo
ascoltate la canzone, interpretata dallo stesso Chico Buarque, cliccando qui
Oh, che sarà, che sarà
che vanno sospirando nelle alcove
che vanno sussurrando in versi e strofe
che vanno combinando in fondo al buio
che gira nelle teste, nelle parole
che accende le candele nelle processioni
che va parlando forte nei portoni
e grida nei mercati che con certezza
sta nella natura nella bellezza
quel che non ha ragione
né mai ce l'avrà
quel che non ha rimedio
né mai ce l'avrà
quel che non ha misura.
Oh, che sarà, che sarà
che vive nell'idea di questi amanti
che cantano i poeti più deliranti
che giurano i profeti ubriacati
che sta sul cammino dei mutilati
e nella fantasia degli infelici
che sta nel dai-e-dai delle meretrici
nel piano derelitto dei banditi.
Oh, che sarà, che sarà
quel che non ha decenza
né mai ce l'avrà
quel che non ha censura
né mai ce l'avrà
quel che non ha ragione.
Ah che sarà, che sarà
che tutti i loro avvisi non potranno evitare
che tutte le risate andranno a sfidare
che tutte le campane andranno a cantare
e tutti gli inni insieme a consacrare
e tutti i figli insieme a purificare
e i nostri destini ad incontrare
persino il Padreterno da così lontano
guardando quell'inferno dovrà benedire
quel che non ha governo
né mai ce l'avrà
quel che non ha vergogna
né mai ce l'avrà
quel che non ha giudizio.
ascoltate la canzone, adattata da Ivano Fossati e intrepretata da Fiorella Mannoia, cliccando qui
da "Il fu Mattia Pascal" di Luigi Pirandello
Tutto sudato e impolverato, don Eligio scende dalla scala e viene a prendere una boccata d'aria nell'orticello che ha trovato modo di far sorgere qui dietro l'abside, riparato giro giro da stecchi e spuntoni. "Eh, mio reverendo amico", gli dico io, seduto sul murello, col mento appoggiato al pomo del bastone, mentr'egli attende alle sue lattughe. "Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!". "Oh oh oh, che c'entra Copernico!", esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia. "C'entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava...". "E dàlli! Ma se ha sempre girato!". "Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso non gira. L'ho detto l'altro giorno a un vecchio contadino, e sapete come m'ha risposto? ch'era una buona scusa per gli ubriachi. Del resto, anche voi scusate, non potete mettere in dubbio che Giosuè fermò il Sole. Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, e l'uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosi particolari. Si legge o non si legge in Quintiliano, come voi m'avete insegnato, che la storia doveva esser fatta per raccontare e non per provare?". "Non nego", risponde don Eligio, "ma è vero altresì che non si sono mai scritti libri così minuti, anzi minuziosi in tutti i più riposti particolari, come dacché, a vostro dire, la Terra s'è messa a girare". "E va bene! Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo precise... La signora contessa indossò un abito lilla con una ricca fioritura di merletti alla gola... Teresina si moriva di fame... Lucrezia spasimava d'amore... Oh, santo Dio! e che volete che me n'importi? Siamo o non siamo su un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po' più di caldo, ora un po' più di freddo, e per farci morire - spesso con la coscienza d'aver commesso una sequela di piccole sciocchezze - dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d'impazienza, e ha sbuffato un po' di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più? Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare che per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l'uomo si distrae facilmente. Questo è vero. Il nostro Comune, in certe notti segnate nel calendario, non fa accendere i lampioni, e spesso - se è nuvolo - ci lascia al bujo. Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili".
Considerazioni libere (143): a proposito di rifiuti galleggianti...
Saramago, in suo celebre romanzo, La zattera di pietra, immagina che la penisola iberica si stacchi dall'Europa e si metta a navigare per l'oceano.
Nell'oceano Pacifico da diversi anni di trova il cosiddetto Pacific trash vortex, noto anche come Great Pacific garbage patch, ossia la grande chiazza di immondizia del Pacifico: un accumulo galleggiante formato prevalemtemente di plastica che "naviga" tra il 135° e il 155° meridiano ovest e tra il 35° e il 42° parallelo nord. Secondo le stime che registrano un'estensione minore sarebbe di 700mila kmq - ossia più grande della penisola iberica - per un totale di 3 milioni di tonnellate di plastica. Ma ci sono scienziati che danno numeri ben più preoccupanti.
L'accumulo di immondizia proprio in quella zona è cominciato a partire dagli anni '50, per effetto di una corrente oceanica dotta di un movimento a spirale in senso orario, che fa sì che i rifiuti tendano ad aggreggarsi. Naturalmente la corrente era presente ben prima degli anni '50 e probabilmente anche i rifiuti, ma solo dalla metà del secolo scorso si trova la plastica che non è biodegrabile e rimane a galleggiare sull'oceano. I rifiuti arrivano per l'80% dalla terraferma, ossia dalla costa occidentale dell'America del nord e dalle coste orientali dell'Asia e per la restante parte dai rifiuti delle navi e delle piattaforme petrolifere e dalla perdita di container, a causa della imprevidibilità delle correnti.
Sono facilmente intuibili i danni all'ambiente marino e alle specie viventi che vivono in quella zona; secondo una stima dell'Onu nella zona del Pacific trash vortex muoiono ogni anno un milioni di uccelli e oltre 100mila mammiferi marini.
Questi rifiuti sono abbastanza lontani dalla terraferma perché nessun governo se ne preoccupi troppo, ma rimangono comunque un problema per tutti, che ci dovrebbe finalmente interrogare sul nostro modello di sviluppo.
Nell'oceano Pacifico da diversi anni di trova il cosiddetto Pacific trash vortex, noto anche come Great Pacific garbage patch, ossia la grande chiazza di immondizia del Pacifico: un accumulo galleggiante formato prevalemtemente di plastica che "naviga" tra il 135° e il 155° meridiano ovest e tra il 35° e il 42° parallelo nord. Secondo le stime che registrano un'estensione minore sarebbe di 700mila kmq - ossia più grande della penisola iberica - per un totale di 3 milioni di tonnellate di plastica. Ma ci sono scienziati che danno numeri ben più preoccupanti.
L'accumulo di immondizia proprio in quella zona è cominciato a partire dagli anni '50, per effetto di una corrente oceanica dotta di un movimento a spirale in senso orario, che fa sì che i rifiuti tendano ad aggreggarsi. Naturalmente la corrente era presente ben prima degli anni '50 e probabilmente anche i rifiuti, ma solo dalla metà del secolo scorso si trova la plastica che non è biodegrabile e rimane a galleggiare sull'oceano. I rifiuti arrivano per l'80% dalla terraferma, ossia dalla costa occidentale dell'America del nord e dalle coste orientali dell'Asia e per la restante parte dai rifiuti delle navi e delle piattaforme petrolifere e dalla perdita di container, a causa della imprevidibilità delle correnti.
Sono facilmente intuibili i danni all'ambiente marino e alle specie viventi che vivono in quella zona; secondo una stima dell'Onu nella zona del Pacific trash vortex muoiono ogni anno un milioni di uccelli e oltre 100mila mammiferi marini.
Questi rifiuti sono abbastanza lontani dalla terraferma perché nessun governo se ne preoccupi troppo, ma rimangono comunque un problema per tutti, che ci dovrebbe finalmente interrogare sul nostro modello di sviluppo.
Considerazioni libere (142): a proposito di madri povere...
Tra le pur scarse notizie di ieri - quest'anno ai giornalisti manca terribilmente il consueto "giallo dell'estate" - non è riuscita a emergere la denuncia dello psicologo e psicoterapeuta Giuseppe Raspadori su quanto avvenuto nelle scorse settimane al tribunale dei minori di Trento.
Questa, in breve, la storia. Una giovane donna, che può contare unicamente sul suo reddito di 500 euro al mese, rimasta incinta, ha deciso di portare comunque avanti la gravidanza, chiedendo un affido condiviso per il bambino che in questa prima fase non sarebbe stata in grado di mantenere. Il tribunale, nonostante la ragazza non abbia problemi di tossicodipendenza né siano emersi altri elementi per giustificare un provvedimento del genere, senza convocarla e senza parlare con lei, ha deciso di avviare un procedimento di adozione, togliendole il bambino alla nascita, con una tempestività inconsueta per i tribunali italiani. Solo dopo un mese la giovane ha potuto incontrare il magistrato - qui si ricominciano a riconoscere i tempi "normali" della giustizia italiana - che ha deciso di avviare una perizia per verificare le sue capacità genitoriali. Rivedrà probabilmente il proprio figlio tra otto mesi: questi mesi, fondamentali per la crescita di un bambino, sono stati rubati a lei e a suo figlio, con un atto di incredibile violenza. I diritti della madre e del bambino sono stati calpestati e naturalmente per quel giudice non ci sarà nessuna conseguenza.
Temo però che la responsabilità di questa vicenda non sia soltanto di un giudice incompetente e forse frettoloso, ma di una società che tollera con sempre più fastidio i poveri. In fondo l'unica "colpa" della madre di Trento è appunto quella di essere povera. I poveri ci sono - e purtroppo aumentano in questi tempi di crisi - eppure di loro non si parla mai. A volte può capitare di parlare dei poverissimi, dei senzatetto, dei barboni - magari per lamentare che la loro presenza è un elemento di degrado delle nostre città - ma praticamente nessuno si occupa mai di quelle persone che non sanno come andare avanti, che dipendono dalle buone azioni delle parrocchie e delle associazioni di volontariato. E ancora meno ci si occupa di quelli che scivolano verso la povertà, di quelli che, per una gran numero di motivi, vedono perdere le certezze delle loro vite.
Non so cosa abbia fatto scattare la decisione di quel giudice, ma probabilmente in tanti avrebbero tratto la conseguenza che una madre povera non può essere una buona madre. Naturalmente non è così, la capacità di una madre - e anche di un padre, ovviamente - si misura con altri metri: certo è importante che abbia le risorse per nutrire suo figlio, ma occorre soprattutto che lo desideri e lo ami. La madre di Trento ha tanto desiderato suo figlio da non prendere una decisione che nessuno le avrebbe rinfacciato, in quelle condizioni. Se non quei soloni che poi, dall'alto delle loro responsabilità, non fanno nulla per attivare veri servizi alle donne e alle famiglie. La madre di Trento ha chiesto aiuto, ma non le è stato risposto, la sua voce non è neppure arrivata. In fondo i poveri non esistono.
La povertà non è una malattia incurabile, da tempo abbiamo scoperto la cura.
Questa, in breve, la storia. Una giovane donna, che può contare unicamente sul suo reddito di 500 euro al mese, rimasta incinta, ha deciso di portare comunque avanti la gravidanza, chiedendo un affido condiviso per il bambino che in questa prima fase non sarebbe stata in grado di mantenere. Il tribunale, nonostante la ragazza non abbia problemi di tossicodipendenza né siano emersi altri elementi per giustificare un provvedimento del genere, senza convocarla e senza parlare con lei, ha deciso di avviare un procedimento di adozione, togliendole il bambino alla nascita, con una tempestività inconsueta per i tribunali italiani. Solo dopo un mese la giovane ha potuto incontrare il magistrato - qui si ricominciano a riconoscere i tempi "normali" della giustizia italiana - che ha deciso di avviare una perizia per verificare le sue capacità genitoriali. Rivedrà probabilmente il proprio figlio tra otto mesi: questi mesi, fondamentali per la crescita di un bambino, sono stati rubati a lei e a suo figlio, con un atto di incredibile violenza. I diritti della madre e del bambino sono stati calpestati e naturalmente per quel giudice non ci sarà nessuna conseguenza.
Temo però che la responsabilità di questa vicenda non sia soltanto di un giudice incompetente e forse frettoloso, ma di una società che tollera con sempre più fastidio i poveri. In fondo l'unica "colpa" della madre di Trento è appunto quella di essere povera. I poveri ci sono - e purtroppo aumentano in questi tempi di crisi - eppure di loro non si parla mai. A volte può capitare di parlare dei poverissimi, dei senzatetto, dei barboni - magari per lamentare che la loro presenza è un elemento di degrado delle nostre città - ma praticamente nessuno si occupa mai di quelle persone che non sanno come andare avanti, che dipendono dalle buone azioni delle parrocchie e delle associazioni di volontariato. E ancora meno ci si occupa di quelli che scivolano verso la povertà, di quelli che, per una gran numero di motivi, vedono perdere le certezze delle loro vite.
