sabato 27 agosto 2022

Verba volant (816): balneare...

Balneare
, agg. m. e f.

Dobbiamo riconoscerlo: a noi orfani della prima Repubblica questa crisi non è proprio piaciuta. È stata troppo veloce. A quelli come noi è mancato soprattutto il giro delle consultazioni: senza quelle come facciamo a conoscere le posizioni dell’Union Valdotaine e della Südtiroler Volkspartei? I più viziosi avrebbero voluto un “mandato esplorativo”, ovviamente anche quello con le sue consultazioni. E poi l’incarico pieno: per questo ce ne sarebbero voluti almeno due di giri, se non tre. A occhio e croce, per noi una bella crisi di governo dovrebbe durare almeno un mesetto, non questa roba qui, fatta di furia.
E poi non ci è proprio andata giù questa cosa di votare a fine settembre, con la campagna elettorale in agosto. Noi nella prima Repubblica non l’avremmo mai fatto. Intanto, nonostante quello che vi raccontano, noi non abbiamo mai avuto questa smania di andare a votare. Lo so, spesso non riuscivamo a finire una legislatura, andavamo a elezioni anticipate, ma a malincuore, come extrema ratio, e, quando ci andavamo volevamo proprio essere sicuri che non ci fosse un’altra possibilità. E poi ci siamo inventati il “governo balneare”. Anche perché ai nostri tempi, in agosto l’Italia si fermava. All’inizio del mese il telegiornale faceva vedere le macchine in fila che entravano in A1 al casello di Melegnano, per poi far vedere le stesse macchine, allo stesso casello, ma in fila in uscita, dopo due settimane. Le città si riempivano di cartelli “chiuso per ferie” e a chi sarebbe venuto in mente di fare una campagna elettorale in uno stabilimento balneare, quelli erano zona franca, come la Svizzera.

