domenica 27 dicembre 2009

"Silenzio" di Giuseppe Ungaretti

Conosco una città
che ogni giorno s’empie di sole
e tutto è rapito in quel momento

Me ne sono andato una sera

Nel cuore durava il limìo
delle cicale

Dal bastimento
verniciato di bianco
ho visto
la mia città sparire
lasciando
un poco
un abbraccio di lumi nell’aria torbida
sospesi

venerdì 25 dicembre 2009

Considerazioni libere (50): a proposito di schiavitù...

Ci sono paesi del mondo di cui non sappiamo nulla. Il loro nome può apparire per qualche giorno nei titoli dei giornali e dei telegiornali - quasi sempre perché è successo qualcosa a un nostro connazionale - ma è quasi impossibile avere delle informazioni dettagliate su quello che avviene in quella realtà, soprattutto alle persone che là vivono. Sta succedendo in questi giorni con la Mauritania, dove sono stati rapiti un cittadino italiano e la moglie, originaria del Burkina Faso. Abbiamo visto alcune immagini del deserto, ma non ci è stato detto nulla di quel paese, nulla che spieghi quello che sta avvenendo davvero a quelle popolazioni.
La Mauritania è un paese africano, in gran parte desertico, dove vivono, a una stima del 2007, oltre 3 milioni di persone. Il paese è indipendente dal 1960, dopo essere stato una colonia francese. Il 6 agosto 2008 le forze armate hanno effettuato un colpo di stato che ha portato all'arresto del presidente, democraticamente eletto, Sidi Ould Cheikh Abdallah; a guidare il colpo di stato è l'ex capo della guardia presidenziale, il generale Mohamed Ould Abdel Aziz, che era stato rimosso dal presidente Abdallah insieme a diversi ufficiali. Nonostante il colpo di stato sia stato condannato dalla comunità internazionale e la Mauritania sia stata sospesa dall'Unione africana, i militari continuano a detenere il potere, impedendo il reintegro nelle sue funzioni del legittimo presidente.
In Mauritania esiste la schiavitù. Per generazioni gli abitanti di colore, i "mauri neri" o haratin hanno vissuto come schiavi dei loro padroni, i "mauri bianchi" o bidhan, discendenti dai conquistatori arabi. Nonostante la schiavitù sia stata abolita ben tre volte: nel 1905 dai colonizzatori francesi, nel 1965 dalla costituzione dello Stato indipendente e infine nel 1980, essa è ancora viva nel paese.
Per sapere qualcosa di più, credo sia utile leggere questa intervista a Biram Dah Abeid, presidente dell'associazione Initiative de Résurgence du mouvement Abolitionniste de Mauritanie, riportata dal sito della sezione italiana di Amnesty International.

La schiavitù in Mauritania è esercitata dal gruppo che detiene il potere. Ci sono diverse forme di schiavitù: quella domestica, cioè legata al lavoro non retribuito, la schiavitù dei minori, che oltre ad essere costretti a separarsi dal nucleo familiare d'origine, vengono violati sessualmente, maltrattati sin dalla nascita, abusati e utilizzati come schiavi per discendenza, essendo figli di schiavi. Il governo mantiene questa pratica per restare al potere, per esercitare il controllo sulle vittime della schiavitù. La ragione di questa situazione paradossale in Mauritania deriva dal fatto che lo stato e la società sono dominati da un gruppo etnico, gli arabo-berberi, nomadi, che hanno basato il loro sistema interno proprio sullo schiavismo e sulla sottomissione delle popolazioni negroidi nello stesso loro paese. Questo gruppo minoritario occupa i ranghi più alti, i quadri dirigenti nel paese, quindi è quello che decide dell'applicabilità e del rispetto delle norme. La situazione degli schiavi è anche più grave di quella del passato, visto che i moderni schiavi sono apparentemente liberi; ogni giorno essi vengono discriminati, umiliati, castrati nei loro diritti di esseri umani, pur rappresentando circa un milione duecento mila persone. La maggioranza della popolazione vive in questa condizione e anche io l'ho vissuta. Vogliono obbligarci al silenzio e se parliamo siamo vessati e perseguitati. Una minoranza che si ribella è costretta a vivere nell'indigenza. La gente ha paura di denunciare perché ha paura della povertà, poiché chi parla perde ogni diritto a lavorare, sia nel settore pubblico che in quello privato. Anche quando sono stato in Francia e Svizzera per parlare a una conferenza, hanno mandato qualcuno a minacciarmi.

Perché sei in Europa?

Sono stato al Forum delle minoranze a Ginevra per parlare della situazione in Mauritania e la notizia di questo intervento è arrivata anche nel mio paese, dove in molti hanno chiesto pubblicamente il mio arresto per questo. Hanno addirittura detto che se il presidente non si fosse occupato di me avrebbero potuto ucciderlo. In quel momento la sezione francese di Amnesty International ha scritto al governo mauritano e all'Onu per difendermi. Domani però rientrerò ugualmente in Mauritania perché la nostra lotta è lì, non in esilio. Loro vorrebbero che io rimanessi fuori dal paese ma io tornerò. Voglio solo che gli amici di Amnesty International sappiano quanto è pericoloso per me. Se ti impegni nella lotta contro la schiavitù perdi anche quel poco che hai, per questo gli attivisti non sono molti. Non temo un arresto pubblico, ma un atto mafioso sotterraneo che il governo può organizzare in segreto.

Ma c'è una legge che criminalizzi la schiavitù?
Nel 2007 abbiamo ottenuto, per la prima volta nella storia della Mauritania, l'introduzione di una legge che criminalizza la schiavitù. Dopo di che abbiamo presentato un numero enorme di denunce di lavoro forzato, violenza sessuale, tratta di bambini ridotti in schiavitù, separazioni familiari coatte, ma siamo stati ignorati. I giudici sono arabi berberi e si sono rifiutati di applicare la legge.

Come è stato possibile far passare questa legge?
Sulla carta c'era un governo democratico, insediatosi dopo le prime elezioni democratiche ad aprile 2007 e i deputati hanno votato la legge, ma poi ad agosto 2008 c'è stato un colpo di stato militare. La legge non è mai stata applicata. È passata solo per ragioni di facciata, ma di fatto non serve a niente. Ho incontrato a Ginevra la rappresentante dell'Onu sul tema della schiavitù ed è venuta anche in Mauritania, dove l'ho fatta parlare direttamente con le vittime. Ha fatto anche incontri con i rappresentanti del governo e loro le hanno detto che quelle denunce erano false. Lei ha tenuto una conferenza stampa per denunciare il fenomeno gravissimo della schiavitù nel paese, che colpisce la maggioranza della popolazione e a marzo uscirà un rapporto Onu su questo. Quando la rappresentante ha lasciato la Mauritania sono stato ancora più messo sotto pressione. Stanno addirittura cercando di screditarmi, accusandomi pubblicamente di aver corrotto la rappresentate dell'Onu.

Quali sono i paesi che potrebbero contrastare questo rapporto?
Tutti i paesi arabi saranno dalla parte del governo, come ad esempio la Libia, ma purtroppo non solo: anche l'Europa sta appoggiando il governo della Mauritania. In particolare la Francia e la Spagna, che hanno molti rapporti economici con il paese. Inoltre c'è una strumentalizzazione, poiché la Mauritania può essere d'aiuto per affrontare i problemi del terrorismo e dell'immigrazione. Invece gli Usa appoggiano le nostre denunce, in mezzo al silenzio dell'Europa.

Cosa chiedi ad Amnesty International?
Vorrei avere protezione ed essere aiutato ad aumentare l'informazione e la sensibilizzazione sul problema della schiavitù. A marzo 2010 uscirà questo rapporto dell'Onu ed è importante che Amnesty International si attivi per sostenerlo. Serve una mobilitazione di tutte le Organizzazione non governative perché le raccomandazioni contenute in quel rapporto siano note e vengano applicate.


giovedì 24 dicembre 2009

"Il racconto di Natale di Auggie Wren" di Paul Auster

Ho sentito questa storia da Auggie Wren. Siccome Auggie non ne viene fuori molto bene, almeno non bene come egli avrebbe voluto, mi ha chiesto di non usare il suo nome vero. A parte questo, tutti i fatti sul portafoglio smarrito, sulla donna cieca e sulla cena di Natale sono come lui me li ha raccontati.