Non so cosa abbia fatto scattare la decisione di quel giudice, ma probabilmente in tanti avrebbero tratto la conseguenza che una madre povera non può essere una buona madre. Naturalmente non è così, la capacità di una madre - e anche di un padre, ovviamente - si misura con altri metri: certo è importante che abbia le risorse per nutrire suo figlio, ma occorre soprattutto che lo desideri e lo ami. La madre di Trento ha tanto desiderato suo figlio da non prendere una decisione che nessuno le avrebbe rinfacciato, in quelle condizioni. Se non quei soloni che poi, dall'alto delle loro responsabilità, non fanno nulla per attivare veri servizi alle donne e alle famiglie. La madre di Trento ha chiesto aiuto, ma non le è stato risposto, la sua voce non è neppure arrivata. In fondo i poveri non esistono.
La povertà non è una malattia incurabile, da tempo abbiamo scoperto la cura.
martedì 20 luglio 2010
da "Lezioni americane" di Italo Calvino
Dedicherò la prima conferenza all'opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d'aver più cose da dire. Dopo quarant'anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l'ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio. [...] Oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime: come i messaggi del Dna, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall'inizio dei tempi... Poi, l'informatica. E' vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza del hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo d'elaborare programmi sempre più complessi. La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d'acciaio, ma come i bits d'un flusso d'informazione che corre sui circuiti sotto forma d'impulsi elettronici. Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso. E' legittimo estrapolare dal discorso delle scienze un'immagine del mondo che corrisponda ai miei desideri? Se l'operazione che sto tentando mi attrae, è perché sento che essa potrebbe riannodarsi a un filo molto antico nella storia della poesia. Il De rerum natura di Lucrezio è la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero. Lucrezio vuole scrivere il poema della materia ma ci avverte subito che la vera realtà di questa materia è fatta di corpuscoli invisibili. E' il poeta della concretezza fisica, vista nella sua sostanza permanente e immutabile, ma per prima cosa ci dice che il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi. La più grande preoccupazione di Lucrezio sembra quella di evitare che il peso della materia ci schiacci. Al momento di stabilire le rigorose leggi meccaniche che determinano ogni evento, egli sente il bisogno di permettere agli atomi delle deviazioni imprevedibili dalla linea retta, tali da garantire la libertà tanto alla materia quanto agli esseri umani. La poesia dell'invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, cosi come la poesia del nulla nascono da un poeta che non ha dubbi sulla fisicità del mondo. Questa polverizzazione della realtà s'estende anche agli aspetti visibili, ed è là che eccelle la qualità poetica di Lucrezio: i granelli di polvere che turbinano in un raggio di sole in una stanza buia (II, 114-124); le minute conchiglie tutte simili e tutte diverse che l'onda mollemente spinge sulla bibula barena, sulla sabbia che s'imbeve (II, 374-376); le ragnatele che ci avvolgono senza che noi ce ne accorgiamo mentre camminiamo (III, 381-390). [...] Come la melanconia è la tristezza diventata leggera, cosi lo humour è il comico che ha perso la pesantezza corporea (quella dimensione della carnalità umana che pur fa grandi Boccaccio e Rabelais) e mette in dubbio l'io e il mondo e tutta la rete di relazioni che li costituiscono. Melanconia e humour mescolati e inseparabili caratterizzano l'accento del Principe di Danimarca che abbiamo imparato a riconoscere in tutti o quasi i drammi shakespeariani sulle labbra dei tanti avatars del personaggio Amleto. Uno di essi, Jaques in As You Like It, cosi definisce la melanconia (atto IV, scena I):
... but it is a melancholy of my own,
compounded of many simples, extracted from
many objects, and indeed the sundry
contemplation of my travels, which, by
often rumination, wraps me in a most
humorous sadness.
... è la mia peculiare malinconia
composta da elementi diversi, quintessenza
di varie sostanze, e più precisamente di
tante differenti esperienze di viaggi
durante i quali quel perpetuo ruminare mi
ha sprofondato in una capricciosissima
tristezza.
Non è una melanconia compatta e opaca, dunque, ma un velo di particelle minutissime d'umori e sensazioni, un pulviscolo d'atomi come tutto ciò che costituisce l'ultima sostanza della molteplicità delle cose.
... but it is a melancholy of my own,
compounded of many simples, extracted from
many objects, and indeed the sundry
contemplation of my travels, which, by
often rumination, wraps me in a most
humorous sadness.
... è la mia peculiare malinconia
composta da elementi diversi, quintessenza
di varie sostanze, e più precisamente di
tante differenti esperienze di viaggi
durante i quali quel perpetuo ruminare mi
ha sprofondato in una capricciosissima
tristezza.
Non è una melanconia compatta e opaca, dunque, ma un velo di particelle minutissime d'umori e sensazioni, un pulviscolo d'atomi come tutto ciò che costituisce l'ultima sostanza della molteplicità delle cose.
lunedì 19 luglio 2010
da "Se questo è un uomo" di Primo Levi
Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto.
…Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando
come fosse la lingua che parlasse,
mise fuori la voce, e disse: Quando…
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare che prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere “antica”.
E dopo “Quando”? Il nulla, Un buco della memoria. Prima che sì Enea la nominasse. Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: …la pietà del vecchio padre, né ’l debito amore che doveva Penelope far lieta… sarà poi esatto?
…Ma misi me per l’alto mare...
Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché “misi me” non è “je me mis”, è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là della barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.
Siamo arrivati a Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori dalla trincea. Mi fa un cenno con la mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare.
“Mare aperto”. “Mare aperto”. So che rima con “diserto”: …quella compagna picciola, dalla qual non fui diserto, ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi:
…Acciò che l’uom più oltre non si metta...
“Si metta”: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, “e misi me”. Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia un’osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.
Ecco, attento Pikolo, apri gli occhi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
fatte non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Li miei compagni fec’io sì acuti…
…e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo “acuti”. Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. …Lo lume era di sotto della luna o qualcosa di simile; ma prima?… Nessuna idea, “keine Ahnung” come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.
- ça ne fait rien, vas-y tout de meme.
Quando mi apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
che mai veduta non ne avevo alcuna.
Sì, sì, “alta tanto”, non “molto alta”, proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano… le montagne… oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.
Darei la zuppa di oggi per sapere saldare “non ne avevo alcuna” col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danno per il capo altri versi: …la terra lagrimosa diede vento… no, è un’altra cosa. E’ tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
alla quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, come altrui piacque…
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…
Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. - Kraut und Ruben? - Kraut und Ruben -. Si annuncia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: - Choux et navets. - Kaposzta es repark.
Infin che ’l mar fu sopra noi rinchiuso.
…Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando
come fosse la lingua che parlasse,
mise fuori la voce, e disse: Quando…
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare che prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere “antica”.
E dopo “Quando”? Il nulla, Un buco della memoria. Prima che sì Enea la nominasse. Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: …la pietà del vecchio padre, né ’l debito amore che doveva Penelope far lieta… sarà poi esatto?
…Ma misi me per l’alto mare...
Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché “misi me” non è “je me mis”, è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là della barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.
Siamo arrivati a Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori dalla trincea. Mi fa un cenno con la mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare.
“Mare aperto”. “Mare aperto”. So che rima con “diserto”: …quella compagna picciola, dalla qual non fui diserto, ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi:
…Acciò che l’uom più oltre non si metta...
“Si metta”: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, “e misi me”. Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia un’osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.
Ecco, attento Pikolo, apri gli occhi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
fatte non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Li miei compagni fec’io sì acuti…
…e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo “acuti”. Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. …Lo lume era di sotto della luna o qualcosa di simile; ma prima?… Nessuna idea, “keine Ahnung” come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.
- ça ne fait rien, vas-y tout de meme.
Quando mi apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
che mai veduta non ne avevo alcuna.
Sì, sì, “alta tanto”, non “molto alta”, proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano… le montagne… oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.
Darei la zuppa di oggi per sapere saldare “non ne avevo alcuna” col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danno per il capo altri versi: …la terra lagrimosa diede vento… no, è un’altra cosa. E’ tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
alla quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, come altrui piacque…
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…
Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. - Kraut und Ruben? - Kraut und Ruben -. Si annuncia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: - Choux et navets. - Kaposzta es repark.
Infin che ’l mar fu sopra noi rinchiuso.
domenica 18 luglio 2010
"Non sa più nulla, è alto sulle ali" di Vittorio Sereni
Non sa più nulla, è alto sulle ali
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.
Per questo qualcuno stanotte
mi toccava la spalla mormorando
di pregar per l'Europa
mentre la Nuova Armada
si presentava alle coste di Francia.
Ho risposto nel sonno: - E' il vento,
il vento che fa musiche bizzarre.
Ma se tu fossi davvero
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna
prega tu se lo puoi, io sono morto
alla guerra e alla pace.
Questa è la musica ora:
delle tende che sbattono sui pali.
Non è musica d'angeli, è la mia
sola musica e mi basta. -
Considerazioni libere (141): a proposito di poveri...
Poco meno di un mese fa ho riportato su questo blog un celebre passo di un discorso che Robert Kennedy, allora candidato alla presidenza degli Stati Uniti, tenne all'università del Kansas. Kennedy, con un'intuizione allora rivoluzionaria, spiegava ai suoi ascoltatori che il Pil era uno strumento inadeguato per misurare la felicità e il benessere delle persone. "Il Pil - diceva - non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari".
Dal '68 a oggi, nonostante siano aumentati coloro che pensano che questo indicatore sia insufficiente per descrivere la civiltà di un paese, i politici e gli studiosi di scienze sociali hanno continuato a utilizzare questo valore, strettamente legato alla ricchezza e alla povertà dei beni materiali.
Il Pil non racconta né la realtà dei paesi ricchi e sviluppati né quella dei paesi poveri. Per questa ragione gli studiosi dell'Oxford poverty and human development initiative hanno sviluppato il Multidimensional poverty index, un sistema che calcola, insieme al valore della ricchezza, anche altri fattori, come il livello d'istruzione, l'accesso all'acqua potabile e all'energia elettrica. L'aspetto interessante è che gli studiosi dell'università inglese non si basano soltanto su dati di natura statistica, ma coinvolgono direttamente le popolazioni, partendo dalla considerazione che nessuno è "esperto" di povertà quanto i poveri stessi; sono prima di tutto i poveri infatti che, quando descrivono la propria condizione, includono come elementi discriminanti - oltre alla salute, agli standard di vita e al livello d'istruzione - anche la possibilità di avere un lavoro equamente retribuito, la protezione dalla violenza domestica, la relazioni sociali, la dignità e la possibilità di agire come protagonisti dei propri destini. Come ho già avuto modo di dire un aspetto importante per misurare il livello di un paese è quello di capire che ruolo e che dignità rivestono le donne in quella società. La prospettiva multidimesionale è importante perché ci fa capire che il problema non è soltanto quello della quantità della ricchezza, ma quello della sua distribuzione, e aggiunge il valore della speranza.
In questi giorni sono usciti alcuni primi dati di questi studi che in parte confermano le analisi macroeconomiche, ma che dovrebbero anche farci riflettere sulle scelte di sviluppo di alcuni paesi. La situazione dell'Africa è nauralmente drammatica: in Niger ad esempio il 93% della popolazione è povera in termini multidimensionali. Però è l'Asia meridionale, a causa della sua consistenza demografica, il luogo dove ci sono più poveri al mondo: il 51% del totale. Ci sono più poveri in India che nei 26 stati più miseri dell'Africa. In otto stati nord occidentali della confederazione indiana vivono 420 milioni di poveri, mentre nel continente africano sono 410 milioni. Eppure l'India è un paese "emergente", siede nel consesso dei G20: certo l'economia di quel paese è importante, ma i rischi che la crescita azzeri molti altri valori è altrettanto alto. Mi è già capitato di scrivere di alcune contraddizioni presenti in quel paese, come lo sviluppo della medicina per favorire contro la fecondità e il dramma delle madri surrogate (nella "considerazione" nr. 105, per la precisione).
Sarebbe interessante capire quali valori potrebbero emergere da un'analisi multidimensionale della povertà applicata ai cosiddetti paesi ricchi....
Dal '68 a oggi, nonostante siano aumentati coloro che pensano che questo indicatore sia insufficiente per descrivere la civiltà di un paese, i politici e gli studiosi di scienze sociali hanno continuato a utilizzare questo valore, strettamente legato alla ricchezza e alla povertà dei beni materiali.