Adesso vi racconto una storia. È la primavera del 1963: si vota per eleggere il parlamento della IV legislatura. Quella precedente si è chiusa con il quarto governo Fanfani, in cui, accanto alla Dc, ci sono il Psdi e il Pri, con l’appoggio esterno del Psi. Si tratta, nonostante tutto, di un esecutivo che attua alcune importanti riforme: viene istituita la scuola media unica, vengono nazionalizzate le industrie elettriche e creata l’Enel e viene introdotta una cedolare sugli utili delle attività finanziarie. Per una parte dei democristiani e per il Pli questi provvedimenti sembrano cose da bolscevischi, mentre per una parte dei socialisti è troppo poco in cambio del sostegno al governo. Di fatto le elezioni del ’63 sono una specie di referendum sul centrosinistra. La Dc, pur prima con il 38,8%, perde quattro punti percentuali, guadagnati dai liberali, mentre il Psi tiene e il Pci avanza del 2,5%, arrivando al 25,2%. Per allora si tratta di scostamenti significativi.
È Aldo Moro l’uomo forte della Dc, è lui che vuole andare avanti, in maniera organica, nell’alleanza con i socialisti e quindi è a lui che il Presidente della Repubblica, il conservatore Antonio Segni, affida l’incarico di formare il governo, sperando probabilmente che fallisca. Si è votato il 28 e 29 aprile e Moro riceve l’incarico il 25 maggio. Intanto ci sono stati un paio di consigli nazionali della Dc e i comitati centrali del Pci e del Psi. Il segretario socialista, Pietro Nenni, che vuole andare avanti, ponendo come condizioni l’attuazione delle Regioni e la riforma urbanistica, deve fronteggiare una forte opposizione interna da parte dei suoi compagni di partito che dicono che il rapporto con la Dc non deve isolare il Pci. E Palmiro Togliatti dal canto suo dice che il Pci è pronto per tornare al governo, accusando il centrosinistra come una manovra per impedirlo.
Le consultazioni di Moro procedono lentamente. Anche perché le condizioni di salute di papa Giovanni si aggravano e il 3 giugno quel pontefice così amato muore, proprio durante il Concilio. Allora quello che succedeva Oltretevere aveva una qualche influenza sulla politica italiana. Poi l’8 e il 9 di quello stesso mese si vota per le amministrative in Sicilia: vanno bene per la Dc che recupera i voti perduti. Finalmente sembra che il governo Moro possa nascere, ma gli autonomisti del Psi votano contro la relazione di Nenni, anche perché nell’accordo per il nuovo governo non è citata la riforma urbanistica. A questo punto Moro si ritira. Anche Nenni si dimette da segretario del Psi, e viene convocato il congresso del partito per ottobre. Siamo già a metà giugno. Intanto i cardinali hanno eletto il nuovo papa, Paolo VI. Cosa fare? Non si vogliono sciogliere le Camere: non si può mica votare in estate.
Nasce così il primo “governo balneare”. Al presidente della Camera, il giurista napoletano Giovanni Leone viene affidato il compito di formare un governo di transizione, in attesa del congresso del Psi. Leone è un notabile di provata fede democristiana, che è stimato dalle molte anime del suo partito e considerato poco ambizioso: l’uomo perfetto per un incarico del genere.
Il 22 giugno il primo governo Leone giura. Un bel monocolore democristiano. Ci sono Andreotti, Rumor, Colombo, e tanti notabili, dalla Sicilia arriva Bernardo Mattarella - il padre dell’attuale inquilino del Colle - e da Napoli Angelo Raffaele Jervolino - sì, il padre di Rosa. Poi ci sono il vecchio Attilio Piccioni, garante del saldo rapporto con gli Stati Uniti e Giulio Pastore, il fondatore della Cisl, in un delicato equilibrio di correnti e di rappresentanze territoriali.
Il 5 e l’11 luglio il governo ottiene la fiducia prima al Senato e poi alla Camera. Solo i democristiani votano a favore, Psi, Psdi e Pri si astengono, mentre il Pci, il Pli e i fascisti votano contro. Leone sa bene che il suo governo non è destinato a entrare nella storia. Aumenta le pensioni degli statali, aderisce a un patto contro le atomiche, promosso dalla nato con l’Unione Sovietica. Il suo compito è tirare avanti, aspettando il congresso del Psi, che finalmente si tiene alla fine di ottobre. Non è un congresso semplice per Nenni: almeno un terzo dei delegati si schiera contro l’idea di collaborare con la Dc. Il 29 ottobre il congresso si chiude con un pieno mandato a Nenni ad avviare un governo con la Dc di Moro. Leone lascia passare i Santi e i Morti e il 4 novembre – che è ancora festa nazionale – si dimette. Da quel momento comincerà il cosiddetto centrosinistra organico, con i tre governi guidati da Moro.
Il 9 ottobre di quell’anno avviene il disastro del Vajont: sarebbe ingeneroso imputarne le colpe al governo momentaneamente in carica, ma certamente quella classe dirigente, presa nel suo complesso, è responsabile di quella terribile tragedia.

Sono trascorsi cinque anni: ci sono di nuovo le elezioni. Ovviamente in primavera. La Dc ottiene un buon risultato, aumenta del 3,4%. Anche il Pci avanza, grazie all’alleanza con il Psiup, un nuovo partito formato dai compagni che sono usciti dal Psi in polemica con i governi di centrosinistra della legislatura appena finita. È proprio il Psi il più colpito. E al suo interno si fanno più forti le voci di chi chiede la fine dell’esperienza del centrosinistra. Il partito non è pronto a entrare in un nuovo governo con la Dc.
Siamo di nuovo a uno stallo. E di nuovo viene chiamato in gioco Giovanni Leone. Il 5 luglio giura il suo secondo governo. Diversi ministri sono gli stessi del Leone I: stesso delicato equilibrio tra correnti e rappresentanze territoriali per questo nuovo monocolore Dc. Fa sorridere leggere i nomi e soprattutto guardare le foto in bianco e nero dei ministri: sembrano di un’altra epoca rispetto all’Italia della contestazione. Eppure il paese vive anche di questo contrasto, di una classe dirigente che è molto lontana, culturalmente e antropologicamente, prima ancora che politicamente, dalle novità che si respirano nel paese.
Anche questa volta Leone non pretende di passare alla storia, ma, visto il dilagare della contestazione studentesca il suo governo non può non presentare una serie di riforme per l’università. Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre riprendono le trattative tra la Dc e il Psi per la formazione di un nuovo governo di coalizione. Quando queste finalmente si concludono, il 19 novembre Leone presenta le dimissioni: il suo secondo “governo balneare” ha svolto dignitosamente il suo compito di traghettatore. Anche grazie a questi non memorabili, ma utili, governi, il 24 dicembre 1971 viene inaspettatamente eletto, dopo una snervante serie di scrutini, alla Presidenza della Repubblica. Come noto, quell’esperienza non è andata bene, ma questa è un’altra storia.