Auggie ed io ci conosciamo da quasi undici anni ormai. Lavora dietro il bancone di una tabaccheria su Court Street a Brooklyn downtown, e visto che quello è l'unico posto che importa le sigarette olandesi che fumo io, vado lì abbastanza spesso. Per lungo tempo non gli ho prestato molta attenzione. Era soltanto lo strano omuncolo che indossava una felpa blu sudata col cappuccio, che vendeva sigarette e riviste, il buontempone malizioso che aveva sempre qualche cosa spiritosa da dire sul tempo, i Mets o i politici di Washington, e questo era il limite.
Ma poi un giorno, diversi anni fa, gli capitò di stare a guardare una rivista del negozio, e finì per caso su una recensione di uno dei miei libri. Sapeva che ero io perché una foto accompagnava la recensione, e dopo questo le cose cambiarono tra di noi. Non ero più soltanto un cliente per Auggie, ero diventato una persona distinta. Alla maggior parte della gente non potrebbe interessare di meno libri e scrittori, ma venne fuori che Auggie considerava se stesso un artista. Ora che aveva rotto il segreto su chi fossi, mi considerò un alleato, un confidente, un commilitone. Per dire la verità, trovai questa cosa abbastanza imbarazzante. Quindi, quasi inevitabilmente, venne il momento in cui mi chiese se avessi voluto guardare le sue fotografie. Considerato il suo entusiasmo e la sua buona volontà sembrava non esserci possibilità di scoraggiarlo.

Dio sa cosa mi aspettavo. Tanto per cominciare non era ciò che Auggie mi mostrò il giorno seguente. In una piccola stanza senza finestre sul retro del negozio, aprì un cartone e ne tiro fuori dodici identici album fotografici. Questo era il lavoro della sua vita, disse, e non gli prendeva neanche cinque minuti al giorno per farlo. Ogni mattina da dodici anni a questa parte, si era appostato all'angolo tra Atlantic avenue e Clinton street, alle sette precise e aveva scattato una singola fotografia a colori esattamente dallo stesso angolo. Il progetto è arrivato ora a più di quattromila fotografie. Ogni album rappresenta un anno differente, e tutte le fotografie sono ordinate in sequenza dal primo Gennaio al trentuno Dicembre, con le date meticolosamente segnate sotto ciascuna di esse.
Mentre scorrevo gli album e cominciavo a studiare il lavoro di Auggie, non sapevo cosa pensare. La mia prima impressione fu che quello era la cosa più strana e più assurda che avessi mai visto. Tutte le foto erano identiche. L'intero progetto era un fredda scarica di ripetizioni, la stessa strada e gli stessi palazzi, ancora e ancora, un inesorabile delirio di immagini ridondanti. Non potevo pensare a niente da dire ad Auggie così ho continuato a voltare le pagine, annuendo con la testa facendo finta di apprezzare. Anche Auggie sembrava imperturbabile mentre mi guardava con un largo sorriso sul volto, ma dopo aver visto che ero stato lì per diversi minuti, improvvisamente mi interruppe e disse: "Vai troppo svelto. Non ci arriverai mai se non rallenti".

Aveva ragione, ovviamente. Se non ti prendi il tempo per vedere, non imparerai mai a guardare niente. Presi un altro album e mi sforzai di procedere più attentamente. Prestai maggiore attenzione ai dettagli, presi nota dei cambiamenti del clima, osservai le variazioni d'angolatura della luce con il procedere delle stagioni. In breve fui in grado di notare le differenze del flusso del traffico, di anticipare il ritmo dei giorni (il tumulto delle mattine lavorative, la relativa tranquillità dei fine settimana, il contrasto tra i Sabati e le Domeniche). E poi, poco alla volta ho iniziato a riconoscere i volti delle persone sullo sfondo, i passanti sulla loro strada per il lavoro, le stesse persone nello stesso punto ogni mattina, mentre vivono un instante delle loro vite nel campo della macchina fotografica di Auggie.
Una volta che li ho riconosciuti, ho iniziato a studiare la loro situazione, la maniera con cui si trascinavano da un giorno all'altro, cercando di scoprire il loro stato d'animo attraverso queste informazioni superficiali, come se potessi immaginarmi storie per loro, come se potessi penetrare nel dramma invisibile chiuso dentro i loro corpi. Presi un altro album. Non ero più annoiato e neanche imbarazzato come ero all'inizio. Auggie stava fotografando il tempo, realizzai, sia il tempo naturale che quello umano, e lo stava facendo piantandosi in un minuscolo angolo del mondo, desiderando che fosse il proprio mentre vigilava nello spazio che aveva scelto per se stesso. Mentre mi guardava leggere attentamente il suo lavoro, Auggie seguitava a sorridere con soddisfazione. Quindi, quasi stesse leggendo nei miei pensieri, cominciò a recitare un verso di Shakespeare: "Tomorrow and tomorrow and tomorrow," mormorò sottovoce, "time creeps on its petty pace". Capii che sapeva esattamente che cosa stava facendo.

Questo è stato più di duemila foto fa. Da quella volta Auguie ed io abbiamo discusso molte volte del suo lavoro, ma è stato soltanto la settimana scorsa che ho saputo come si era procurato la macchina fotografica e come ha iniziato a fotografare la prima volta. E' il soggetto della storia che mi ha raccontato e sto ancora sforzandomi di dargli un senso.
Poco prima di quella settimana un tizio del New York Times, mi chiama e mi chiede se avessi voluto scrivere un racconto che sarebbe apparso nel giornale le mattina di Natale. Il mio prima impulso fu quello di dire di no, ma l'uomo fu ammaliante e persistente, e alla fine della conversazione gli dissi che avrei tentato. Dal momento che riattaccai il telefono, mi sentii sprofondare nel panico profondo. Che cosa sapevo del natale? Mi sono chiesto. Che cose ne sapevo dello scrivere racconti su commissioni?
Ho passato i successivi giorni nella disperazione, combattendo con i fantasmi di Dickens, O. Henry e altri campioni dello spirito natalizio. L'esatta frase Racconto di Natale comportava spiacevoli associazioni per me, evocando insopportabili sfoghi di miele e melassa. Anche nella migliore delle ipotesi i racconti natalizi erano non più che sogni di appagamento, favole per adulti, e che possa essere dannato se avessi permesso a me stesso di scrivere qualche cosa del genere. E ancora come potrebbe qualcuno prefiggersi di scrivere una storia di Natale non sentimentale? Era una contraddizione in termini, un paradosso, un rompicapo vero e proprio. Si potrebbe immaginare meglio un cavallo da corsa senza gambe o un passero senza ali.
Non sono arrivato da nessuna parte. Il martedì uscii per fare una lunga passeggiata, sperando che l'aria mi avrebbe schiarito le idee. Appena passato mezzogiorno mi fermai al negozio di sigari per rifornire la mia scorta e li c'era Auggie, in piedi dietro la cassa come sempre. Mi chiese come stavo. Senza realmente volerlo mi ritrovai a sfogare i miei problemi con lui. "Un racconto di natale?" disse dopo che avevo finito. "Tutto qui? Se mi offri il pranzo, amico mio, ti racconterò il miglior racconto di natale che hai mai sentito. E ti garantisco che ogni parola di esso è vera".
Camminammo verso il quartiere dove stava Jack, un buco allegro dove servivano degli ottimi sandwich e pieno di fotografie dei Dogers appese al muro. Trovammo un tavolo in fondo, ordinammo da mangiare e quindi Auggie si lanciò nella sua storia.