Il Pil non racconta né la realtà dei paesi ricchi e sviluppati né quella dei paesi poveri. Per questa ragione gli studiosi dell'Oxford poverty and human development initiative hanno sviluppato il Multidimensional poverty index, un sistema che calcola, insieme al valore della ricchezza, anche altri fattori, come il livello d'istruzione, l'accesso all'acqua potabile e all'energia elettrica. L'aspetto interessante è che gli studiosi dell'università inglese non si basano soltanto su dati di natura statistica, ma coinvolgono direttamente le popolazioni, partendo dalla considerazione che nessuno è "esperto" di povertà quanto i poveri stessi; sono prima di tutto i poveri infatti che, quando descrivono la propria condizione, includono come elementi discriminanti - oltre alla salute, agli standard di vita e al livello d'istruzione - anche la possibilità di avere un lavoro equamente retribuito, la protezione dalla violenza domestica, la relazioni sociali, la dignità e la possibilità di agire come protagonisti dei propri destini. Come ho già avuto modo di dire un aspetto importante per misurare il livello di un paese è quello di capire che ruolo e che dignità rivestono le donne in quella società. La prospettiva multidimesionale è importante perché ci fa capire che il problema non è soltanto quello della quantità della ricchezza, ma quello della sua distribuzione, e aggiunge il valore della speranza.
In questi giorni sono usciti alcuni primi dati di questi studi che in parte confermano le analisi macroeconomiche, ma che dovrebbero anche farci riflettere sulle scelte di sviluppo di alcuni paesi. La situazione dell'Africa è nauralmente drammatica: in Niger ad esempio il 93% della popolazione è povera in termini multidimensionali. Però è l'Asia meridionale, a causa della sua consistenza demografica, il luogo dove ci sono più poveri al mondo: il 51% del totale. Ci sono più poveri in India che nei 26 stati più miseri dell'Africa. In otto stati nord occidentali della confederazione indiana vivono 420 milioni di poveri, mentre nel continente africano sono 410 milioni. Eppure l'India è un paese "emergente", siede nel consesso dei G20: certo l'economia di quel paese è importante, ma i rischi che la crescita azzeri molti altri valori è altrettanto alto. Mi è già capitato di scrivere di alcune contraddizioni presenti in quel paese, come lo sviluppo della medicina per favorire contro la fecondità e il dramma delle madri surrogate (nella "considerazione" nr. 105, per la precisione).
Sarebbe interessante capire quali valori potrebbero emergere da un'analisi multidimensionale della povertà applicata ai cosiddetti paesi ricchi....
giovedì 15 luglio 2010
da "L'età dei diritti" di Norberto Bobbio
Partiamo dal presupposto che i diritti umani sono cose desiderabili, cioè fini meritevoli di essere perseguiti, e che, nonostante la loro desiderabilità, non sono ancora stati tutti, dappertutto, e in egual misura, riconosciuti, e siamo spinti dalla convinzione che il trovarne un fondamento, cioè addurre motivi per giustificare la scelta che abbiamo fatta e che vorremmo fosse fatta anche dagli altri, sia un mezzo adeguato ad ottenerne un più ampio riconoscimento.
Dallo scopo che la ricerca del fondamento si propone nasce l'illusione del fondamento assoluto, l'illusione cioè che, a furia di accumulare e vagliare ragioni ed argomenti, si finirà per trovare la ragione e l'argomento irresistibile cui nessuno potrà rifiutare di dare la propria adesione. [...] Questa illusione fu comune per secoli ai giusnaturalisti, i quali credettero di aver messo certi diritti (ma non erano sempre gli stessi) al riparo di ogni possibile confutazione derivandoli direttamente dalla natura dell'uomo. Ma come fondamento assoluto di diritti irresistibili la natura dell'uomo dimostrò di essere molto fragile. [...] Kant aveva ragionevolmente ridotti i diritti irresistibili (egli diceva " innati ") ad uno solo: la libertà. Ma che cosa è la libertà?
Questa illusione oggi non è più possibile; ogni ricerca del fondamento assoluto è, a sua volta, infondata. [...] La maggior parte delle definizioni dei diritti umani sono tautologiche: "Diritti dell'uomo sono quelli che spettano all'uomo in quanto uomo ". [...] Oppure, quando si aggiunge qualche riferimento al contenuto, non si può fare a meno di introdurre termini di valore: "Diritti dell'uomo sono quelli il cui riconoscimento è condizione necessaria per il perfezionamento della persona umana oppure per lo sviluppo della civiltà ecc. ecc.". E qui nasce una nuova difficoltà: i termini di valore sono interpretabili in modo diverso secondo l'ideologia assunta dall'interprete; infatti, in che cosa consista il perfezionamento della persona umana o lo sviluppo della civiltà, è oggetto di molti appassionanti ma insolubili contrasti.
I diritti dell'uomo costituiscono una classe variabile come la storia di questi ultimi secoli mostra a sufficienza. L'elenco dei diritti dell'uomo si è modificato e va modificandosi col mutare delle condizioni storiche, cioè dei bisogni e degli interessi, delle classi al potere, dei mezzi disponibili per la loro attuazione, delle trasformazioni tecniche, ecc. Diritti che erano stati dichiarati assoluti alla fine del Settecento, come la proprietà "sacre et inviolable", sono stati sottoposti a radicali limitazioni nelle dichiarazioni contemporanee; diritti che le dichiarazioni del Settecento non menzionavano neppure, come i diritti sociali, sono ormai proclamati con grande ostentazione in tutte le dichiarazioni recenti. Non è difficile prevedere che in avvenire potranno emergere nuove pretese che ora non riusciamo neppure a intravedere, come il diritto a non portare le armi contro la propria volontà, o il diritto di rispettare la vita anche degli animali, e non solo degli uomini. Il che prova che non vi sono diritti per loro natura fondamentali. Ciò che sembra fondamentale in un'epoca storica e in una determinata civiltà, non è fondamentale in altre epoche e in altre culture.
Non si vede come si possa dare un fondamento assoluto di diritti storicamente relativi. Del resto non bisogna aver paura del relativismo. La constatata pluralità delle concezioni religiose e morali è un fatto storico, anch'esso soggetto a mutamento. Il relativismo che da questa pluralità deriva, è anch'esso relativo. E poi proprio questo pluralismo è l'argomento più forte a favore di alcuni diritti dell'uomo, più celebrati, come la libertà di religione e in genere la libertà di pensiero. Se non fossimo convinti della irriducibile pluralità delle concezioni ultime, e se fossimo convinti, al contrario, che asserzioni religiose, etiche e politiche sono dimostrabili come teoremi (ancora una volta era l'illusione dei giusnaturalisti, di un Hobbes, ad esempio, che chiamava "teoremi" le leggi naturali), i diritti alla libertà religiosa o alla libertà di pensiero politico perderebbero la loro ragione di essere, o per lo meno acquisterebbero un altro significato: sarebbero non il diritto di avere la propria religione personale o di esprimere il proprio pensiero politico, bensì il diritto di non essere distolti con la forza dal perseguire la ricerca dell'unica verità religiosa e dell'unico bene politico.
Si ponga mente alla profonda differenza che esiste tra il diritto alla libertà religiosa e il diritto alla libertà scientifica. Il diritto alla libertà religiosa consiste nel diritto a professare qualsiasi religione e anche a non professarne nessuna. Il diritto alla libertà scientifica consiste non nel diritto a professare qualsiasi verità scientifica o anche a non averne nessuna, ma essenzialmente nel diritto a non esser ostacolati nel perseguimento della ricerca scientifica.
Oltre che mal definibile e variabile la classe dei diritti dell'uomo è anche eterogenea. Tra i diritti compresi nella stessa dichiarazione vi sono pretese molto diverse tra loro e, quel che è peggio, anche incompatibili. Pertanto le ragioni che valgono per sostenere le une non valgono per sostenere le altre. In questo caso, non si dovrebbe parlare di fondamento, ma di fondamenti dei diritti dell'uomo, di diversi fondamenti secondo il diritto le cui buone ragioni si desidera difendere.
Tutte le dichiarazioni recenti dei diritti dell'uomo comprendono, oltre ai tradizionali diritti individuali che consistono in libertà, i cosiddetti diritti sociali che consistono in poteri. Le prime richiedono da parte degli altri (ivi compresi gli organi pubblici) obblighi puramente negativi, di astenersi da determinati comportamenti; i secondi possono essere realizzati solo se vengono imposti ad altri (ivi compresi gli organi pubblici) un certo numero di obblighi positivi. Sono antinomici nel senso che il loro sviluppo non può procedere parallelamente: l'attuazione integrale degli uni impedisce l'attuazione integrale degli altri. Più aumentano i poteri dei singoli, più diminuiscono, degli stessi singoli, le libertà. Si tratta di due situazioni giuridiche così diverse che gli argomenti fatti valere per sostenere la prima non valgono per sostenere la seconda. I due principali argomenti per introdurre alcune libertà tra i diritti fondamentali sono: a) la irriducibilità delle credenze ultime; b) la credenza che l'individuo quanto più è libero tanto più possa progredire moralmente e possa promuovere anche il progresso materiale della società. Orbene di questi due argomenti il primo è, per giustificare la richiesta di nuovi poteri, irrilevante, il secondo si è rivelato storicamente falso.
Orbene, due diritti fondamentali ma antinomici non possono avere, gli uni e gli altri, un fondamento assoluto, un fondamento cioè che, renda un diritto e il suo opposto, entrambi, inconfutabili e irresistibili. Anzi è bene ricordare che storicamente l'illusione del fondamento assoluto di alcuni diritti stabiliti è stata di ostacolo all'introduzione di nuovi diritti incompatibili con quelli. Si pensi alle remore poste al progresso della legislazione sociale dalla teoria giusnaturalistica del fondamento assoluto della proprietà: l'opposizione quasi secolare contro l'introduzione dei diritti sociali è stata fatta in nome del fondamento assoluto dei diritti di libertà. Il fondamento assoluto non è soltanto un'illusione; qualche volta è anche un pretesto per difendere posizioni conservatrici.
Sin qui ho esposto alcune ragioni per cui credo improponibile una ricerca del fondamento assoluto dei diritti dell'uomo. Ma vi è un altro aspetto della questione, che è emerso da queste ultime considerazioni. Si tratta di sapere se la ricerca del fondamento assoluto, qualora sia coronata da successo, ottenga il risultato sperato di far conseguire più rapidamente e più efficacemente il riconoscimento e l'attuazione dei diritti dell'uomo. Qui viene in discussione il secondo dogma del razionalismo etico che è poi la seconda illusione del giusnaturalismo: che i valori ultimi non solo si possano dimostrare come teoremi, ma che basti averli dimostrati, cioè resi in un certo senso inconfutabili e irresistibili per assicurarne l'attuazione. Accanto al dogma della dimostrabilità dei valori ultimi, la cui infondatezza si è cercato di mostrare nei paragrafi precedenti, il razionalismo etico, nella sua forma più radicale e antica, sostiene anche che la dimostrata razionalità di un valore è condizione non solo necessaria ma sufficiente della sua attuazione. Il primo dogma assicura la potenza della ragione; il secondo ne assicura il primato.
Questo secondo dogma del razionalismo etico, e del giusnaturalismo, che del razionalismo etico è l'espressione storica più cospicua, è smentito dall'esperienza storica. Adduco su questo punto tre argomenti. Prima di tutto, non si può dire che i diritti dell'uomo siano stati rispettati di più nelle età in cui i dotti erano concordi nel ritenere di aver trovato per difenderli un argomento inconfutabile, cioè un fondamento assoluto: la loro derivabilità dall'essenza o dalla natura dell'uomo. In secondo luogo, nonostante la crisi dei fondamenti, per la prima volta in questi decenni la maggior parte dei governi esistenti hanno proclamato di comune accordo una dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Di conseguenza, dopo questa dichiarazione il problema dei fondamenti ha perduto gran parte del suo interesse. Se la maggior parte dei governi esistenti si sono accordati in una dichiarazione comune, è segno che, hanno trovato buone ragioni per farlo. Perciò, ora non si tratta tanto di cercare altre ragioni, o addirittura, come vorrebbero i giusnaturalisti redivivi, la ragione delle ragioni, ma di porre le condizioni per una più ampia e scrupolosa attuazione dei diritti proclamati. Certamente, per dare la propria opera alla creazione di queste condizioni, bisogna essere convinti che l'attuazione dei diritti dell'uomo è un fine desiderabile; ma non basta questa convinzione perché quelle condizioni si realizzino. Molte di queste condizioni (e così passo al terzo argomento) non dipendono dalla buona volontà neppure dei governanti e tanto meno dalle buone ragioni addotte per dimostrare la bontà assoluta di quei diritti: solo la trasformazione industriale in un paese, per esempio, rende possibile la protezione dei diritti connessi ai rapporti di lavoro. Si ricordi che il più forte argomento addotto dai reazionari di tutti i paesi contro i diritti dell'uomo, in specie contro i diritti sociali, non è già la loro mancanza di fondamento, ma la loro inattuabilità. Quando si tratta di enunciarli l'accordo è ottenuto con relativa facilità, indipendentemente dalla maggiore o minore convinzione del loro fondamento assoluto: quando si tratta di passare all'azione, fosse pure il fondamento indiscutibile, cominciano le riserve e le opposizioni. Il problema di fondo relativo ai diritti dell'uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. E un problema non filosofico ma politico.