Immagino che adesso molti di voi si chiederanno: “ma perché ci racconti tutto questo?”.
Intanto perché mi piace raccontarvi vecchie storie: lo sapete, è una mia debolezza.
Ma anche perché voglio dire a chi non c’era e a chi, anche se c’era, non lo ricorda più, che è esistita un’Italia diversa. Non era un’Italia migliore, anzi. E se siamo diventati quello che siamo ora è anche per colpa di quello che è successo allora, delle insipienze, delle meschinerie, del connivente malaffare di quegli anni. Eppure c’era più democrazia, più di quanta ce ne sia ora in questa Italia così apparentemente moderna. Perché c’era una cosa che adesso non c’è più: i partiti. E quei partiti raccontavano, nelle loro differenze, nel bene e nel male, il paese.
Adesso possiamo sorridere guardando le vecchie foto dei ministri prese dalla Navicella, con quelle facce serie, con i capelli fissati dalla brillantina - ovviamente Linetti - con quei grigi completi tutti uguali. Ma c’erano gli italiani così, erano i nostri nonni, i nostri genitori. Sono nostre fotografie di famiglia. E in quelle gallerie in bianco e nero mancavano le donne, perché dovevano stare un passo indietro in quella società. I vecchi democristiani erano tanti in Italia. Come erano tanti i vecchi comunisti e i vecchi socialisti. Per me hanno nomi e cognomi, sono persone che fanno parte del mio vissuto. Quel parlamento raccontava l’Italia, la rappresentava. E quando quei partiti decidevano qualcosa, con i loro riti, a volte bizantini, c’erano pezzi del paese che da un lato accettavano e dall’altro condizionavano quelle scelte, in un rapporto bidirezionale piuttosto complesso. E i congressi di partito erano processi lunghi, non solo perché non c’erano né internet né i telefonini, ma perché coinvolgevano un popolo, che voleva discutere e le cui decisioni avevano un peso.
Da molti anni tutto questo non esiste più. Anche per colpa di noi che siamo stati gli ultimi, tristi, epigoni di quella stagione. Quell’identificazione si è spezzata. Eliminati i partiti, il loro posto è stato preso da bande, più o meno raccogliticce, da capitani di ventura, da corsari, da donne e uomini che non rispondono più a nessuno, se non alle emozioni del momento, a interessi più o meno leciti. Si scambiano per partiti i gruppi di clientes e parassiti che sostano in anticamera. E così può succedere che una crisi di governo si consumi in una manciata di ore, tra le arroganti prepotenze di Draghi, i calcoli furbeschi di Meloni e di Letta, le volubili paure di Conte, le bizze infantili di Renzi e Calenda, i rosari ipocriti di Salvini, le senili ambizioni di Berlusconi, personaggi che rappresentano a fatica se stessi. Chissà come si deve essere sentito il figlio del vecchio Bernardo Mattarella? Comprensibile che non abbia voluto neppure riceverli. E in fondo, a pensarci, cos’è stato il governo Draghi se non un lunghissimo ed estenuante governo di transizione? Una lunga parentesi, tra il nulla e il nulla. E senza neppure la dignità di considerarsi “balneare”.

giovedì 4 agosto 2022

Storie (XXXII). "I fatti di Parma. Cent'anni fa io c'ero"

Parma, 5 agosto 1922

“Signora, dobbiamo aspettare il commendatore per servire il pranzo?”.
“Sì, dovrebbe tornare tra pochi minuti. Intanto fate mangiare i bambini in cucina. Mio marito sarà di pessimo umore dopo l’incontro con il prefetto. Meglio che non lo disturbino”.