"Era l'estate del settantadue" disse. "Un ragazzino arrivò una mattina e iniziò a rubare dal negozio. Doveva avere circa diciannove o venti anni e credo di non aver visto mai un taccheggiatore più patetico nella mia vita. Stava vicino alla rastrelliera dei giornali vicino al muro lontano e si riempiva la tasca del cappotto di libri. Al momento attorno alla cassa era affollato così all'inizio non lo vidi. Ma quando ho notato che cosa stava combinando, iniziai a strillare. Partii come un coniglio a nel tempo in cui mi sono districato per uscire da dietro la cassa stava già correndo a tutta velocità giù per Atlantic Avevue. L'ho inseguito per un po' ma poi ho rinunciato. Aveva lasciato cadere qualcosa lungo la strada e siccome non me la sentivo più di correre mi piegai a vedere che cos'era.
Risultò che fosse il suo portafoglio. Non c'erano soldi dentro, ma c'era la sua patente con tre o quattro fototessere. Penso che avrei dovuto chiamare i poliziotti e farlo arrestare. Avevo il suo nome e l'indirizzo dalla patente, ma mi sentivo un po' dispiaciuto per lui. Era un piccolo misero punk, e una volta che avevo visto quelle foto nel portafoglio non riuscii ad essere veramente arrabbiato con lui.
Robert Goodwin. Era questo il suo nome. In una delle foto, mi ricordo, stava con il braccio intorno alla madre o alla nonna. In un'altra stava seduto all'età si nove o dieci anni, vestito con l'uniforme da baseball e un grande sorriso stampato in volto. Non né ho avuto il fegato, ecco. Era probabilmente drogato, ho immaginato. Un ragazzo povero di Brooklyn senza molta fortuna e chi se ne fregava di un paio di rivistaccie, in ogni caso?
"Alla fine mi tenni stretto il portafoglio. Di tanto in tanto sentivo l'impulso di spedirglielo indietro ma ho continuato a rimandare e non ho fatto mai niente. Quindi arriva il natale ed io non ho nulla da fare.
Il capo solitamente mi invita da lui a passare la giornata ma quell'anno lui e la sua famiglia erano giù in Florida a far visita ai parenti. Quindi sto seduto nel mio appartamento quella mattina sentendomi un po' dispiaciuto per me stesso quando vedo il portafoglio di Robert Goodwin che giaceva in una mensola in cucina. Penso, cazzo perché non fare qualche cosa di carino per una volta così mi metto il cappotto e vado fuori per restituire il portafoglio di persona.
L'indirizzo era su a Boerum Hill, da qualche parte nei quartieri popolari. Si congelava quel giorno e mi ricordo di essermi perso diverse volte cercando di trovare il palazzo giusto. Tutto sembrava uguale in quel posto, tu continui ad andare intorno allo stesso posto pensando di essere altrove. In ogni caso raggiungo finalmente l'appartamento che sto cercando e suono il campanello. Non succede niente. Deduco che non c'è nessuno, ma provo ancora giusto per essere sicuro. Aspetto un po' di più e proprio nel momento in cui sto per rinunciare, sento qualcuno trascinarsi verso la porta. Una voce di donna anziana mi chiede chi è e io dico che sto cercando Robert Goodwin. 'Sei tu Robert?' dice la vecchia, e quindi da circa quindici giri alla serratura e apre la porta.

Doveva avere massimo ottanta, forse novant'anni e la prima cosa che ho notato di lei è che era cieca. 'Sapevo che saresti venuto Robert' disse 'Sapevo che non ti saresti scordato di tua nonna Ethel a natale. Quindi allarga le braccia come se stesse per abbracciarmi.
Non avevo molto tempo per pensare, capisci. Dovevo dire qualcosa velocemente e prima che sapessi che cosa stesse succedendo potei sentire le parole uscire dalla mia bocca. 'E' vero nonna Ethel', dissi. 'Sono tornato per venire a trovarti a natale. Non chiedermi perché l'ho fatto. Non ne ho idea. Forse non la volevo dispiacere o qualcosa del genere, non lo so. Mi è venuto fuori così e dopo questa vecchia donna improvvisamente mi stava abbracciando davanti alla porta, ed io la stavo abbracciando a mia volta.
Non dissi esattamente che ero suo nipote. Non con molte parole in ogni caso ma questa fu la conseguenza. Non stavo neanche cercando di ingannarla. Era come un gioco che entrambi avevamo deciso di fare senza dover discutere delle regole. Voglio dire, quella donna sapeva che non ero suo nipote Robert. Era vecchia e mezza matta ma non era così andata da non poter distinguere tra un estraneo e il sangue del suo sangue. Ma la rendeva felice fare finta, e visto che io non avevo niente di meglio da fare comunque, ero contento di proseguire con lei.
Quindi entrammo nell'appartamento e passammo la giornata insieme. Il posto era veramente un letamaio, potrei aggiungere, ma cosa puoi aspettarti da una donna cieca che fa da sola i lavori di casa? Ogni volta che mi faceva una domanda su come andava le mentivo. Le ho raccontato che avevo trovato un buon lavoro al negozio di sigari, le ho raccontato che stavo per sposarmi, le ho raccontato un centinaio di storie simpatiche, e lei si comportava come se credeva ad ognuna di esse. 'Va bene, Robert' diceva muovendo la testa mentre sorrideva. 'Ho sempre saputo che le cose avrebbero funzionato per te'.
Dopo un po' ho iniziato ad avere abbastanza fame. Non sembrava che ci fosse da mangiare a sufficienza in casa allora sono andato in un negozio in zona e ho portato un casino di cose. Un pollo precotto, una zuppa vegetale, una vaschetta di insalata di patate, una torta di cioccolato, ogni genere di cose. Ethel aveva un paio di bottiglie di vino stipate in camera, e alla fine tra lei e me mettemmo decentemente insieme una dignitosa cena di natale.
Entrambi diventammo un po' alticci dal vino, mi ricordo, e dopo che il cibo finì uscimmo per sederci in sala, dove le sedie erano più comode. Dovevo fare pipì, quindi mi scusai e andai nel bagno in fondo al corridoio. Questo è dove le cose fecero una nuova svolta. Era già abbastanza sciocco fare questo gioco del nipote di Ethel, ma quello che feci dopo fu assolutamente folle e non mi perdonerò mai per questo.

Vado in bagno e ammassata davanti al muro vicino alla doccia, vedo una pila di sei o sette macchine fotografiche. Nuove trentacinque millimetri, ancora nelle scatole, merce di prima qualità. Immagino che quello è opera del vero Robert, un magazzino per i suoi ultimi furti. Non avevo mai fatto una foto in vita mia, e sicuramente non avevo mai rubato niente, ma nel momento che ho visto quelle macchine in bagno, ho deciso che volevo averne una per me. Così. E senza neanche fermarmi a pensarci, ho preso una di quelle scatole sotto il braccio e sono tornato in salotto.
Non dovevo essermi assentato per più di tre minuti, ma in quel tempo nonna Ethel si era addormentata nella sedia. Troppo Chianti, immagino. Andai in cucina per lavare i piatti e lei dormì durante tutto il baccano russando come un bambino. Non c'era nessun motivo per svegliarla così decisi di andare. Non avrei neanche potuto scriverle un biglietto per salutarla, considerando che era cieca e tutto il resto, perciò me ne andai soltanto. Lasciai il portafoglio di suo nipote sul tavolo, presi di nuovo la macchina fotografica e camminai fuori dall'appartamento.
E questa è la fine della storia".

''Sei mai tornato a trovarla?'' chiesi.
''Una volta'' disse. "Circa tre o quattro mesi dopo. Mi sentivo veramente male per aver rubato la macchina fotografica, non la avevo neanche usata ancora. Finalmente mi misi in testa di restituirla, ma Ethel non era più lì. Non so che cosa le è successo, ma qualcun altro si era trasferito nell'appartamento, e non seppe dirmi dove era".
"Probabilmente è morta".
"Già, probabilmente".
"Questo significa che ha passato il suo ultimo natale con te".
"Penso di sì. Non l'ho mai vista in questo modo".
"E' stata una buona azione, Auggie. E' stata una cosa carina che hai fatto per lei".
"Le ho mentito, e dopo ho anche rubato da lei. Non vedo come tu puoi chiamarla buona azione".
"L'hai fatta felice. E le macchine erano in ogni caso rubate. Non è come se la persona da cui le hai prese le possedeva sul serio".
"Qualsiasi cosa per l'arte, eh, Paul?"
"Non lo avrei detto. Ma alla fine hai usato le macchine per un buono scopo".
"E ora hai la tua storia di natale, no?''
"Sì," dissi. "Penso di sì".

Mi fermai un momento per studiare Auggie mentre un ghigno malizioso si apriva sul suo volto. Non potevo esserne sicuro, ma i suoi occhi in quel momento apparivano misteriosi, così carichi di una specie di bagliore interiore, che improvvisamente mi venne in mente che avesse costruito tutta la storia. Ero sul punto di chiedergli se mi avesse raccontando frottole, ma poi mi resi conto che non lo avrei mai fatto. Sono stato convinto a crederci e questo era l'unica cosa che contava. Fino a che c'è qualcuno che ci crede non esiste storia che non può essere vera.
Sei un asso, Augie." Dissi. "Grazie per essermi stato così d'aiuto''.
"Ogni volta che vuoi" rispose, guardandomi ancora con quella luce maniacale negli occhi. "Dopo tutto, se non puoi condividere i tuoi segreti con gli amici, che razza di amico saresti?".
"Mi sa che te ne devo uno".
"No, non devi. Buttala giù così come te l'ho raccontata io e non mi devi nulla".
"Eccetto il pranzo".
"E' vero. Eccetto il pranzo".
Contraccambiai il sorriso di Auggie con un sorriso dei miei, dopo chiamai la cameriera e le chiesi il conto.

mercoledì 23 dicembre 2009

"La differenza" di Guido Gozzano

Penso e ripenso: - Che mai pensa l'oca
gracidante alla riva del canale?
Pare felice! Al vespero invernale
protende il collo, giubilando roca.