Che esista una crisi dei fondamenti è innegabile. Bisogna prenderne atto, ma non tentare di superarla cercando altro fondamento assoluto da sostituire a quello perduto. Il nostro compito, oggi, è molto più modesto, ma anche più difficile. Non si tratta di trovare il fondamento assoluto impresa sublime ma disperata ma, di volta in volta, i vari fondamenti possibili. Senonché anche questa ricerca dei fondamenti possibili impresa legittima e non destinata come l'altra all'insuccesso non avrà alcuna importanza storica se non sarà accompagnata dallo studio delle condizioni, dei mezzi e delle situazioni in cui questo o quel diritto possa essere realizzato. Tale studio è compito delle scienze storiche e sociali. Il problema filosofico dei diritti dell'uomo non può essere dissociato dallo studio dei problemi storici, sociali, economici, psicologici, inerenti alla loro attuazione: il problema dei fini da quello dei mezzi. Ciò significa che il filosofo non è più solo. Il filosofo, che si ostina a restar solo, finisce per condannare la filosofia alla sterilità. Questa crisi dei fondamenti è anche un aspetto della crisi della filosofia.
Dallo scopo che la ricerca del fondamento si propone nasce l'illusione del fondamento assoluto, l'illusione cioè che, a furia di accumulare e vagliare ragioni ed argomenti, si finirà per trovare la ragione e l'argomento irresistibile cui nessuno potrà rifiutare di dare la propria adesione. [...] Questa illusione fu comune per secoli ai giusnaturalisti, i quali credettero di aver messo certi diritti (ma non erano sempre gli stessi) al riparo di ogni possibile confutazione derivandoli direttamente dalla natura dell'uomo. Ma come fondamento assoluto di diritti irresistibili la natura dell'uomo dimostrò di essere molto fragile. [...] Kant aveva ragionevolmente ridotti i diritti irresistibili (egli diceva " innati ") ad uno solo: la libertà. Ma che cosa è la libertà?
Questa illusione oggi non è più possibile; ogni ricerca del fondamento assoluto è, a sua volta, infondata. [...] La maggior parte delle definizioni dei diritti umani sono tautologiche: "Diritti dell'uomo sono quelli che spettano all'uomo in quanto uomo ". [...] Oppure, quando si aggiunge qualche riferimento al contenuto, non si può fare a meno di introdurre termini di valore: "Diritti dell'uomo sono quelli il cui riconoscimento è condizione necessaria per il perfezionamento della persona umana oppure per lo sviluppo della civiltà ecc. ecc.". E qui nasce una nuova difficoltà: i termini di valore sono interpretabili in modo diverso secondo l'ideologia assunta dall'interprete; infatti, in che cosa consista il perfezionamento della persona umana o lo sviluppo della civiltà, è oggetto di molti appassionanti ma insolubili contrasti.
I diritti dell'uomo costituiscono una classe variabile come la storia di questi ultimi secoli mostra a sufficienza. L'elenco dei diritti dell'uomo si è modificato e va modificandosi col mutare delle condizioni storiche, cioè dei bisogni e degli interessi, delle classi al potere, dei mezzi disponibili per la loro attuazione, delle trasformazioni tecniche, ecc. Diritti che erano stati dichiarati assoluti alla fine del Settecento, come la proprietà "sacre et inviolable", sono stati sottoposti a radicali limitazioni nelle dichiarazioni contemporanee; diritti che le dichiarazioni del Settecento non menzionavano neppure, come i diritti sociali, sono ormai proclamati con grande ostentazione in tutte le dichiarazioni recenti. Non è difficile prevedere che in avvenire potranno emergere nuove pretese che ora non riusciamo neppure a intravedere, come il diritto a non portare le armi contro la propria volontà, o il diritto di rispettare la vita anche degli animali, e non solo degli uomini. Il che prova che non vi sono diritti per loro natura fondamentali. Ciò che sembra fondamentale in un'epoca storica e in una determinata civiltà, non è fondamentale in altre epoche e in altre culture.
Non si vede come si possa dare un fondamento assoluto di diritti storicamente relativi. Del resto non bisogna aver paura del relativismo. La constatata pluralità delle concezioni religiose e morali è un fatto storico, anch'esso soggetto a mutamento. Il relativismo che da questa pluralità deriva, è anch'esso relativo. E poi proprio questo pluralismo è l'argomento più forte a favore di alcuni diritti dell'uomo, più celebrati, come la libertà di religione e in genere la libertà di pensiero. Se non fossimo convinti della irriducibile pluralità delle concezioni ultime, e se fossimo convinti, al contrario, che asserzioni religiose, etiche e politiche sono dimostrabili come teoremi (ancora una volta era l'illusione dei giusnaturalisti, di un Hobbes, ad esempio, che chiamava "teoremi" le leggi naturali), i diritti alla libertà religiosa o alla libertà di pensiero politico perderebbero la loro ragione di essere, o per lo meno acquisterebbero un altro significato: sarebbero non il diritto di avere la propria religione personale o di esprimere il proprio pensiero politico, bensì il diritto di non essere distolti con la forza dal perseguire la ricerca dell'unica verità religiosa e dell'unico bene politico.
Si ponga mente alla profonda differenza che esiste tra il diritto alla libertà religiosa e il diritto alla libertà scientifica. Il diritto alla libertà religiosa consiste nel diritto a professare qualsiasi religione e anche a non professarne nessuna. Il diritto alla libertà scientifica consiste non nel diritto a professare qualsiasi verità scientifica o anche a non averne nessuna, ma essenzialmente nel diritto a non esser ostacolati nel perseguimento della ricerca scientifica.
Oltre che mal definibile e variabile la classe dei diritti dell'uomo è anche eterogenea. Tra i diritti compresi nella stessa dichiarazione vi sono pretese molto diverse tra loro e, quel che è peggio, anche incompatibili. Pertanto le ragioni che valgono per sostenere le une non valgono per sostenere le altre. In questo caso, non si dovrebbe parlare di fondamento, ma di fondamenti dei diritti dell'uomo, di diversi fondamenti secondo il diritto le cui buone ragioni si desidera difendere.
Tutte le dichiarazioni recenti dei diritti dell'uomo comprendono, oltre ai tradizionali diritti individuali che consistono in libertà, i cosiddetti diritti sociali che consistono in poteri. Le prime richiedono da parte degli altri (ivi compresi gli organi pubblici) obblighi puramente negativi, di astenersi da determinati comportamenti; i secondi possono essere realizzati solo se vengono imposti ad altri (ivi compresi gli organi pubblici) un certo numero di obblighi positivi. Sono antinomici nel senso che il loro sviluppo non può procedere parallelamente: l'attuazione integrale degli uni impedisce l'attuazione integrale degli altri. Più aumentano i poteri dei singoli, più diminuiscono, degli stessi singoli, le libertà. Si tratta di due situazioni giuridiche così diverse che gli argomenti fatti valere per sostenere la prima non valgono per sostenere la seconda. I due principali argomenti per introdurre alcune libertà tra i diritti fondamentali sono: a) la irriducibilità delle credenze ultime; b) la credenza che l'individuo quanto più è libero tanto più possa progredire moralmente e possa promuovere anche il progresso materiale della società. Orbene di questi due argomenti il primo è, per giustificare la richiesta di nuovi poteri, irrilevante, il secondo si è rivelato storicamente falso.
Orbene, due diritti fondamentali ma antinomici non possono avere, gli uni e gli altri, un fondamento assoluto, un fondamento cioè che, renda un diritto e il suo opposto, entrambi, inconfutabili e irresistibili. Anzi è bene ricordare che storicamente l'illusione del fondamento assoluto di alcuni diritti stabiliti è stata di ostacolo all'introduzione di nuovi diritti incompatibili con quelli. Si pensi alle remore poste al progresso della legislazione sociale dalla teoria giusnaturalistica del fondamento assoluto della proprietà: l'opposizione quasi secolare contro l'introduzione dei diritti sociali è stata fatta in nome del fondamento assoluto dei diritti di libertà. Il fondamento assoluto non è soltanto un'illusione; qualche volta è anche un pretesto per difendere posizioni conservatrici.
Sin qui ho esposto alcune ragioni per cui credo improponibile una ricerca del fondamento assoluto dei diritti dell'uomo. Ma vi è un altro aspetto della questione, che è emerso da queste ultime considerazioni. Si tratta di sapere se la ricerca del fondamento assoluto, qualora sia coronata da successo, ottenga il risultato sperato di far conseguire più rapidamente e più efficacemente il riconoscimento e l'attuazione dei diritti dell'uomo. Qui viene in discussione il secondo dogma del razionalismo etico che è poi la seconda illusione del giusnaturalismo: che i valori ultimi non solo si possano dimostrare come teoremi, ma che basti averli dimostrati, cioè resi in un certo senso inconfutabili e irresistibili per assicurarne l'attuazione. Accanto al dogma della dimostrabilità dei valori ultimi, la cui infondatezza si è cercato di mostrare nei paragrafi precedenti, il razionalismo etico, nella sua forma più radicale e antica, sostiene anche che la dimostrata razionalità di un valore è condizione non solo necessaria ma sufficiente della sua attuazione. Il primo dogma assicura la potenza della ragione; il secondo ne assicura il primato.
Questo secondo dogma del razionalismo etico, e del giusnaturalismo, che del razionalismo etico è l'espressione storica più cospicua, è smentito dall'esperienza storica. Adduco su questo punto tre argomenti. Prima di tutto, non si può dire che i diritti dell'uomo siano stati rispettati di più nelle età in cui i dotti erano concordi nel ritenere di aver trovato per difenderli un argomento inconfutabile, cioè un fondamento assoluto: la loro derivabilità dall'essenza o dalla natura dell'uomo. In secondo luogo, nonostante la crisi dei fondamenti, per la prima volta in questi decenni la maggior parte dei governi esistenti hanno proclamato di comune accordo una dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Di conseguenza, dopo questa dichiarazione il problema dei fondamenti ha perduto gran parte del suo interesse. Se la maggior parte dei governi esistenti si sono accordati in una dichiarazione comune, è segno che, hanno trovato buone ragioni per farlo. Perciò, ora non si tratta tanto di cercare altre ragioni, o addirittura, come vorrebbero i giusnaturalisti redivivi, la ragione delle ragioni, ma di porre le condizioni per una più ampia e scrupolosa attuazione dei diritti proclamati. Certamente, per dare la propria opera alla creazione di queste condizioni, bisogna essere convinti che l'attuazione dei diritti dell'uomo è un fine desiderabile; ma non basta questa convinzione perché quelle condizioni si realizzino. Molte di queste condizioni (e così passo al terzo argomento) non dipendono dalla buona volontà neppure dei governanti e tanto meno dalle buone ragioni addotte per dimostrare la bontà assoluta di quei diritti: solo la trasformazione industriale in un paese, per esempio, rende possibile la protezione dei diritti connessi ai rapporti di lavoro. Si ricordi che il più forte argomento addotto dai reazionari di tutti i paesi contro i diritti dell'uomo, in specie contro i diritti sociali, non è già la loro mancanza di fondamento, ma la loro inattuabilità. Quando si tratta di enunciarli l'accordo è ottenuto con relativa facilità, indipendentemente dalla maggiore o minore convinzione del loro fondamento assoluto: quando si tratta di passare all'azione, fosse pure il fondamento indiscutibile, cominciano le riserve e le opposizioni. Il problema di fondo relativo ai diritti dell'uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. E un problema non filosofico ma politico.