Leonora torna in cucina. Da quando è a servizio in quella casa, è la prima volta che in quei giorni di agosto non sono già in villeggiatura a Salsomaggiore, ma quest’anno, con lo sciopero degli operai nella fabbrica del commendatore e gli scontri in città, i signori hanno preferito rimanere a Parma, nonostante il gran caldo. Dopo pochi minuti suona il campanello: la giovane cameriera si affretta a raggiungere la sala da pranzo. La signora ha ragione: il commendatore è davvero molto arrabbiato. “Svelta, porta il pranzo. Non posso aspettare i tuoi comodi”. E così anche Leonora viene a sapere cosa sta succedendo in Oltretorrente.

“Credevo che Balbo sarebbe riuscito a spezzare la schiena a questi porci di comunisti”.
“Caro, contieniti, siamo a tavola”.
“Accidenti, ci sei solo tu, potrò pur sfogarmi, almeno a casa mia. Lo abbiamo pagato e doveva far finire lo sciopero. E adesso è bloccato lì, sulla Parma, da quei quattro straccioni”.
“Il prefetto cosa dice?”.
“È un debole, teme che la situazione ci sfugga di mano, che muoia qualcuno. Ma gli operai capiscono solo le botte. E devono avere paura di noi. Quel napoletano, come il vescovo, pensa che sia possibile trovare un accordo: dicono che vogliono evitare lo spargimento di sangue. Rammolliti… adesso è proprio il momento di colpire, qualcuno di quei comunisti deve morire. Certo non possiamo uccidere Picelli: non abbiamo bisogno di un martire comunista. Questo l’ha capito anche Balbo. Ma quei porci di operai devono sapere che se si mettono contro di noi possono anche morire. Serve un esempio, anche perché quei comunisti fanno figli come conigli. Dobbiamo insegnargli la paura, fin da piccoli. Altrimenti faranno come in Russia. Per questo ci servono i fascisti. E invece il prefetto vuole mandare via le squadre di Balbo e trasferire la gestione dell’ordine pubblico all’esercito”.
“E non è buona cosa?”.
“Ma cosa ti dice la testa? Così sembrerà che l’abbiamo data vinta ai comunisti, quei cani penseranno di poter fare la rivoluzione”.
“Ma vedrai che prima o poi si stancheranno, è agosto, anche loro vorranno andare in villeggiatura”. Leonora non vuole perdere nulla di quella conversazione - perché ci sono anch’io, commendatore, non sono “nessuno” - anche se le sta montando una rabbia a sentire quelle parole. Gli operai, cara signora, non vanno in villeggiatura, devono stare qui, al caldo. Da quando è cominciato lo sciopero e sono arrivati i fascisti, non sa nulla di quello che succede davvero in Oltretorrente, se non quello che dice il padrone a tavola. Quei porci, come li chiami tu, io li conosco, sono la mia famiglia, i miei amici. Non ha notizie di sua madre. Immagina stia aiutando gli uomini di Picelli. E tu, con tutti i tuoi soldi, non sei neppure degno di allacciargli le scarpe a uno come Picelli. Sa che lo fa per suo fratello, che è morto in guerra. La guerra che voi padroni avete fatto combattere a noi poveri. E combatte anche per lei. Io invece me ne sto qui, a servirvi. Voi sì che siete cani. I pensieri affollano la testa di Leonora. Cosa ci sto a fare ancora qui? Sono stata contenta quando mi hanno preso a servizio. Una delle più belle case di Parma. Una fortuna, dicevano le mie amiche dell’Oltretorrente. Qualcuna di loro mi ha invidiata, perché andavo a vivere di là dal fiume. E adesso io invidio loro, che sono rimasti di là e che possono fare la loro parte, contro i fascisti e soprattutto contro quelli come i miei padroni. Se sto qui, lo faccio anche per te, mamma, perché la guerra ha portato via Manrico e la spagnola mio padre. Ma mi vergogno a non essere là con i compagni, a combattere.