Salta starnazza si rituffa gioca:
né certo sogna d'essere mortale
né certo sogna il prossimo Natale
né l'armi corruscanti della cuoca.

- O pàpera, mia candida sorella,
tu insegni che la Morte non esiste:
solo si muore da che s'è pensato.

Ma tu non pensi. La tua sorte è bella!
Ché l'esser cucinato non è triste,
triste è il pensare d'esser cucinato.

martedì 22 dicembre 2009

Considerazioni libere (49): a proposito della giustizia e della pena di morte...

In questi giorni di neve e gelo - l'informazione italiana preferisce sempre occuparsi di un disastro, più o meno annunciato, per poi passare ad altri disastri - è passata sotto silenzio una notizia proveniente dagli Stati Uniti. Alcuni giorni fa un tribunale della Florida ha definitivamente scagionato, grazie alla prova del Dna, James Bain dalla terribile accusa di aver rapito e violentato un bambino. L'omicidio è avvenuto nel 1974, quando Bain aveva soltanto 19 anni; allora non esisteva la prova del Dna e quest'uomo ha trascorso, da innocente, 35 anni in carcere. Aveva chiesto da oltre un decennio di sottoporsi alla prova del Dna, ma soltanto quest'anno un giudice ha accolto la sua richiesta, grazie all'impegno di "Innocence projet", una combattiva associazione dei diritti umani. L'uomo, che quando avvenne il sequestro del bambino era a casa sua con la sorella, fu arrestato dalla polizia in base a un affrettato identikit. La vittima dichiarò di essere stato stuprato da un giovane con le basette e i baffi, connotati rispondenti a quelli di Bain. Non è stato fatto un faccia a faccia tra i due, ma il bambino pensò di riconoscerlo in una fotografia. "In realtà - ha protestato l’avvocato Seth Miller dell'associazione "Innocence project" - la vittima fu spinta a farlo dalla polizia". Ha ammesso Ed Threadgill, l’ex procuratore della Florida che lo fece condannare: "Mi rammarico del tragico abbaglio, se ci fosse stata la prova del Dna lo avremmo evitato".
La storia di James Bain non è isolata. Dal 1989, ossia da quando i tribunali hanno accettato le prove del Dna per riesaminare casi già passati in giudicato, 248 detenuti innocenti sono stati scarcerati negli Stati Uniti, di questi 17 erano stati condannati a morte. La maggioranza di queste persone sono afroamericane. Kirk Bloodswort nel 1993 è stato il primo condannato a morte strappato alla sedia elettrica dalla prova del codice genetico. Bloodsworth era stato condannato per lo stupro e l'omicidio di una bambina di nove anni a Baltimora. Sempre proclamandosi innocente, chiese che le prove contro di lui venissero esaminate. All' inizio gli dissero che quella decisiva, le tracce di seme umano sui vestiti della vittima, era stata distrutta; poi, grazie alle pressioni di "Innocence project", la prova riapparve misteriosamente e Bloodswort potè essere scagionato in via definitiva.
Nonostante questi fatti, le esecuzioni quest’anno sono aumentate a 52, contro le 42 del 2007 e le 37 del 2008. Dobbiamo sempre ricordare che nel mondo ci sono ancora 85 Stati che prevedono effettivamente la pena di morte nel loro ordinamento. Voglio riportare un passo di un discorso che Norberto Bobbio tenne il 3 aprile del 1981 in occasione della sesta Assemblea annuale di "Amnesty International".
La pena di morte di morte non serve a diminuire i delitti di sangue. Ma se si riuscisse a dimostrare che li previene? Ecco allora che l'abolizionista deve fare ricorso a un'altra istanza, a un argomento di carattere morale, a un principio posto come assolutamente indiscutibile (un vero e proprio postulato etico). E questo argomento non può esser desunto che dall'imperativo morale: non uccidere, da accogliersi come un principio che ha valore assoluto. Ma come? Si potrebbe ribattere: l'individuo singolo ha diritto di uccidere per legittima difesa e la collettività no? Rispondo: la collettività non ha questo diritto perché la legittima difesa nasce e si giustifica soltanto come risposta immediata in istato di impossibilità di fare altrimenti; la risposta della collettività è mediata attraverso un procedimento, talora anche lungo, in cui si dibattono argomenti pro e contro; in altre parole la condanna a morte in seguito a un procedimento non è piú un omicidio per legittima difesa, ma un omicidio legale legalizzato, perpetrato a freddo, premeditato. Un omicidio che richiede degli esecutori, cioè persone autorizzate a uccidere. Non per nulla l'esecutore della pena di morte, per quanto autorizzato a uccidere, è sempre stato considerato un personaggio infame [...]. Questa autorizzazione non giustifica l'atto autorizzato e non lo giustifica, perché l'atto è ingiustificabile, ed è ingiustificabile perché è degradante per chi lo compie e per chi lo subisce (come si vede dicendo “degradante” uso un giudizio morale). Lo stato non può porsi sullo stesso piano del singolo individuo. L'individuo singolo agisce per rabbia, per passione, per interesse, per difesa. Lo stato risponde meditatamente, riflessivamente, razionalmente. Anch'esso ha il dovere di difendersi. Ma è troppo piú forte del singolo individuo per aver bisogno di spegnerne la vita a propria difesa. Lo stato ha il privilegio e il beneficio del monopolio della forza. Deve sentire tutta la responsabilità di questo privilegio e di questo beneficio. Capisco benissimo che è un ragionamento arduo, astratto, che può essere tacciato di moralismo ingenuo, di predica inutile. Ma cerchiamo di dare una ragione alla nostra ripugnanza alla pena di morte. La ragione è una sola: il comandamento di non uccidere.

lunedì 21 dicembre 2009

"La signorina Felicita ovvero la Felicità" di Guido Gozzano

10 luglio: Santa Felicita

I.

Signorina Felicita, a quest'ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest'ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all'avvocato che non fa ritorno?
E l'avvocato è qui: che pensa a te.

Pensa i bei giorni d'un autunno addietro,
Vill'Amarena a sommo dell'ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l'orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa...

Vill'Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.

Bell'edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga dalle stanze morte!
Odore d'ombra! Odore di passato!
Odore d'abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Ercole furibondo ed il Centauro,
le gesta dell'eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
d'Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia del Nume ghermitore...

Penso l'arredo - che malinconia! -
penso l'arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell'Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere... Che malinconia!

Antica suppellettile forbita!
Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi pazïente... Avita
semplicità che l'anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

II.

Quel tuo buon padre - in fama d'usuraio -
quasi bifolco, m'accoglieva senza
inquietarsi della mia frequenza,
mi parlava dell'uve e del massaio,
mi confidava certo antico guaio
notarile, con somma deferenza.

"Senta, avvocato..." E mi traeva inqueto
nel salone, talvolta, con un atto
che leggeva lentissimo, in segreto.
Io l'ascoltavo docile, distratto
da quell'odor d'inchiostro putrefatto,
da quel disegno strano del tappeto,

da quel salone buio e troppo vasto...
"...la Marchesa fuggì... Le spese cieche..."
da quel parato a ghirlandette, a greche...
"dell'ottocento e dieci, ma il catasto..."
da quel tic-tac dell'orologio guasto...
"...l'ipotecario è morto, e l'ipoteche..."

Capiva poi che non capivo niente
e sbigottiva: "Ma l'ipotecario
è morto, è morto!!...". - "E se l'ipotecario
è morto, allora..." Fortunatamente
tu comparivi tutta sorridente:
"Ecco il nostro malato immaginario!".

III.

Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga...

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d'efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l'iridi sincere
azzurre d'un azzurro di stoviglia...

Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d'ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un'amicizia così bene accolta,
quando ti presentò la prima volta
l'ignoto villeggiante forestiero.

Talora - già la mensa era imbandita -
mi trattenevi a cena. Era una cena
d'altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita...