Che esista una crisi dei fondamenti è innegabile. Bisogna prenderne atto, ma non tentare di superarla cercando altro fondamento assoluto da sostituire a quello perduto. Il nostro compito, oggi, è molto più modesto, ma anche più difficile. Non si tratta di trovare il fondamento assoluto impresa sublime ma disperata ma, di volta in volta, i vari fondamenti possibili. Senonché anche questa ricerca dei fondamenti possibili impresa legittima e non destinata come l'altra all'insuccesso non avrà alcuna importanza storica se non sarà accompagnata dallo studio delle condizioni, dei mezzi e delle situazioni in cui questo o quel diritto possa essere realizzato. Tale studio è compito delle scienze storiche e sociali. Il problema filosofico dei diritti dell'uomo non può essere dissociato dallo studio dei problemi storici, sociali, economici, psicologici, inerenti alla loro attuazione: il problema dei fini da quello dei mezzi. Ciò significa che il filosofo non è più solo. Il filosofo, che si ostina a restar solo, finisce per condannare la filosofia alla sterilità. Questa crisi dei fondamenti è anche un aspetto della crisi della filosofia.
mercoledì 14 luglio 2010
da "Come pensiamo" di John Dewey
Possiamo ricapitolare col dire che l'origine del pensiero sta sempre in una qualche perplessità, confusione o dubbio. Il pensiero non è un caso di combustione spontanea; non accade punto secondo "principi generali". Vi è qualcosa che lo occasiona e lo evoca. I comuni appelli a pensare, rivolti ad un bambino (come ad un adulto), senza tener conto della esistenza o meno, nella sua esperienza, di una qualche difficoltà che lo turbi o che alteri il suo equilibrio, sono altrettanto futili quanto, per cosí dire, l'invitarlo a sollevarsi da terra reggendosi con i lacci delle scarpe. Data una difficoltà, ciò che ne segue immediatamente è il suggerimento di una qualche via d'uscita; la formazione in via di prova di qualche piano o progetto, l'accoglimento di qualche teoria che dia ragione della peculiarità in questione, la considerazione di qualche soluzione del problema. I dati a disposizione non possono fornire la soluzione, possono suggerirla. Da dove nascono, allora, le suggestioni? Evidentemente dall'esperienza passata e dall'avere a disposizione un deposito di conoscenza rilevante. Se in passato si è avuta una qualche familiarità con situazioni del genere, se si è avuto a che fare con materiali della stessa specie, suggestioni piú o meno appropriate e capaci di venire in aiuto non mancheranno di presentarsi. Ma se non vi è stata una qualche esperienza analoga, la confusione rimane confusione. Anche quando un fanciullo (o un adulto) si trova personalmente di fronte ad un problema, è cosa assolutamente futile sollecitarlo insistentemente a pensare se egli non ha mai avuto in precedenza esperienze implicanti condizioni in qualche modo analoghe. Vi può essere, tuttavia, uno stato di perplessità e così pure una precedente esperienza dalla quale emerge un suggerimento e ciò nonostante non esserci un atto di pensiero riflessivo. Infatti si può non essere sufficientemente critici nei riguardi delle idee che vengono in mente. Una persona può arrivare di colpo ad una conclusione senza vagliare i fondamenti su cui poggia, può andare avanti o indebitamente abbreviare l'atto di indagine e di ricerca; prendere la prima "risposta" o soluzione che le viene in mente, o per pigrizia mentale, o per torpore, o per l'impazienza di raggiungere qualcosa di stabile. Si è in grado di pensare riflessivamente solo allorquando si è disposti a prolungare lo stato di sospensione e ad assumersi il fastidio della ricerca. Per molte persone, cosí la sospensione del giudizio, come la ricerca intellettuale, rappresentano una cosa spiacevole: il loro desiderio è di porvi termine il piú presto possibile. Esse coltivano un iperpositivo e dogmatico abito mentale; o forse pensano che una condizione di dubbio debba essere considerata come una prova di inferiorità mentale. Questo momento, in cui l'esame e la prova affiorano nell'indagine, segna la differenza tra il pensiero riflessivo ed un cattivo modo di pensare. Per essere genuinamente pensanti, noi dobbiamo sostenere e protrarre quello stato di dubbio che stimola ad una completa ricerca, in modo da non accettare un'idea o asserire positivamente una credenza finché non si siano trovate fondate ragioni per giustificarla.
"Poveri poeti" di Pablo Neruda
Poveri poeti che la vita e la morte
perseguitaron con la stessa cupa tenacia,
poi son coperti d'impassibil pompa,
abbandonati al rito e al dente funerario.
Essi - oscuri come pietruzze - ora
dietro gli alteri cavalli, distesi
vanno, alfine governati dagli intrusi,
tra i becchini, a dormire senza silenzio.
Anzi, ormai sicuri che il morto è morto
fanno delle esequie un festino miserabile
con tacchini, maiali e altri oratori.
Spirarono la loro morte e allora l'offesero:
solo perché la loro bocca è chiusa
e più non può rispondere al canto.
perseguitaron con la stessa cupa tenacia,
poi son coperti d'impassibil pompa,
abbandonati al rito e al dente funerario.
Essi - oscuri come pietruzze - ora
dietro gli alteri cavalli, distesi
vanno, alfine governati dagli intrusi,
tra i becchini, a dormire senza silenzio.
Anzi, ormai sicuri che il morto è morto
fanno delle esequie un festino miserabile
con tacchini, maiali e altri oratori.
Spirarono la loro morte e allora l'offesero:
solo perché la loro bocca è chiusa
e più non può rispondere al canto.
martedì 13 luglio 2010
Considerazioni libere (140): a proposito di chi parla e di chi sta zitto...
A Mao è attribuita la frase: "grande è la confusione sotto il cielo, dunque tutto è stupendo". Non so a cosa si riferisse il Grande timoniere, ma certo faccio fatica a essere d'accordo con lui, almeno per quel che riguarda le ultime vicende italiane.
La lentissima fine del ciclo di Berlusconi sta letteralmente mettendo in ginocchio il nostro paese. Nonostante il risultato delle elezioni politiche di soli due anni fa, che ha assicurato al centrodestra una maggioranza parlamentare schiacciante, nonostante il successo dell'anno scorso alle elezioni regionali, nonostante i valori e la cultura di questo centrodestra siano nettamente maggioritari nel nostro paese, il governo è assolutamente incapace di imprimere una direzione all'Italia, che rimane ferma e anzi arretra in molti campi. La cosa più grave è che il centrodestra, in questa fase di debolezza di Berlusconi, non riesce a trovare gli anticorpi per sconfiggere il proliferare dei tanti intrallazzatori che approfittano di questa situazione di inattività per prosperare e lucrare. All'ombra di Belusconi è cresciuto questo germinaio di funzionari corrotti, di vecchi e nuovi faccendieri, di puttanieri più o meno "fornitori della real casa", che hanno visto aumetare enormemente il loro potere.
Come ho già avuto modo di scrivere altre volte, in questa fase certamente ci troviamo di fronte al momento scatenante della patologia, ma le cause profonde di questa malattia si trovano nel tessuto profondo di questo paese, che Berlusconi ha blandito e ha saputo rappresentare. Probabilmente in una prima fase ha saputo anche mitigare questi "spiriti animali", anche se non ha li mai voluti sconfiggere, perché fondanti del suo potere, ma ora certamente non ci riesce più e credo che guardi con sincera rabbia a quello che sta avvenendo intorno a lui, rabbia dettata soprattutto dall'impotenza.
Da quello che emerge in questi giorni poi c'è da trarre almeno una prima considerazione. Ha ragione Berlusconi quando dice che in Italia esiste il problema della giustizia. E' un problema se giudici di altissimo livello frequentano disinvoltamente cene e feste esclusive, è un problema se giudici prossimi alla pensione brigano per avere incarichi e procuratele varie, è un problema se in sedi inusuali e più o meno segrete si decide chi deve andare a presiedere questa o quella corte. In Italia, come dicono nel centrodestra, c'è anche il problema di pubblici ministeri che decidono di condurre le loro inchieste spinti da convinzioni politiche, ma soprattutto c'è il problema di una "casta" di magistrati, che guadagna molto, che lavora pochissimo, che è selezionata e scelta in base a criteri non trasparenti. Sotto la protezione della legittima e sacrosanta indipendenza della magistratura, è cresciuta una "burocrazia giudicante" inefficiente, costosa, chiusa e incapace di rinnovarsi, a volte anche disonesta, come purtroppo emerge con troppa frequenza dalle cronache di queste settimane. La riforma della giustizia dovrebbe partire da qui, da una riforma della Cassazione, dai sistemi di nomina dei più alti livelli delle procure e dei tribunali, dalle forme di reclutamento e carriera dei giovani magistrati, dall'introduzione di elementi veri di responsabilizzazione.
C'è poi una seconda cosa che balza agli occhi leggendo i giornali di questi giorni - non posso dire guardando i telegiornali, perché in questo caso i fatti semplicemente non esistono. Tutto il dibattito politico si svolge esclusivamente nell'ambito del centrodestra. Evidentemente sia la coppia Bossi-Tremonti sia Fini si stanno posizionando per il momento in cui Berlusconi uscirà dalla scena. Formigoni si sta ritagliando un proprio profilo settentrionale; in Sicilia sta prevalendo una tentazione autonomista. Casini ha fatto la proposta del governo di larghe intese, provando anch'egli a disegnare una prospettiva per il futuro. Francamente non ritengo che nessuno di questi sia un genio della politica, ma sono quelli che ci sono e più e meno con coerenza cercano di interpretare una linea politica. Nel centrosinistra regna la più completa afasia, eppure di cose da dire mi pare ce ne sarebbero, almeno per denunciare questo stato di cose e per dire che nessuno degli attuali comprimari, aspiranti al ruolo di protagonista, può presentarsi vergine al momento del dopo-Berlusconi. Ho intuito che Bersani è - o è appena stato - negli Stati Uniti perché ho visto che il suo capo ufficio stampa ha scritto dei messaggi personali da Washington sulla sua bacheca di Facebook. Ho visto che il vicesegretario ha presentato in questi giorni il suo libro sull'Europa. Va bene tutto - figurarsi, io poi penso che sia bene sollevarsi dalle beghe della politica interna, per saper guardare a cosa avviene al di là dei nostri confini - ma questo è il momento di parlare. Se si ha qualcosa da dire.
La lentissima fine del ciclo di Berlusconi sta letteralmente mettendo in ginocchio il nostro paese. Nonostante il risultato delle elezioni politiche di soli due anni fa, che ha assicurato al centrodestra una maggioranza parlamentare schiacciante, nonostante il successo dell'anno scorso alle elezioni regionali, nonostante i valori e la cultura di questo centrodestra siano nettamente maggioritari nel nostro paese, il governo è assolutamente incapace di imprimere una direzione all'Italia, che rimane ferma e anzi arretra in molti campi. La cosa più grave è che il centrodestra, in questa fase di debolezza di Berlusconi, non riesce a trovare gli anticorpi per sconfiggere il proliferare dei tanti intrallazzatori che approfittano di questa situazione di inattività per prosperare e lucrare. All'ombra di Belusconi è cresciuto questo germinaio di funzionari corrotti, di vecchi e nuovi faccendieri, di puttanieri più o meno "fornitori della real casa", che hanno visto aumetare enormemente il loro potere.
Come ho già avuto modo di scrivere altre volte, in questa fase certamente ci troviamo di fronte al momento scatenante della patologia, ma le cause profonde di questa malattia si trovano nel tessuto profondo di questo paese, che Berlusconi ha blandito e ha saputo rappresentare. Probabilmente in una prima fase ha saputo anche mitigare questi "spiriti animali", anche se non ha li mai voluti sconfiggere, perché fondanti del suo potere, ma ora certamente non ci riesce più e credo che guardi con sincera rabbia a quello che sta avvenendo intorno a lui, rabbia dettata soprattutto dall'impotenza.
Da quello che emerge in questi giorni poi c'è da trarre almeno una prima considerazione. Ha ragione Berlusconi quando dice che in Italia esiste il problema della giustizia. E' un problema se giudici di altissimo livello frequentano disinvoltamente cene e feste esclusive, è un problema se giudici prossimi alla pensione brigano per avere incarichi e procuratele varie, è un problema se in sedi inusuali e più o meno segrete si decide chi deve andare a presiedere questa o quella corte. In Italia, come dicono nel centrodestra, c'è anche il problema di pubblici ministeri che decidono di condurre le loro inchieste spinti da convinzioni politiche, ma soprattutto c'è il problema di una "casta" di magistrati, che guadagna molto, che lavora pochissimo, che è selezionata e scelta in base a criteri non trasparenti. Sotto la protezione della legittima e sacrosanta indipendenza della magistratura, è cresciuta una "burocrazia giudicante" inefficiente, costosa, chiusa e incapace di rinnovarsi, a volte anche disonesta, come purtroppo emerge con troppa frequenza dalle cronache di queste settimane. La riforma della giustizia dovrebbe partire da qui, da una riforma della Cassazione, dai sistemi di nomina dei più alti livelli delle procure e dei tribunali, dalle forme di reclutamento e carriera dei giovani magistrati, dall'introduzione di elementi veri di responsabilizzazione.