È notte ormai. Carlo, tenendo il moschetto tra le gambe, è seduto vicino al ponte di mezzo. Dall’altra parte della strada c’è Gino, anche lui viene da Sermide, si conoscono da quando erano bambini.

Che caldo… Non resisto più. Perfino di notte non si respira. Se fossi a casa potrei scendere nel Po, nuotare sotto la luna, ma qui… Certo questo non è grande come il mio fiume, ma sentire il rumore dell’acqua e non potersi bagnare… In queste notti è un vero tormento. Potessi almeno metterci dentro i piedi… Ma se scendo da qui, sicuro uno dall’altra parte mi spara.
Il comandante ci aveva detto che in un paio di giorni sarebbe finito tutto. Come dalle altre parti: noi siamo arrivati, ne abbiamo picchiati un po’, tutti gli altri si sono spaventati e hanno smesso di fare sciopero. Nelle altre città hanno capito subito che noi siamo più forti, che contro di noi non ha senso resistere. E così ce ne siamo tornati a casa dopo pochi giorni, con qualche soldo in tasca. I miei amici li hanno spesi subito in osteria. Io invece li ho dati a mia madre… Le sono rimasto solo io. Se continuo a obbedire, a fare quello che il comandante mi dice di fare, tra poco tempo avremo messo via abbastanza soldi per affittare una piccola casa. Io lo faccio per lei, mica per ubriacarmi. Lo faccio anche perché mi fido di Balbo, e perché siamo noi, solo noi, che possiamo costruire un’Italia migliore.
Questa invece è una strana città… Non solo non hanno smesso di scioperare, ma hanno anche cominciato a combattere. Hanno costruito perfino delle barricate. Il comandante è furioso: non riusciamo neppure ad attraversare questo torrente che di giorno è quasi asciutto. Sono giorni che siamo fermi qui e loro ci prendono in giro, sventolando quelle loro bandiere rosse.
Non capisco… Anche loro hanno disegnato un fascio sulle loro bandiere. Come il nostro, solo che il loro è spezzato. Ugo dice che sono fascisti anche loro, anche se sono strani. Sono reduci come noi, arrabbiati per come è andata la pace. Come noi. Io non voglio più farla la guerra. Ho sofferto troppo in quelle trincee. Ho rischiato di morire chissà quante volte, di non rivedere più mia madre, seguendo gli ordini assurdi dei miei comandanti. Ma a quei bellimbusti non fregava nulla di noi, volevano solo far bella figura con lo stato maggiore. Dovremmo essere noi a fare i comandanti, noi sappiamo cosa serve ai soldati che stanno nelle trincee. Per loro invece noi fanti potevano pure morire. Che se non ci sparava un austriaco, ci ammazzava la spagnola, o la debolezza per la fame. O i nostri generali con i loro errori: morire in guerra è brutto, ma morire per colpa dei tuoi è ancora peggio. Io quelli che sono scappati li capivo… Qualche volta sarei scappato anch’io… se non fosse stato per mia madre. Il comandante però è diverso da quei damerini, sta insieme a noi, combatte con noi, e non ci dice di attaccare solo per fare bella figura.
Però se fosse davvero come dice Ugo, che anche loro sono dei reduci, gli arditi si chiamano tra loro, non ci sparerebbero, perché nessuno è più ardito di noi, saprebbero che noi abbiamo ragione, che facciamo bene a far smettere i loro scioperi. Loro dicono di essere come noi, ma invece sono bolscevichi, vogliono mandare via i padroni. Lo so anch’io che ci sono dei padroni che bisognerebbe proprio ammazzarli, per come ci trattano. Il padrone che ci ha mandati via, dopo che è morto mio padre, dopo vent’anni che i miei si sono spaccati la schiena per lavorare i suoi campi… Meriterebbe di essere buttato nel Po con un sasso legato ai piedi. E alla fine noi fascisti li cacceremo questi padroni, Balbo ce l’ha promesso. Però ci ha spiegato che i padroni ci vogliono, che mondo sarebbe senza padroni, lo dice anche il parroco. I bolscevichi non vogliono che ci siano più i padroni. Non li vorrei neppure i padroni, ma come si fa a star senza.
E poi loro non credono in niente, neppure in dio. In mezzo alle trincee, quando vedevo morire i miei compagni, anch’io qualche volta ho pensato che dio sia una cosa che si sono inventati i preti. Ma poi quando guardo gli alberi, quando ascolto il rumore dell’acqua, quando mi metto sdraiato a osservare le stelle, non puoi mica credere che dio non ci sia.
Se solo riuscissimo a fargli capire che lo stiamo facendo per loro, per i loro figli. Che poi a me non fa piacere picchiare quelli che fanno sciopero, perché quelli là sono come me. A me dispiaceva anche sparare contro gli austriaci, perché quelli che avevo davanti io erano sicuro contadini come me. Poi dovevo sparare, prima che loro sparassero a me… Ma non è mica naturale spararsi tra contadini. Però questi bolscevichi proprio non la vogliono capire che noi lo stiamo facendo per loro. E se ci sparano allora noi dobbiamo sparare a loro. È che io mi imbroglio quando c’è da parlare davanti agli altri, ma vorrei andare di là, davanti alle loro barricate, per dirgli che noi siamo poveri come loro. Che siamo uguali a loro, che vogliamo tutti la giustizia. Che per i poveri non c’è differenza di qua e di là del fiume.
Ma prima o poi ce la faremo a farci capire.
Che strani pensieri che mi vengono questa notte… Sarà il caldo… Spero che si arrendano presto così potrò tornare a casa… Però sono cocciuti, sono gente strana questi di Parma.
E poi ho visto perfino delle donne lungo le barricate, come se combattessero insieme agli uomini. Questa davvero non la capisco. Io non vorrei che mia madre combattesse a fianco a me… Che mondo verrà se anche le donne si devono mettere a combattere.