Per la partita, verso ventun'ore
giungeva tutto l'inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma - poiché trasognato giocatore -
quei signori m'avevano in dispregio...

M'era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d'aglio di cedrina...

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell'acciottolio.

Sotto l'immensa cappa del camino
(in me rivive l'anima d'un cuoco
forse...) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d'un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio e il mio destino...

Vedevo questa vita che m'avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell'altra stanza.

IV.

Bellezza riposata dei solai
dove il rifiuto secolare dorme!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò ch'è stato e non sarà più mai,
bianca bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:

"È quella che lasciò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno... E noi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena... L'han veduta alcuni
lasciare il quadro; in certi noviluni
s'ode il suo passo lungo i corridoi...".

Il nostro passo diffondeva l'eco
tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l'un piede ignudo in mano,
si riposava all'ombra d'uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.

Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v'era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!

Tra i materassi logori e le ceste
v'erano stampe di persone egregie;
incoronato dalle frondi regie
v'era Torquato nei giardini d'Este.
"Avvocato, perché su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliege?"

Io risi, tanto che fermammo il passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria! un corridoio basso,
tre ceste, un canterano dell'Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!

Allora, quasi a voce che richiama,
esplorai la pianura autunnale
dall'abbaino secentista, ovale,
a telaietti fitti, ove la trama
del vetro deformava il panorama
come un antico smalto innaturale.

Non vero (e bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.

Ecco - pensavo - questa è l'Amarena,
ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c'è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei "cosi
con due gambe" che fanno tanta pena...

L'Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere
vane, divisi e suddivisi a schiere
opposte, intesi all'odio e alle percosse:
così come ci son formiche rosse,
così come ci son formiche nere...

Schierati al sole o all'ombra della Croce,
tutti travolge il turbine dell'oro;
o Musa - oimè! - che può giovare loro
il ritmo della mia piccola voce?
Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell'oro, dell'alloro...

L'alloro... Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l'alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s'esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar altrui...

"Avvocato, non parla: che cos'ha?"
"Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
a piccole miserie, alla città...
Sarebbe dolce restar qui, con Lei!..."
"Qui, nel solaio?..." - "Per l'eternità!"
"Per sempre? Accetterebbe?..." - "Accetterei!"

Tacqui. Scorgevo un atropo soletto
e prigioniero. Stavasi in riposo
alla parete: il segno spaventoso
chiuso tra l'ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
si librò con un ronzo lamentoso.

"Che ronzo triste!" - "È la Marchesa in pianto...
La Dannata sarà che porta pena..."
Nulla s'udiva che la sfinge in pena
e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
O mio carino tu mi piaci tanto,
siccome piace al mar una sirena...

Un richiamo s'alzò, querulo e rôco:
"È Maddalena inqueta che si tardi:
scendiamo; è l'ora della cena!". - "Guardi,
guardi il tramonto, là... Com'è di fuoco!...
Restiamo ancora un poco!" - "Andiamo, è tardi!"
"Signorina, restiamo ancora un poco!..."

Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pippistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s'annunciò la notte
sulla serenità canavesana...

"Una stella!..." - "Tre stelle!..." - "Quattro stelle!..."
"Cinque stelle!" - "Non sembra di sognare?..."
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessità crepuscolare:
"Scendiamo! È tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle..."

V.

Ozi beati a mezzo la giornata,
nel parco dei marchesi, ove la traccia
restava appena dell'età passata!
Le Stagioni camuse e senza braccia,
fra mucchi di letame e di vinaccia,
dominavano i porri e l'insalata.

L'insalata, i legumi produttivi
deridevano il busso delle aiole;
volavano le pieridi nel sole
e le cetonie e i bombi fuggitivi...
Io ti parlavo, piano, e tu cucivi
innebriata dalle mie parole.

"Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m'avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!

Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell'aurora che dicono: l'Amore..."

Tu mi fissavi... Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
"Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?".

"Perché mi fa tali discorsi vani?
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!..."
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia, come fa la scolaretta.

Ma, nel chinarmi su di te, m'accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
da gli ultimi singulti nella strozza:
"Non mi ten...ga mai più... tali dis...corsi!"

"Piange?" E tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l'orecchio, il collo snello...
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d'improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.

Donna: mistero senza fine bello!

VI.

Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d'ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l'aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte...

Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d'essere un poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t'han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...
Mi piaci. Mi faresti più felice
d'un'intellettuale gemebonda...

Tu ignori questo male che s'apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piace. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

Ed io non voglio più essere io!
Non più l'esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista...

Ed io non voglio più essere io!

VII.

Il farmacista nella farmacia
m'elogiava un farmaco sagace:
"Vedrà che dorme le sue notti in pace:
un sonnifero d'oro, in fede mia!"
Narrava, intanto, certa gelosia
con non so che loquacità mordace.

"Ma c'è il notaio pazzo di quell'oca!
Ah! quel notaio, creda: un capo ameno!
La Signorina è brutta, senza seno,
volgaruccia, Lei sa, come una cuoca...
E la dote... la dote è poca, poca:
diecimila, chi sa, forse nemmeno..."

"Ma dunque?" - "C'è il notaio furibondo
con Lei, con me che volli presentarla
a Lei; non mi saluta, non mi parla..."
"È geloso?" - "Geloso! Un finimondo!..."
"Pettegolezzi!..." - "Ma non Le nascondo
che temo, temo qualche brutta ciarla..."

"Non tema! Parto." - "Parte? E va lontana?"
"Molto lontano... Vede, cade a mezzo
ogni motivo di pettegolezzo..."
"Davvero parte? Quando?" - "In settimana..."
Ed uscii dall'odor d'ipecacuana
nel plenilunio settembrino, al rezzo.

Andai vagando nel silenzio amico,
triste perduto come un mendicante.
Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
su quel dolce paese che non dico.
La Luna sopra il campanile antico
pareva "un punto sopra un I gigante".

In molti mesti e pochi sogni lieti,
solo pellegrinai col mio rimpianto
fra le siepi, le vigne, i castagneti
quasi d'argento fatti nell'incanto;
e al cancello sostai del camposanto
come s'usa nei libri dei poeti.

Voi che posate già sull'altra riva,
immuni dalla gioia, dallo strazio,
parlate, o morti, al pellegrino sazio!
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l'Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?

A lungo meditai, senza ritrarre
la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno
s'udiva il grido delle strigi alterno...
La Luna, prigioniera fra le sbarre,
imitava con sue luci bizzarre
gli amanti che si baciano in eterno.

Bacio lunare, fra le nubi chiare
come di moda settant'anni fa!
Ecco la Morte e la Felicità!
L'una m'incalza quando l'altra appare;
quella m'esilia in terra d'oltremare,
questa promette il bene che sarà...

VIII.

Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell'estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti da bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.

"Vïaggio con le rondini stamane..."
"Dove andrà?" - "Dove andrò? Non so... Vïaggio,
vïaggio per fuggire altro vïaggio...
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell'Atlantico selvaggio...

Signorina, s'io torni d'oltremare,
non sarà d'altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l'altare?"
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda:
trenta settembre novecentosette...
Io non sorrisi. L'animo godette
quel romantico gesto d'educanda.

Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d'addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti...
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole...

"Un altro stormo s'alza!..." - "Ecco s'avvia!"
"Sono partite..." - "E non le salutò!..."
"Lei devo salutare, quelle no:
quelle terranno la mia stessa via:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò..."

Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d'altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine...

M'apparisti così come in un cantico
del Prati, lacrimante l'abbandono
per l'isole perdute nell'Atlantico;
ed io fui l'uomo d'altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico...

Quello che fingo d'essere e non sono!

domenica 20 dicembre 2009

"Il sogno del prigioniero" di Eugenio Montale

Alba e notti qui variano per pochi segni.

Il zigzag degli storni sui battifredi
nei giorni di battaglia, mie sole ali,
un filo d'aria polare,
l'occhio del capoguardia dallo spioncino,
crac di noci schiacciate, un oleoso
sfrigolìo dalle cave, girarrosti
veri o supposti - ma la paglia è oro,
la lanterna vinosa è focolare
se dormendo mi credo ai tuoi piedi.

La purga dura da sempre, senza un perché.
Dicono che chi abiura e sottoscrive
può salvarsi da questo sterminio d'oche;
che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d'altri, afferra il mestolo
anzi che terminare nel pâté
destinato agl'Iddii pestilenziali.