C'è poi una seconda cosa che balza agli occhi leggendo i giornali di questi giorni - non posso dire guardando i telegiornali, perché in questo caso i fatti semplicemente non esistono. Tutto il dibattito politico si svolge esclusivamente nell'ambito del centrodestra. Evidentemente sia la coppia Bossi-Tremonti sia Fini si stanno posizionando per il momento in cui Berlusconi uscirà dalla scena. Formigoni si sta ritagliando un proprio profilo settentrionale; in Sicilia sta prevalendo una tentazione autonomista. Casini ha fatto la proposta del governo di larghe intese, provando anch'egli a disegnare una prospettiva per il futuro. Francamente non ritengo che nessuno di questi sia un genio della politica, ma sono quelli che ci sono e più e meno con coerenza cercano di interpretare una linea politica. Nel centrosinistra regna la più completa afasia, eppure di cose da dire mi pare ce ne sarebbero, almeno per denunciare questo stato di cose e per dire che nessuno degli attuali comprimari, aspiranti al ruolo di protagonista, può presentarsi vergine al momento del dopo-Berlusconi. Ho intuito che Bersani è - o è appena stato - negli Stati Uniti perché ho visto che il suo capo ufficio stampa ha scritto dei messaggi personali da Washington sulla sua bacheca di Facebook. Ho visto che il vicesegretario ha presentato in questi giorni il suo libro sull'Europa. Va bene tutto - figurarsi, io poi penso che sia bene sollevarsi dalle beghe della politica interna, per saper guardare a cosa avviene al di là dei nostri confini - ma questo è il momento di parlare. Se si ha qualcosa da dire.
sabato 10 luglio 2010
da "Storia dell'assedio di Lisbona" di Josè Saramago
Tuttavia, hanno detto, scagli la prima pietra chi è senza peccato. In realtà, è molto facile accusare, Mogueime mente, Moguieime ha mentito, ma noi, qui, superbamente istruiti sulle menzogne e sulle verità degli ultimi venti secoli, con la psicologia a cesellare gli animi, e la mal tradotta psicanalisi, più tutto il resto per la cui sola enunciazione ci vorrebbero cinquanta pagine, non dovremmo sollevare sulla punta di una spada intransigente i difetti altrui, se tanto indulgenti solitamente siamo con i nostri, e la prova è che non si ricorda nessuno che, giudice severo e radicale degli atti commessi, abbia spinto l'esecutorio coraggio al limite di linciare addirittura se stesso. Del resto, tornando al passo evangelico, ci è lecito dubitare che il mondo fosse a quel tempo tanto incancrenito di vizi che per salvarsi avesse bisogno del figlio di un Dio, visto che l'episodio dell'adultera ci dimostra proprio che le cose non andavano poi così male laggiù in Palestina, mentre adesso invece vanno malissimo, notate come in quel lontano giorno neanche una pietra fu lanciata contro la sventurata donna, era bastato che Gesù avesse pronunciato le fatali parole che subito si erano ritratte le mani aggressive, di tal maniera dichiarando, confessando e persino proclamando i loro padroni che sissignore, sì che aveva ragione lui, peccaminose erano. Insomma, un popolo che è stato capace di riconoscersi colpevole pubblicamente, anche se in modo implicito, non dovrebbe essere del tutto perduto, dovrebbe avere ancora dentro di sé intatto un principio di bontà, autorizzandoci quindi a concludere, con minimo rischio di errore, che dev'esserci stata una certa precipitazione nella venuta del Salvatore. Mentre oggi sì che ne varrebbe la pena, perché non soltanto i corrotti perseverano nel cammino della loro corruzione, ma sta anche diventando ogni giorno più difficile trovare ragioni per interrompere un linciaggio già cominciato.
venerdì 9 luglio 2010
Considerazioni libere (139): a proposito di una nuova etica civile...
Alcune persone affermano che il nostro paese sta scivolando, in maniera ormai inesorabile, verso una forma di governo populista e autoritaria e c'è chi comincia a parlare apertamente di regime. Purtroppo ci sono diversi elementi che sembrano suffragare questa allarmante tesi: le cronache di questi anni - e di questi ultimi mesi in particolare - presentano molti segnali, che non credo sia necessario richiamare, dal momento che me ne sono già occupato in altre mie precedenti "considerazioni".
E' vero che fortunatamente l'impianto costituzionale, nonostante i diversi tentativi, per lo più pasticciati e confusi, di riformarlo, è sostanzialmente ancora quello disegnato dai padri costituenti ed è anche vero che questa Repubblica, pur con tutti i suoi limiti, ha subito già in passato attacchi violenti, a cui ha saputo resistere.
C'è però adesso qualcosa che mi allarma: la caduta di attenzione sul tema dei diritti. Formalmente nel nostro paese vigono i diritti enunciati nella prima parte della Costituzione, ma attorno a essi c'è una sempre più scarsa tensione positiva. Provo a riportare qualche esempio.
Primo esempio. Questo governo, interpretando gli umori e le convinzioni della grande maggioranza del paese, ha stipulato un accordo con la Libia che permette alle forze dell'ordine di respingere in mare le persone che tentano di sbarcare sulle nostre coste, senza verificare se abbiano i requisiti per richiedere l'asilo politico, e di farli tornare nei porti libici da cui verosimilmente sono partiti. Il problema da molti sottaciuto è che in Libia non c'è un governo democratico, ma una dittatura e ora questa apparentemente secondaria questione è venuta a galla. E' stato scoperto il centro di detenzione di Braq, nel sud della Libia, dove erano rinchiusi in condizioni inumane 247 profughi eritrei, tra cui donne e bambini. Le autorità internazionali hanno denunciato le torture e i maltrattamenti subiti da queste persone e il rischio che siano rimandati in Eritrea, il paese da cui erano fuggiti perché perseguitati per le loro opinioni politiche o il loro credo religioso. Certo non tutti coloro che sono passati per il campo di Braq avevano tentato di venire in Italia, ma qualcuno certamente ci sarà e questo rende il nostro paese responsabile verso di loro, almeno di omissione, per non aver controllato le loro storie e per sostenere apertamente un regime dittatoriale come quello di Gheddafi.
Secondo esempio. In Italia non esiste un sistema carcerario degno di un paese civile. E il fatto che la situazione sia altrettanto grave in altri paesi europei non può bastarci come giustificazione. Il caso di Stefano Cucchi, il lungo elenco di suicidi di giovani senza nome, perché quasi mai hanno l'onore delle cronache, sono lì a ricordarci che esiste un problema enorme su cui non sappiamo intervenire, ma su cui pare non si voglia nemmeno intervenire. Nella maggioranza di questo paese non c'è una tensione morale su tema così rilevante.
Terzo esempio. Due giorni fa le forze dell'ordine non hanno saputo - mi auguro che sia andata così e che non emerga un disegno più fosco - gestire una difficile situazione nelle vie di Roma. E' normale che i cittadini abruzzesi siano esasperati: da più di un anno dal sisma sono state trovate solo soluzioni di emergenza e non è ancora cominciata la ricostruzione, mentre sui giornali emerge un quadro inquietante di responsabilità su quegli stessi che hanno gestito la fase di emergenza. Chi doveva gestire l'ordine pubblico a Roma pensava che fossero andati nella capitale in gita? Oppure si è convinto che in Abruzzo va tutto bene, come sostiene la maggioranza governativa? Bisogna ribadire che manifestare è un diritto e che chi manifesta non è un "rompicoglioni".
Purtroppo questo elenco potrebbe essere più lungo. L'art. 1 della Costituzione con quel forte richiamo al lavoro rischia sempre più di essere un esercizio di retorica.
Bisogna ripartire dai diritti, se non vogliamo che la situazioni tenda sempre più a peggiorare. Bisogna far crescere un'etica dei diritti, una consapevolezza dei diritti, un orgoglio dei diritti. Bisogna non dimenticare di esercitarli.
E' vero che fortunatamente l'impianto costituzionale, nonostante i diversi tentativi, per lo più pasticciati e confusi, di riformarlo, è sostanzialmente ancora quello disegnato dai padri costituenti ed è anche vero che questa Repubblica, pur con tutti i suoi limiti, ha subito già in passato attacchi violenti, a cui ha saputo resistere.
C'è però adesso qualcosa che mi allarma: la caduta di attenzione sul tema dei diritti. Formalmente nel nostro paese vigono i diritti enunciati nella prima parte della Costituzione, ma attorno a essi c'è una sempre più scarsa tensione positiva. Provo a riportare qualche esempio.
Primo esempio. Questo governo, interpretando gli umori e le convinzioni della grande maggioranza del paese, ha stipulato un accordo con la Libia che permette alle forze dell'ordine di respingere in mare le persone che tentano di sbarcare sulle nostre coste, senza verificare se abbiano i requisiti per richiedere l'asilo politico, e di farli tornare nei porti libici da cui verosimilmente sono partiti. Il problema da molti sottaciuto è che in Libia non c'è un governo democratico, ma una dittatura e ora questa apparentemente secondaria questione è venuta a galla. E' stato scoperto il centro di detenzione di Braq, nel sud della Libia, dove erano rinchiusi in condizioni inumane 247 profughi eritrei, tra cui donne e bambini. Le autorità internazionali hanno denunciato le torture e i maltrattamenti subiti da queste persone e il rischio che siano rimandati in Eritrea, il paese da cui erano fuggiti perché perseguitati per le loro opinioni politiche o il loro credo religioso. Certo non tutti coloro che sono passati per il campo di Braq avevano tentato di venire in Italia, ma qualcuno certamente ci sarà e questo rende il nostro paese responsabile verso di loro, almeno di omissione, per non aver controllato le loro storie e per sostenere apertamente un regime dittatoriale come quello di Gheddafi.
Secondo esempio. In Italia non esiste un sistema carcerario degno di un paese civile. E il fatto che la situazione sia altrettanto grave in altri paesi europei non può bastarci come giustificazione. Il caso di Stefano Cucchi, il lungo elenco di suicidi di giovani senza nome, perché quasi mai hanno l'onore delle cronache, sono lì a ricordarci che esiste un problema enorme su cui non sappiamo intervenire, ma su cui pare non si voglia nemmeno intervenire. Nella maggioranza di questo paese non c'è una tensione morale su tema così rilevante.
Terzo esempio. Due giorni fa le forze dell'ordine non hanno saputo - mi auguro che sia andata così e che non emerga un disegno più fosco - gestire una difficile situazione nelle vie di Roma. E' normale che i cittadini abruzzesi siano esasperati: da più di un anno dal sisma sono state trovate solo soluzioni di emergenza e non è ancora cominciata la ricostruzione, mentre sui giornali emerge un quadro inquietante di responsabilità su quegli stessi che hanno gestito la fase di emergenza. Chi doveva gestire l'ordine pubblico a Roma pensava che fossero andati nella capitale in gita? Oppure si è convinto che in Abruzzo va tutto bene, come sostiene la maggioranza governativa? Bisogna ribadire che manifestare è un diritto e che chi manifesta non è un "rompicoglioni".
Purtroppo questo elenco potrebbe essere più lungo. L'art. 1 della Costituzione con quel forte richiamo al lavoro rischia sempre più di essere un esercizio di retorica.
Bisogna ripartire dai diritti, se non vogliamo che la situazioni tenda sempre più a peggiorare. Bisogna far crescere un'etica dei diritti, una consapevolezza dei diritti, un orgoglio dei diritti. Bisogna non dimenticare di esercitarli.