Un rumore interrompe i pensieri di Carlo. “Chi va là?”.
“Lasciami passare, sto tornando a casa”.
Il giovane fascista si trova di fronte questa ragazza, dall’aria fiera. I grandi occhi neri di Leonora sembrano sfidarlo. Carlo pensa che sia la ragazza più bella che abbia mai visto.
“A casa?”.
“Sì, devo tornare da mia madre, di là, nell’Oltretorrente, ne ho abbastanza di servire nella case dei padroni”.
“Ma è pericoloso, ci sono le barricate”.
“Non è pericoloso, se stai dalla parte giusta”.
Carlo vorrebbe dirle che questa è la parte giusta, quella dove c’è lui.
Intanto Gino si è svegliato. “Cosa c’è? Con chi parli? Hai preso un bolscevico?”.
Senza pensarci Carlo fa segno a Leonora di stare zitta e di accucciarsi dietro al parapetto. “No, non c’è nessuno, torna pure a dormire”. I due giovani stanno seduti vicini, senza parlare. Aspettano che l’uomo dall’altra parte si addormenti. Carlo sa che ci metterà poco, ma vorrebbe che quel momento non finisse, guarda quegli occhi, come guarda le stelle nel cielo. Sentono che Gino comincia a russare. Leonora si alza. “Grazie, sei un bravo ragazzo per essere un fascista”. Carlo avrebbe da dirle tante cose, ma quando c’è da parlare si imbroglia. La giovane è già di là. Nel buio non la vede più, Carlo immagina ci sia un qualche passaggio che lui ovviamente non conosce. No, non mi piace stare in un mondo in cui le donne devono combattere.




Nota. Con la locuzione fatti di Parma s’intende l’assedio operato dagli squadristi, comandati prima da un quadrumvirato locale e successivamente da Italo Balbo, alla città di Parma, in cui si trovavano asserragliati gli Arditi del Popolo e le formazioni di difesa proletaria, all’inizio dell’agosto 1922.