Tardo di mente, piagato
dal pungente giaciglio mi sono fuso
col volo della tarma che la mia suola
sfarina sull'impiantito,
coi kimoni cangianti delle luci
sciorinate all'aurora dei torrioni,
ho annusato nel vento il bruciaticcio
dei buccellati dai forni,
mi son guardato attorno, ho suscitato
iridi su orizzonti di ragnateli
e petali sui tralicci delle inferriate,
mi sono alzato, sono ricaduto
nel fondo dove il secolo è il minuto
e i colpi si ripetono ed i passi,
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L'attesa è lunga,
il mio sogno di te non è finito.

sabato 19 dicembre 2009

"I bu" di Tonino Guerra

Andè a di acsè mi bu ch' i vaga véa,
che quèl chi à fat i à fat,
che adèss u s'èra préima se tratòur.

E' pianz e' cór ma tótt, ènca mu mè,
avdài ch'i à lavurè dal mièri d'an
e adès i à d'andè véa a tèsta basa
dri ma la córda lònga de mazèl.

Considerazioni libere (48): a proposito della domenica...

Alcuni giorni fa i sindacati del commercio di Cgil, Cisl e Uil e i delegati sindacali della Coop Estense di Modena e Ferrara hanno scritto una lettera aperta al presidente della Cei dell'Emilia-Romagna, il cardinale Caffarra, ai vescovi di Modena e di Ferrara e agli amministratori locali di quelle città sulle aperture domenicali dei negozi. Nella lettera richiamano la recentissima sentenza della Corte costituzionale tedesca che ha accolto il ricorso presentato dalle chiese cattolica ed evangelica contro la decisione di prevedere l'apertura dei negozi a Berlino durante le quattro domeniche di avvento, affermando che l'apertura domenicale viola la Costituzione. I giudici hanno argomentato la loro decisione spiegando che la domenica deve essere considerata giornata del riposo dal lavoro, non solo per motivi religiosi, ma anche per permettere il recupero fisico e spirituale dei lavoratori e la loro partecipazione alla vita sociale.
Ormai siamo così abituati ad andare a fare la spesa anche durante la domenica o a passare parte dei nostri giorni festivi nei centri commerciali, che ci facciamo sempre meno caso. Eppure solo fino a qualche anno fa non era così: il sabato si acquistava la "doppia" dal fornaio e se ci scordava qualcosa per la domenica, pazienza (magari si provava a chiedere ai vicini). Giustamente i sindacati ricordano che le aperture domenicali alla lunga non fanno aumentare la "torta" dei consumi, che rimangono più o meno gli stessi, venendo semplicemente spalmati su sette invece che su sei giorni. L'unico risultato è che le aperture domenicali tendono a favorire i grandi centri commerciali rispetto alla piccola e media distribuzione, quindi a favorire chi è è già più forte. Non aumentano i consumi delle famiglie e di conseguenza non aumenta l'occupazione - come invece sostengono le grandi catene - i lavoratori e le lavoratrici sono costretti a turni massacranti; molti di loro da metà novembre fino alla Befana lavorano tutti i giorni festivi, escluso i giorni di Natale e Capodanno, e questo sicuramente non aiuta l'equilibrio di una famiglia. In alcuni centri commerciali - lo so con certezza - la direzione avrebbe voluto aprire anche il giorno di Natale, ma soltanto alla mattina. Occorre ricordare infine che in Italia assistiamo a una forma di "federalismo" commerciale esasperato e ogni Comune decide per conto proprio, con una tendenza sempre più netta verso la deregolamentazione.
La lettera si conclude in questo modo: "Bisogna avere il coraggio di dire basta a modelli di esasperato quanto deleterio consumismo. Bisogna avere il coraggio di farlo, prima di essere del tutto sazi, ma assolutamente disperati". I non bolognesi forse non coglieranno la citazione finale; parecchi anni fa il predecessore di Caffarra, il cardinale Biffi definì Bologna "sazia e disparata", sollevando una polemica che trascese il livello pastorale per entrare nella quotidiana querelle politica. Mi pare che gli estensori della lettera abbiano colto in pieno il senso di quella forte invettiva del cardinale, che si rivolgeva alla città di cui era pastore, ma non solo. Effettivamente ormai nessuno critica un modello di vita per cui i centri commerciali sono diventati uno dei centri della vita sociale di un territorio, un modello in cui il tempo libero è diventato sinonimo di consumo, un modello che ci vede sempre più come consumatori e sempre meno come persone. Dobbiamo ringraziare i lavoratori della Coop Estense per avercelo fatto ricordare.

"Giorno e notte" di Eugenio Montale

Anche una piuma che vola può disegnare
la tua figura, o il raggio che gioca a rimpiattino
tra i mobili, il rimando dello specchio
di un bambino, dai tetti. Sul giro delle mura
strascichi di vapore prolungano le guglie
dei pioppi e giù sul trespolo s'arruffa il pappagallo
dell'arrotino. Poi la notte afosa
sulla piazzola, e i passi, e sempre questa dura
fatica di affondare per risorgere eguali
da secoli, o da istanti, d'incubi che non possono
ritrovare la luce dei tuoi occhi nell'antro
incandescente - e ancora le stesse grida e i lunghi
pianti sulla veranda
se rimbomba improvviso il colpo che t'arrossa
la gola e schianta l'ali, o perigliosa
annunziatrice dell'alba,
e si destano i chiostri e gli ospedali
a un lacerìo di trombe...

venerdì 18 dicembre 2009

"La farfàla" di Tonino Guerra

Cuntént própri cuntént
a sò stè una masa ad vólti tla vóita
mó piò di tótt quant ch'i m'a liberè
in Germania
ch'a m sò mèss a guardè una farfàla
sénza la vòia ad magnèla.