"La signora Frola e il signor Ponza, suo genero" di Luigi Pirandello
Ma insomma, ve lo figurate? c'è da ammattire sul serio tutti quanti a non poter sapere chi tra i due sia il pazzo, se questa signora Frola o questo signor Ponza, suo genero. Cose che càpitano soltanto a Valdana, città disgraziata, calamìta di tutti i forestieri eccentrici! Pazza lei o pazzo lui; non c'è via di mezzo: uno dei due dev'esser pazzo per forza. Perché si tratta niente meno che di questo... Ma no, è meglio esporre prima con ordine. Sono, vi giuro, seriamente costernato dell'angoscia in cui vivono da tre mesi gli abitanti di Valdana, e poco m'importa della signora Frola e del signor Ponza, suo genero. Perché, se è vero che una grave sciagura è loro toccata, non è men vero che uno dei due, almeno, ha avuto la fortuna d'impazzirne e l'altro l'ha ajutato, séguita ad ajutarlo così che non si riesce, ripeto, a sapere quale dei due veramente sia pazzo; e certo una consolazione meglio di questa non se la potevano dare. Ma dico di tenere così, sotto quest'incubo, un'intera cittadinanza, vi par poco? togliendole ogni sostegno al giudizio, per modo che non possa più distinguere tra fantasma e realtà. Un'angoscia, un perpetuo sgomento. Ciascuno si vede davanti, ogni giorno, quei due; li guarda in faccia; sa che uno dei due è pazzo; li studia, li squadra, li spia e, niente! non poter scoprire quale dei due; dove sia il fantasma, dove la realtà. Naturalmente, nasce in ciascuno il sospetto pernicioso che tanto vale allora la realtà quanto il fantasma, e che ogni realtà può benissimo essere un fantasma e viceversa. Vi par poco? Nei panni del signor prefetto, io darei senz'altro, per la salute dell'anima degli abitanti di Valdana, lo sfratto alla signora Frola e al signor Ponza, suo genero. Ma procediamo con ordine. Questo signor Ponza arrivò a Valdana or sono tre mesi, segretario di prefettura. Prese alloggio nel casolare nuovo all'uscita del paese, quello che chiamano "il Favo". Lì. All'ultimo piano, un quartierino. Tre finestre che danno sulla campagna, alte, tristi (ché la facciata di là, all'aria di tramontana, su tutti quegli orti pallidi, chi sa perché, benché nuova, s'è tanto intristita) e tre finestre interne, di qua, sul cortile, ove gira la ringhiera del ballatojo diviso da tramezzi a grate. Pendono da quella ringhiera, lassù lassù, tanti panierini pronti a esser calati col cordino a un bisogno. Nello stesso tempo, però, con maraviglia di tutti, il signor Ponza fissò nel centro della città, e propriamente in Via dei Santi n. 15, un altro quartierino mobigliato di tre camere e cucina. Disse che doveva servire per la suocera, signora Frola. E difatti questa arrivò cinque o sei giorni dopo; e il signor Ponza si recò ad accoglierla, lui solo, alla stazione e la condusse e la lasciò lì, sola. Ora, via, si capisce che una figliuola, maritandosi, lasci la casa della madre per andare a convivere col marito, anche in un'altra città; ma che questa madre poi, non reggendo a star lontana dalla figliuola, lasci il suo paese, la sua casa, e la segua, e che nella città dove tanto la figliuola quanto lei sono forestiere vada ad abitare in una casa a parte, questo non si capisce più facilmente; o si deve ammettere tra suocera e genero una così forte incompatibilità da rendere proprio impossibile la convivenza, anche in queste condizioni. Naturalmente a Valdana dapprima si pensò così. E certo chi scapitò per questo nell'opinione di tutti fu il signor Ponza. Della signora Frola, se qualcuno ammise che forse doveva averci anche lei un po' di colpa, o per scarso compatimento o per qualche caparbietà o intolleranza, tutti considerarono l'amore materno che la traeva appresso alla figliuola, pur condannata a non poterle vivere accanto. Gran parte ebbe in questa considerazione per la signora Frola e nel concetto che subito del signor Ponza s'impresse nell'animo di tutti, che fosse cioè duro, anzi crudele, anche l'aspetto dei due, bisogna dirlo. Tozzo, senza collo, nero come un africano, con folti capelli ispidi su la fronte bassa, dense e aspre sopracciglia giunte, grossi mustacchi lucidi da questurino, e negli occhi cupi, fissi, quasi senza bianco, un'intensità violenta, esasperata, a stento contenuta, non si sa se di doglia tetra o di dispetto della vista altrui, il signor Ponza non è fatto certamente per conciliarsi la simpatia o la confidenza. Vecchina gracile, pallida, è invece la signora Frola, dai lineamenti fini, nobilissimi, e una aria malinconica, ma d'una malinconia senza peso, vaga e gentile, che non esclude l'affabilità con tutti. Ora di questa affabilità, naturalissima in lei, la signora Frola ha dato subito prova in città, e subito per essa nell'animo di tutti è cresciuta l'avversione per il signor Ponza; giacché chiaramente è apparsa a ognuno l'indole di lei, non solo mite, remissiva, tollerante, ma anche piena d'indulgente compatimento per il male che il genero le fa; e anche perché s'è venuto a sapere che non basta al signor Ponza relegare in una casa a parte quella povera madre, ma spinge la crudeltà fino a vietarle anche la vista della figliuola. Se non che, non crudeltà, protesta subito nelle sue visite alle signore di Valdana la signora Frola, ponendo le manine avanti, veramente afflitta che si possa pensare questo di suo genero. E s'affretta a decantarne tutte le virtù, a dirne tutto il bene possibile e immaginabile; quale amore, quante cure, quali attenzioni egli abbia per la figliuola, non solo, ma anche per lei, sì, sì, anche per lei; premuroso, disinteressato... Ah, non crudele, no, per carità! C'è solo questo: che vuole tutta, tutta per sé la mogliettina, il signor Ponza, fino al punto che anche l'amore, che questa deve avere (e l'ammette, come no?) per la sua mamma, vuole che le arrivi non direttamente, ma attraverso lui, per mezzo di lui, ecco. Sì, può parere crudeltà, questa, ma non lo è; è un'altra cosa, un'altra cosa ch'ella, la signora Frola, intende benissimo e si strugge di non sapere esprimere. Natura, ecco... ma no, forse una specie di malattia... come dire? Mio Dio, basta guardarlo negli occhi. Fanno in prima una brutta impressione, forse, quegli occhi; ma dicono tutto a chi, come lei, sappia leggere in essi: la pienezza chiusa, dicono, di tutto un mondo d'amore in lui, nel quale la moglie deve vivere senza mai uscirne minimamente, e nel quale nessun altro, neppure la madre, deve entrare. Gelosia? Sì, forse; ma a voler definire volgarmente questa totalità esclusiva d'amore. Egoismo? Ma un egoismo che si dà tutto, come un mondo, alla propria donna! Egoismo, in fondo, sarebbe quello di lei a voler forzare questo mondo chiuso d'amore, a volervisi introdurre per forza, quand'ella sa che la figliuola è felice, così adorata... Questo a una madre può bastare! Del resto, non è mica vero ch'ella non la veda, la sua figliuola. Due o tre volte al giorno la vede: entra nel cortile della casa; suona il campanello e subito la sua figliuola s'affaccia di lassù. - Come stai Tildina? - Benissimo, mamma. Tu? - Come Dio vuole, figliuola mia. Giù, giù il panierino! E nel panierino, sempre due parole di lettera, con le notizie della giornata. Ecco, le basta questo. Dura ormai da quattr'anni questa vita, e ci s'è abituata la signora Frola. Rassegnata, sì. E quasi non ne soffre più. Com'è facile intendere, questa rassegnazione della signora Frola, quest'abitudine ch'ella dice d'aver fatto al suo martirio, ridondano a carico del signor Ponza, suo genero, tanto più, quanto più ella col suo lungo discorso si affanna a scusarlo. Con vera indignazione perciò, e anche dirò con paura, le signore di Valdana che hanno ricevuto la prima visita della signora Frola, accolgono il giorno dopo l'annunzio di un'altra visita inattesa, del signor Ponza, che le prega di concedergli due soli minuti d'udienza, per una "doverosa dichiarazione", se non reca loro incomodo. Affocato in volto, quasi congestionato, con gli occhi più duri e più tetri che mai, un fazzoletto in mano che stride per la sua bianchezza, insieme coi polsini e il colletto della camicia, sul nero della carnagione, del pelame e del vestito, il signor Ponza, asciugandosi di continuo il sudore che gli sgocciola dalla fronte bassa e dalle gote raschiose e violacee, non già per il caldo, ma per la violenza evidentissima dello sforzo che fa su se stesso e per cui anche le grosse mani dalle unghie lunghe gli tremano; in questo e in quel salotto, davanti a quelle signore che lo mirano quasi atterrite, domanda prima se la signora Frola, sua suocera, è stata a visita da loro il giorno avanti; poi, con pena, con sforzo, con agitazione di punto in punto crescenti, se ella ha parlato loro della figliuola e se ha detto che egli le vieta assolutamente di vederla e di salire in casa sua. Le signore, nel vederlo così agitato, com'è facile immaginare, s'affrettano a rispondergli che la signora Frola, sì, è vero, ha detto loro di quella proibizione di vedere la figlia, ma anche tutto il bene possibile e immaginabile di lui, fino a scusarlo, non solo, ma anche a non dargli nessun'ombra di colpa per quella proibizione stessa. Se non che, invece di quietarsi, a questa risposta delle signore, il signor Ponza si agita di più; gli occhi gli diventano più duri, più fissi, più tetri; le grosse gocce di sudore più spesse; e alla fine, facendo uno sforzo ancor più violento su se stesso, viene alla sua "dichiarazione doverosa". La quale è questa, semplicemente: che la signora Frola, poveretta, non pare, ma è pazza. Pazza da quattro anni, sì. E la sua pazzia consiste appunto nel credere che egli non voglia farle vedere la figliuola. Quale figliuola? E' morta, è morta da quattro anni la figliuola: e la signora Frola, appunto per il dolore di questa morte, è impazzita: per fortuna, impazzita, sì, giacché la pazzia è stata per lei lo scampo dal suo disperato dolore. Naturalmente non poteva scamparne, se non così, cioè credendo che non sia vero che la sua figliuola è morta e che sia lui, invece, suo genero, che non vuole più fargliela vedere. Per puro dovere di carità verso un'infelice, egli, il signor Ponza, seconda da quattro anni, a costo di molti e gravi sacrifici, questa pietosa follia: tiene, con dispendio superiore alle sue forze, due case: una per sé, una per lei; e obbliga la sua seconda moglie, che per fortuna caritatevolmente si presta volentieri, a secondare anche lei questa follia. Ma carità, dovere, ecco, fino a un certo punto: anche per la sua qualità di pubblico funzionario, il signor Ponza non può permettere che si creda di lui, in città, questa cosa crudele e inverosimile: ch'egli cioè, per gelosia o per altro, vieti a una povera madre di vedere la propria figliuola. Dichiarato questo, il signor Ponza s'inchina innanzi allo sbalordimento delle signore, e va via. Ma questo sbalordimento delle signore non ha neppure il tempo di scemare un po', che rieccoti la signora Frola con la sua aria dolce di vaga malinconia a domandare scusa se, per causa sua, le buone signore si sono prese qualche spavento per la visita del signor Ponza, suo genero. E la signora Frola, con la maggior semplicità e naturalezza del mondo, dichiara a sua volta, ma in gran confidenza, per carità! poiché il signor Ponza è un pubblico funzionario, e appunto per questo ella la prima volta s'è astenuta dal dirlo, ma sì, perché questo potrebbe seriamente pregiudicarlo nella carriera; il signor Ponza, poveretto - ottimo, ottimo inappuntabile segretario alla prefettura, compìto, preciso in tutti i suoi atti, in tutti i suoi pensieri, pieno di tante buone qualità - il signor Ponza, poveretto, su quest'unico punto non... non ragiona più, ecco; il pazzo è lui, poveretto; e la sua pazzia consiste appunto in questo: nel credere che sua moglie sia morta da quattro anni e nell'andar dicendo che la pazza è lei, la signora Frola che crede ancora viva la figliuola. No, non lo fa per contestare in certo qual modo innanzi agli altri quella sua gelosia quasi maniaca e quella crudele proibizione a lei di vedere la figliuola, no; crede, crede sul serio il poveretto che sua moglie sia morta e che questa che ha con sé sia una seconda moglie. Caso pietosissimo! Perché veramente col suo troppo amore quest'uomo rischiò in prima di distruggere, d'uccidere la giovane moglietta delicatina, tanto che si dovette sottrargliela di nascosto e chiuderla a insaputa di lui in una casa di salute. Ebbene, il povero uomo, a cui già per quella frenesia d'amore s'era anche gravemente alterato il cervello, ne impazzì; credette che la moglie fosse morta davvero: e questa idea gli si fissò talmente nel cervello, che non ci fu più verso di levargliela, neppure quando, ritornata dopo circa un anno florida come prima, la moglietta gli fu ripresentata. La credette un'altra; tanto che si dovette con l'ajuto di tutti, parenti e amici, simulare un secondo matrimonio, che gli ha ridato pienamente l'equilibrio delle facoltà mentali. Ora la signora Frola crede d'aver qualche ragione di sospettare che da un pezzo suo genero sia del tutto rientrato in sé e ch'egli finga, finga soltanto di credere che sua moglie sia una seconda moglie, per tenersela così tutta per sé, senza contatto con nessuno, perché forse tuttavia di tanto in tanto gli balena la paura che di nuovo gli possa esser sottratta nascostamente. Ma sì. Come spiegare, se no, tutte le cure, le premure che ha per lei, sua suocera, se veramente egli crede che è una seconda moglie quella che ha con sé? Non dovrebbe sentire l'obbligo di tanti riguardi per una che, di fatto, non sarebbe più sua suocera, è vero? Questo, si badi, la signora Frola lo dice, non per dimostrare ancor meglio che il pazzo è lui; ma per provare anche a se stessa che il suo sospetto è fondato. - E intanto, - conclude con un sospiro che su le labbra le s'atteggia in un dolce mestissimo sorriso, - intanto la povera figliuola mia deve fingere di non esser lei, ma un'altra, e anch'io sono obbligata a fingermi pazza credendo che la mia figliuola sia ancora viva. Mi costa poco, grazie a Dio, perché è là, la mia figliuola, sana e piena di vita; la vedo, le parlo; ma sono condannata a non poter convivere con lei, e anche a vederla e a parlarle da lontano, perché egli possa credere, o fingere di credere che la mia figliuola, Dio liberi, è morta e che questa che ha con sé è una seconda moglie. Ma torno a dire, che importa se con questo siamo riusciti a ridare la pace a tutti e due? So che la mia figliuola è adorata, contenta; la vedo; le parlo; e mi rassegno per amore di lei e di lui a vivere così e a passare anche per pazza, signora mia, pazienza... Dico, non vi sembra che a Valdana ci sia proprio da restare a bocca aperta, a guardarci tutti negli occhi, come insensati? A chi credere dei due? Chi è il pazzo? Dov'è la realtà? dove il fantasma? Lo potrebbe dire la moglie del signor Ponza. Ma non c'è da fidarsi se, davanti a lui, costei dice d'esser seconda moglie; come non c'è da fidarsi se, davanti alla signora Frola, conferma d'esserne la figliuola. Si dovrebbe prenderla a parte e farle dire a quattr'occhi la verità. Non è possibile. Il signor Ponza - sia o no lui il pazzo - è realmente gelosissimo e non lascia vedere la moglie a nessuno. La tiene lassù, come in prigione, sotto chiave; e questo fatto è senza dubbio in favore della signora Frola; ma il signor Ponza dice che è costretto a far così, e che sua moglie stessa anzi glielo impone, per paura che la signora Frola non le entri in casa all'improvviso. Può essere una scusa. Sta anche di fatto che il signor Ponza non tiene neanche una serva in casa. Dice che lo fa per risparmio, obbligato com'è a pagar l'affitto di due case; e si sobbarca intanto a farsi da sé la spesa giornaliera, e la moglie, che a suo dire non è la figlia della signora Frola, si sobbarca anche lei per pietà di questa, cioè d'una povera vecchia che fu suocera di suo marito, a badare a tutte le faccende di casa, anche alle più umili, privandosi dell'ajuto di una serva. Sembra a tutti un po' troppo. Ma è anche vero che questo stato di cose, se non con la pietà, può spiegarsi con la gelosia di lui. Intanto, il signor Prefetto di Valdana s'è contentato della dichiarazione del signor Ponza. Ma certo l'aspetto e in gran parte la condotta di costui non depongono in suo favore, almeno per le signore di Valdana più propense tutte quante a prestar fede alla signora Frola. Questa, difatti, viene premurosa a mostrar loro le letterine affettuose che le cala giù col panierino la figliuola, e anche tant'altri privati documenti, a cui però il signor Ponza toglie ogni credito, dicendo che le sono stati rilasciati per confortare il pietoso inganno. Certo è questo, a ogni modo: che dimostrano tutt'e due, l'uno per l'altra, un meraviglioso spirito di sacrifizio, commoventissimo; e che ciascuno ha per la presunta pazzia dell'altro la considerazione più squisitamente pietosa. Ragionano tutt'e due a meraviglia; tanto che a Valdana non sarebbe mai venuto in mente a nessuno di dire che l'uno dei due era pazzo, se non l'avessero detto loro: il signor Ponza della signora Frola, e la signora Frola del signor Ponza. La signora Frola va spesso a trovare il genero alla prefettura per aver da lui qualche consiglio, o lo aspetta all'uscita per farsi accompagnare in qualche compera: e spessissimo, dal canto suo, nelle ore libere e ogni sera il signor Ponza va a trovare la signora Frola nel quartierino mobigliato; e ogni qual volta per caso l'uno s'imbatte nell'altra per via, subito con la massima cordialità si mettono insieme; egli le dà la destra e, se stanca, le porge il braccio, e vanno così, insieme, tra il dispetto aggrondato e lo stupore e la costernazione della gente che li studia, li squadra, li spia e, niente!, non riesce ancora in nessun modo a comprendere quale sia il pazzo dei due, dove sia il fantasma, dove la realtà.