"La favola delle api; o Vizi privati e pubbliche virtù" di Bernard de Mandeville

Un numeroso sciame di api abitava un alveare spazioso. Là in una felice abbondanza esse vivevano tranquille. Questi insetti celebri per le loro leggi non lo erano meno per il successo delle loro armi e per il modo in cui si moltiplicavano. La loro dimora era un perfetto seminario di scienza e d’industria. Mai api vissero sotto un governo piú saggio; tuttavia mai ve ne furono di piú incostanti e di meno soddisfatte. Esse non erano né schiave infelici di una dura tirannia né erano esposte ai crudeli disordini della feroce democrazia. Esse erano condotte da re che non potevano errare perché il loro potere era saggiamente vincolato dalle leggi.
Questi insetti imitando ciò che si fa in città nell’esercito e nel foro vivevano perfettamente come gli uomini ed eseguivano per quanto in piccolo tutte le loro azioni. Le opere meravigliose compiute dall’abilità incomparabile delle loro piccole membra sfuggivano alla debole vista degli uomini; tuttavia non vi sono presso di noi né macchine né operai né mestieri né navi né cittadelle né armate né artigiani né astuzie né scienza né negozi né strumenti insomma non v’è nulla di ciò che si vede presso gli uomini di cui questi operosi animali pure non si servissero. E siccome il loro linguaggio ci è sconosciuto non possiamo parlare di ciò che le riguarda se non impiegando le nostre impressioni. Si ritiene generalmente che tra le cose degne d’esser notate questi animali non conoscevano affatto l’uso né dei bossoli né dei dadi; ma poiché avevano dei re e conseguentemente delle guardie si può naturalmente presumere che conoscessero qualche specie di giochi. Si vedono mai infatti degli ufficiali e dei soldati che si astengono da questo divertimento?
Il fertile alveare era pieno di una moltitudine prodigiosa di abitanti il cui grande numero contribuiva pure alla prosperità comune. Milioni di api erano occupate a soddisfare la vanità e le ambizioni di altre api che erano impiegate unicamente a consumare i prodotti del lavoro delle prime. Malgrado una cosí grande quantità di operaie i desideri di queste api non erano soddisfatti. Tante operaie e tanto lavoro potevano a mala pena mantenere il lusso della metà della popolazione.
Alcuni con grandi capitali e pochi affanni facevano dei guadagni molto considerevoli. Altri condannati a maneggiare la falce e la vanga non potevano guadagnarsi la vita se non col sudore della fronte e consumando le loro forze nei mestieri piú penosi. Si vedevano poi degli altri applicarsi a dei lavori del tutto misteriosi che non richiedevano né apprendistato né sostanze né travagli. Tali erano i cavalieri d’industria i parassiti i mezzani i giocatori i ladri i falsari i maghi i preti e in generale tutti coloro che odiando la luce sfruttavano con pratiche losche a loro vantaggio il lavoro dei loro vicini che non essendo essi stessi capaci d’ingannare erano meno diffidenti. Costoro erano chiamati furfanti; ma coloro i cui traffici erano piú rispettati anche se in sostanza poco differenti dai primi ricevevano un nome piú onorevole. Gli artigiani di qualsiasi professione tutti coloro che esercitavano qualche impiego o che ricoprivano qualche carica avevano tutti qualche sorta di furfanteria che era loro propria. Erano le sottigliezze dell’arte e l’abilità di mano.
Come se le api non avessero potuto senza istruire un processo distinguere il legittimo dall’illegittimo esse avevano dei giureconsulti occupati a mantenere le animosità e a suscitare malefici cavilli: questo era lo scopo della loro arte. Le leggi fornivano loro i mezzi per rovinare i loro clienti e per approfittare destramente dei beni in questione. Preoccupati soltanto di ricavare degli elevati onorari non trascuravano nulla al fine d’impedire che si appianassero le difficoltà attraverso un accomodamento. Per difendere una cattiva causa essi analizzavano le leggi con la stessa meticolosità con cui i ladri esaminano i palazzi e i negozi. Ciò soltanto allo scopo di scoprire il punto debole in cui potessero prevalere.
I medici preferivano la reputazione alla scienza e le ricchezze alla guarigione dei loro malati. La maggior parte anziché applicarsi allo studio dei princípi della loro disciplina cercavano di acquistarsi una pratica fittizia. Sguardi gravi e un’aria pensosa erano tutto quello ch’essi possedevano per darsi la reputazione di uomini dotti. Non preoccupandosi della salute dei pazienti essi lavoravano soltanto per acquistarsi il favore dei farmacisti e per conquistarsi le lodi delle levatrici dei preti e di tutti coloro che vivevano dei proventi tratti dalle nascite o dai funerali. Preoccupati di acquistarsi il favore del sesso loquace essi ascoltavano con compiacenza le vecchie ricette della signora zia. I clienti e tutte le loro famiglie erano trattati con molta attenzione. Un sorriso affettato degli sguardi graziosi tutto era impiegato e serviva ad accattivarsi i loro spiriti già prevenuti. E si badava pure a trattare bene le guardie per non doverne subire le impertinenze.
Tra il grande numero dei preti di Giove pagati per attirare sull’alveare la benedizione del cielo ve n’erano ben pochi che avessero eloquenza e sapere. La maggior parte erano tanto presuntuosi quanto ignoranti. Erano visibili la loro pigrizia la loro incontinenza la loro avarizia e la loro vanità malgrado la cura ch’essi si prendevano per nascondere agli occhi del pubblico questi difetti. Essi erano furfanti come dei borsaioli intemperanti come dei marinai. Alcuni invece erano pallidi coperti di vestiti laceri e pregavano misticamente per guadagnarsi il pane. E mentre che questi sacri schiavi morivano di fame i fannulloni per cui essi officiavano si trovavano bene a loro agio. Si vedevano sui loro volti la prosperità la salute e l’abbondanza di cui godevano.
I soldati che erano stati messi in fuga venivano egualmente coperti di onori se avevano la fortuna di sfuggire all’esercito vittorioso anche se tra essi vi fossero dei veri poltroni che non amavano affatto le stragi. Se vi era qualche valente generale che metteva in rotta i nemici si trovava qualche persona che corrotta con dei regali favoriva la loro ritirata. Vi erano pure dei guerrieri che affrontavano il pericolo comparendo sempre nei punti piú esposti. Prima perdevano una gamba quindi un braccio infine quando tutte queste mutilazioni li avevano resi non piú in grado di servire li si congedava vergognosamente a mezza paga; mentre altri che piú prudentemente non andavano mai all’attacco ricavavano la doppia paga per restare tranquillamente tra di loro.
I loro re erano sotto ogni riguardo mal serviti. I loro ministri li ingannavano. Ve n’erano invero parecchi che non tralasciavano nulla per far progredire gl’interessi della corona; ma contemporaneamente essi saccheggiavano impunemente il tesoro che s’industriavano ad arricchire. Essi avevano il felice talento di spendere abbondantemente nonostante che i loro stipendi fossero molto meschini; e per giunta si vantavano di essere molto modesti. Si esagerava forse nel considerare le loro prerogative quando le si denominava le loro “malversazioni”? E anche se ci si lamentava che non si comprendeva il loro gergo essi si servivano del termine di “emolumenti” senza mai voler parlare naturalmente e senza camuffamenti dei loro guadagni. Infatti non vi fu mai un’ape che sia stata effettivamente soddisfatta nel desiderio di apprendere non dico quello che guadagnavano effettivamente questi ministri ma neppure ciò che essi lasciavano scorgere dei loro guadagni. Essi assomigliavano ai nostri giocatori i quali per quanto siano stati fortunati al gioco non diranno tuttavia mai in presenza dei perdenti tutto quello che hanno guadagnato.
Chi potrebbe descrivere dettagliatamente tutte le frodi che si commettevano in questo alveare? Colui che acquistava del letame per ingrassare il suo prato lo trovava falsificato per un quarto con pietre e cemento inutili; e per giunta qualsiasi poveretto non avrebbe avuto la facilità di brontolare di ciò perché a sua volta imbrogliava mescolando al suo burro una metà di sale.
La giustizia stessa per quanto tanto rinomata per la sua fortuna di essere cieca non era per questo meno sensibile al brillante splendore dell’oro. Corrotta dai doni essa aveva sovente fatto pendere la bilancia che teneva nella sua mano sinistra. Imparziale in apparenza quando si trattava d’infliggere delle pene corporali di punire degli omicidi o degli altri gravi crimini essa aveva bens’ spesso condannato al supplizio persone che avevano continuato le loro ribalderie dopo esser state punite con la gogna. Tuttavia si riteneva comunemente che la spada che essa portava non colpiva se non le api che erano povere e senza risorse; e che anche questa dea faceva appendere all’albero maledetto delle persone che oppresse dalla fatale necessità avevano commesso dei crimini che non peritavano affatto un tale trattamento. Con questa ingiusta severità si cercava di mettere al sicuro il potente e il ricco.
Essendo cosí ogni ceto pieno di vizi tuttavia la nazione di per sé godeva di una felice prosperità. era adulata in pace temuta in guerra. Stimata presso gli stranieri essa aveva in mano l’equilibrio di tutti gli altri alveari. Tutti i suoi membri a gara prodigavano le loro vite e i loro beni per la sua conservazione. Tale era lo stato fiorente di questo popolo. I vizi dei privati contribuivano alla felicità pubblica. Da quando la virtú istruita dalle malizie politiche aveva appreso i mille felici raggiri dell’astuzia e da quando si era legata di amicizia col vizio anche i piú scellerati facevano qualcosa per il bene comune.