giovedì 8 luglio 2010
Considerazioni libere (138): a proposito di affari sporchi...
In una mia "considerazione" di un po' di tempo fa (la nr. 84, per la precisione), ho raccontato di quello che sta succedendo in Birmania, del tentativo della giunta militare al potere di "controllare" le prossime elezioni e dei modi con cui i militari stanno rubando le ricchezze del paese, spesso con l'interessata complicità delle multinazionali occidentali.
Sul tema degli affari della giunta birmana è uscito in questi giorni il rapporto della ong americano-thailandese EarthRights International. Nel rapporto si spiega che dal 1998 la compagnia petrolifera Myanma Oil and Gas Enterprise, controllata dalla giunta, è socia di tre importanti compagnie petrolifere - la francese Total, la statunitense Chevron e la thailandese Pttep - per lo sfruttamento del giacimento di gas naturale Yadana. La ong ha calcolato che questa attività abbia fruttato più di nove miliardi di dollari, metà dei quali finiti nelle tasche dei generali, in conti off-shore aperti presso due importanti banche di Singapore, la Overseas Chinese Banking Corporation e il DBS Group, che però ufficialmente negano ogni coinvolgimento con il regime birmano.
Secondo le informazioni della EarthRights International, nella regione del Tenasserim, dove si trovano il giacimento e il gasdotto, sarebbero dislocati almeno quattordici battaglioni dell'esercito birmano, a cui Chevron e Total hanno delegato la propria sicurezza. Questo compito è esercitato con il pugno di ferro. A febbraio stati assassinati due membri dell'etnia mon nel villaggio di Ahlersakan nell'area del gasdotto; queste due uccisioni sarebbero parte di una campagna di "esecuzioni mirate", effettuate dal battaglione 282, che ha proprio il compito di garantire la sicurezza del personale delle compagnie petrolifere e del gasdotto.
In quest'area del paese vivono circa cinquantamila persone che - sempre secondo l'ong - sarebbero sottoposte a una sorta di coscrizione obbligatoria non retribuita per effettuare i lavori necessari per lo sfruttamento del giacimento di gas naturale.
In troppi guadagnano grazie al regime birmano e al controllo che esso esercita su quel popolo.
Sul tema degli affari della giunta birmana è uscito in questi giorni il rapporto della ong americano-thailandese EarthRights International. Nel rapporto si spiega che dal 1998 la compagnia petrolifera Myanma Oil and Gas Enterprise, controllata dalla giunta, è socia di tre importanti compagnie petrolifere - la francese Total, la statunitense Chevron e la thailandese Pttep - per lo sfruttamento del giacimento di gas naturale Yadana. La ong ha calcolato che questa attività abbia fruttato più di nove miliardi di dollari, metà dei quali finiti nelle tasche dei generali, in conti off-shore aperti presso due importanti banche di Singapore, la Overseas Chinese Banking Corporation e il DBS Group, che però ufficialmente negano ogni coinvolgimento con il regime birmano.
Secondo le informazioni della EarthRights International, nella regione del Tenasserim, dove si trovano il giacimento e il gasdotto, sarebbero dislocati almeno quattordici battaglioni dell'esercito birmano, a cui Chevron e Total hanno delegato la propria sicurezza. Questo compito è esercitato con il pugno di ferro. A febbraio stati assassinati due membri dell'etnia mon nel villaggio di Ahlersakan nell'area del gasdotto; queste due uccisioni sarebbero parte di una campagna di "esecuzioni mirate", effettuate dal battaglione 282, che ha proprio il compito di garantire la sicurezza del personale delle compagnie petrolifere e del gasdotto.
In quest'area del paese vivono circa cinquantamila persone che - sempre secondo l'ong - sarebbero sottoposte a una sorta di coscrizione obbligatoria non retribuita per effettuare i lavori necessari per lo sfruttamento del giacimento di gas naturale.
In troppi guadagnano grazie al regime birmano e al controllo che esso esercita su quel popolo.
Considerazioni libere (137): a proposito di chi sa fare le cose...
La Rai nei mesi estivi, evidentemente per risparmiare su nuovi programmi, utilizza a piene mani le risorse dei suoi cospicui archivi, assemblando spezzoni di vecchi varietà. Si tratta di video che si possono trovare anche su Youtube, cercandoli con un po' di pazienza.
Non so se chi cura questi programmi e chi ne autorizza la messa in onda si rende conto dell'indiscusso effetto autolesionistico di questa operazione; spero non voluto: altrimenti dovremmo più correttamente parlare di masochismo. Guardando quegli spezzoni di trasmissioni in bianco e nero è inevitabile il confronto con quello che è in onda in questi anni e purtroppo questo confronto è quasi sempre impietoso: i nuovi programmi ne escono ancor più brutti di quello che effettivamente sono.
Mi pare che il motivo fondamentale di questo decadimento sia piuttosto semplice da trovare: la televisione non cerca chi sa fare, ma per lo più valorizza chi non sa fare. E purtroppo questo è vero anche in altri campi di questo paese.
A suo modo è emblematica la storia di Pietro Taricone, che è morto tragicamente pochi giorni fa, suscitando una forte commozione. Taricone era diventato popolare perché aveva partecipato alla prima edizione del Grande fratello: era stato scelto non perché sapesse fare qualcosa, perché avesse un qualche talento, ma perché, secondo gli autori di quella fortunata trasmissione, poteva rappresentare meglio di altri un tipo di giovane maschio italiano, un po' sbruffone, dongiovanni, ma poi capace di farsi voler bene, un tipo spesso presente nei film della commedia all'italiana. Ed effettivamente Taricone rappresentò al meglio questa "maschera", perché probabilmente lui era proprio così. Finita la trasmissione, Pietro avrebbe potuto tranquillamente vivere di rendita, passare da una trasmissione all'altra, continuando a non saper fare nulla, ma rimanendo al centro dell'attenzione mediatica. Taricone ha fatto una cosa decisamente controcorrente - e che in qualche modo ha pagato - e ha deciso che non poteva continuare a essere famoso senza saper far nulla; in questo è stato davvero poco italiano. Ha provato, con una determinazione ammirevole, a fare l'attore, probabilmente con risultati non sempre eccelsi, ma bisogna dargli atto di questa scelta, perseguita con ostinazione.
Per il resto la televisione odierna è spesso fatta da ballerine che non sanno ballare, pur potendo vantare altre evidenti doti, da comici che non fanno ridere, ma soprattutto da autori che non sanno scrivere e dirigenti televisivi che non capiscono molto di televisione. Davvero la televisione in questo è specchio fedele della nostra società.
p.s. oggi è morto Lelio Luttazzi, uno che sapeva fare le cose...
Non so se chi cura questi programmi e chi ne autorizza la messa in onda si rende conto dell'indiscusso effetto autolesionistico di questa operazione; spero non voluto: altrimenti dovremmo più correttamente parlare di masochismo. Guardando quegli spezzoni di trasmissioni in bianco e nero è inevitabile il confronto con quello che è in onda in questi anni e purtroppo questo confronto è quasi sempre impietoso: i nuovi programmi ne escono ancor più brutti di quello che effettivamente sono.
Mi pare che il motivo fondamentale di questo decadimento sia piuttosto semplice da trovare: la televisione non cerca chi sa fare, ma per lo più valorizza chi non sa fare. E purtroppo questo è vero anche in altri campi di questo paese.
A suo modo è emblematica la storia di Pietro Taricone, che è morto tragicamente pochi giorni fa, suscitando una forte commozione. Taricone era diventato popolare perché aveva partecipato alla prima edizione del Grande fratello: era stato scelto non perché sapesse fare qualcosa, perché avesse un qualche talento, ma perché, secondo gli autori di quella fortunata trasmissione, poteva rappresentare meglio di altri un tipo di giovane maschio italiano, un po' sbruffone, dongiovanni, ma poi capace di farsi voler bene, un tipo spesso presente nei film della commedia all'italiana. Ed effettivamente Taricone rappresentò al meglio questa "maschera", perché probabilmente lui era proprio così. Finita la trasmissione, Pietro avrebbe potuto tranquillamente vivere di rendita, passare da una trasmissione all'altra, continuando a non saper fare nulla, ma rimanendo al centro dell'attenzione mediatica. Taricone ha fatto una cosa decisamente controcorrente - e che in qualche modo ha pagato - e ha deciso che non poteva continuare a essere famoso senza saper far nulla; in questo è stato davvero poco italiano. Ha provato, con una determinazione ammirevole, a fare l'attore, probabilmente con risultati non sempre eccelsi, ma bisogna dargli atto di questa scelta, perseguita con ostinazione.
Per il resto la televisione odierna è spesso fatta da ballerine che non sanno ballare, pur potendo vantare altre evidenti doti, da comici che non fanno ridere, ma soprattutto da autori che non sanno scrivere e dirigenti televisivi che non capiscono molto di televisione. Davvero la televisione in questo è specchio fedele della nostra società.
p.s. oggi è morto Lelio Luttazzi, uno che sapeva fare le cose...
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