Le furberie dello stato conservavano la totalità per quanto ogni cittadino se ne lamentasse. L’armonia in un concerto risulta da una combinazione di suoni che sono direttamente opposti. Cosí i membri di quella società seguendo delle strade assolutamente contrarie si aiutavano quasi loro malgrado. La temperanza e la sobrietà degli uni facilitava l’ubriachezza e la ghiottoneria degli altri. L’avarizia questa funesta radice di tutti i mali questo vizio snaturato e diabolico era schiava del nobile difetto della prodigalità. Il lusso fastoso occupava milioni di poveri. La vanità questa passione tanto destata dava occupazione a un numero ancor maggiore. La stessa invidia e l’amor proprio ministri dell’industria facevano fiorire le arti e il commercio. Le stravaganze nel mangiare e nella diversità dei cibi la sontuosità nel vestiario e nel mobilio malgrado il loro ridicolo costituivano la parte migliore del commercio.
Sempre incostante questo popolo cambiava le leggi come le mode. I regolamenti che erano stati saggiamente stabiliti venivano annullati e si sostituivano ad essi degli altri del tutto opposti. Tuttavia con l’alterare anche le loro antiche leggi e col correggerle le api prevenivano degli errori che nessuna accortezza avrebbe potuto prevedere.
In tal modo poiché il vizio produceva l’astuzia e l’astuzia si prodigava nell’industria si vide a poco a poco l’alveare abbondare di tutte le comodità della vita. I piaceri reali le dolcezze della vita la comodità e il riposo erano divenuti dei beni cosí comuni che i poveri stessi vivevano allora piú piacevolmente di quanto non vivessero prima. Non si sarebbe potuto aggiungere nulla al benessere di questa società.
Ma ahimè qual è mai la vanità della felicità dei poveri mortali! Non appena queste api avevano gustato le primizie del benessere tosto mostrarono che è persino al di là del potere degli dèi il rendere perfetto il soggiorno terrestre. Il gruppo mormorante aveva spesso affermato di esser soddisfatto del governo e dei ministri; ma al piú piccolo dissesto cambiò idea. Come se fosse perduto senza scampo maledí le politiche gli eserciti e le flotte. Queste api riunirono le loro lagnanze diffondendo ovunque queste parole: “siano maledette tutte le furberie che regnano presso di noi!”. Tuttavia ciascuna se le permetteva ancora; ma ciascuna aveva la crudeltà di non volerne concedere l’uso agli altri.
Un personaggio che aveva ammassato immense ricchezze ingannando il suo padrone il re e i poveri osò gridare a tutta forza: “il paese non può mancare di perire a causa di tutte le sue ingiustizie!”. E chi pensate che sia stato queste severo predicatore? Era un guantaio che aveva venduto per tutta la sua vita e che vendeva anche allora delle pelli d’agnello per pelli di capretto. Non faceva la minima cosa in questa società che contribuisse al bene pubblico. Tuttavia ogni furfante gridò con impudenza: “buon Dio dateci soltanto la probità!”.
Mercurio (il dio dei ladroni) non poté trattenersi dal ridere nell’ascoltare una preghiera cos’ sfrontata. Gli altri dèi dissero che era stupidità il biasimare ciò che si amava. Ma Giove indignato per queste preghiere giurò infine che questo gruppo strillante sarebbe stato liberato dalla frode di cui essa si lamentava.
Egli disse: “Da questo istante l’onestà s’impadronirà di tutti i loro cuori. Simile all’albero della scienza essa aprirà gli occhi di ciascuno e gli farà percepire quei crimini che non si possono contemplare senza vergogna. Essi si sono riconosciuti colpevoli coi loro discorsi e soprattutto col rossore suscitato sui loro volti dall’enormità dei loro crimini. È cosí che i bambini che vogliono nascondere le loro colpe traditi dal loro colorito immaginano che quando li si guarda si legga sul loro volto malsicuro la cattiva azione che hanno compiuto”.
Ma per Dio quale costernazione! quale improvviso cambiamento! In meno di un’ora il prezzo delle derrate diminuí ovunque. Ciascuno dal primo ministro sino ai contadini si strappò la maschera d’ipocrisia che lo ricopriva. Alcuni che erano ben conosciuti già da prima apparivano degli stranieri quand’ebbero ripreso le loro maniera naturali.
Da questo momento il tribunale fu spopolato. I debitori saldavano di propria iniziativa i loro debiti senza eccettuare neppure quelli che i loro creditori avevano dimenticato. Si condonava generosamente a coloro che non erano in grado di soddisfarli. Se sorgeva qualche difficoltà quelli che avevano torto rimanevano cautamente in silenzio. Non si videro piú processi in cui entrassero la malvagità e la vessazione. Nessuno poteva piú accumulare ricchezze. La virtú e l’onestà regnavano nell’alveare. Che cosa potevano fare allora gli avvocati? Anche coloro che prima della rivoluzione non avevano avuto la fortuna di guadagnare molto disperati abbandonavano la loro scrivania e si ritiravano.
La giustizia che sino ad allora si era occupata di far impiccare alcune persone concedeva la libertà a quelle che teneva prigioniere. Ma dopo che le prigioni furono vuotate diventando inutile la dea che ad esse presiedeva costei si vide costretta a compiere una ritirata con tutta la sua corte e il suo seguito rumoreggiante. Tra esso si videro i fabbri addetti alle serrature ai catenacci alle inferriate alle catene e alle porte munite di sbarre di ferro. Poi si videro i carcerieri i secondini e i loro aiutanti. Venne poi la dea preceduta dal suo fedele ministro scudiero il carnefice grande esecutore delle sue sentenze severe. Essa non era armata della sua spada immaginaria bensí in sua vece portava l’ascia e la corda. La signora giustizia con gli occhi bendati seduta su di una nuvola fu cosí cacciata nell’aria accompagnata dalla sua corte. Attorno al suo seggio e dietro di esso vi erano i sergenti gli uscieri e i domestici di tale specie che si nutrivano delle lagrime degli sfortunati.
L’alveare aveva ancora dei medici cosí come prima della rivoluzione. Ma la medicina quest’arte salutare non era piú affidata se non a uomini abili. Essi erano cosí numerosi e cosí diffusi nell’alveare che nessuno di essi aveva bisogno di una vettura. Le loro vane dispute erano cessate. Il compito di guarire prontamente i pazienti era quello che unicamente le occupava. Pieni di disprezzo per le medicine importate da paesi stranieri essi si limitavano alle semplici medicine prodotte nel loro paese. Convinti che gli dèi non mandavano alcuna malattia alle nazioni senza donar loro nello stesso tempo i veri rimedi si dedicavano a scoprire le proprietà delle piante che crescevano presso di loro.
I ricchi ecclesiastici destati dalla loro vergognosa pigrizia non facevano piú servire le loro chiese da api prese alla giornata; officiavano essi stessi. La probità da cui erano animati li spingeva a offrire preghiere e sacrifici. Tutti coloro che non si sentivano capaci di adempiere questi doveri o che ritenevano che si potesse fare a meno dei loro servizi si dimettevano senza indugio dalle loro cariche. Non vi erano occupazioni sufficienti per tante persone se pur ne restava ancora qualcuna: giacché il loro numero diminuiva intensamente. Erano tutti modestamente sottomessi al pontefice il quale si occupava esclusivamente degli affari religiosi abbandonando agli altri gli affari dello stato. Il reverendo capo divenuto caritatevole non aveva piú la durezza di cuore di cacciare dalla sua porta i poveri affamati. Mai si sentiva dire ch’egli prelevasse qualcosa dal salario del povero. Era invece presso di lui che l’affamato trovava cibo il mercenario il suo pane l’operaio bisognoso la sua tavola e il suo letto.
Il cambiamento non fu meno considerevole fra i primi ministri del re e fra tutti gli ufficiali subalterni. Divenuti economi e temperanti i loro stipendi bastavano loro per vivere. Se un’ape povera era venuta dieci volte per richiedere il giusto pagamento di una piccola somma e qualche funzionario ben pagato l’aveva obbligata o a regalargli uno scudo o a non ricevere mai il suo pagamento prima si era denominata una tale alternativa la “malversazione” del funzionario; ma ora la si chiamava col giusto nome una ribalderia manifesta.
Una sola persona era sufficiente per adempiere le funzioni per le quali si richiedevano tre persone prima del felice cambiamento. Non v’era piú bisogno di affiancare un collega per sorvegliare le azioni di coloro a cui si affidava il mantenimento degli affari. I magistrati non si lasciavano piú corrompere e non cercavano piú di facilitare i ladrocini degli altri. Una sola persona compiva allora mille volte piú lavoro di quanto non ne facessero prima parecchie persone.
Non era piú cosa onorevole il far figura alle spese dei propri creditori. Le livree restavano appese nelle botteghe dei rigattieri. Quelli che brillavano per la magnificenza delle loro carrozze le vendevano a poco prezzo. I nobili si liberavano di tutti i loro superbi cavalli tanto sontuosi e persino delle loro campagne per pagare i loro debiti.
Si evitavano le spese inutili con la stessa cura con cui si evitava la frode. Non si mantenevano piú degli eserciti all’estero. Non curandosi piú della stima degli stranieri e della gloria frivola che si acquista con le armi non si combatteva se non per difendere la propria patria contro coloro che attendevano ai suoi diritti e alla sua libertà.
Gettate ora lo sguardo sul glorioso alveare. Contemplate l’accordo mirabile che regna tra il commercio e la buona fede. Le oscurità che offuscavano questo spettacolo sono scomparse: tutto si vede allo scoperto. Quanto le cose hanno mutato il loro volto!
Coloro che facevano delle spese eccessive e tutti coloro che vivevano su questo lusso; sono stati costretti a ritirarsi. Invano tenteranno nuove occupazioni: esse non potranno fornir loro il necessario.
Il prezzo dei poderi e degli edifici crollò. I palazzi incantevoli i cui muri simili alle mura di Tebe erano stati elevati con armonia musicale divennero deserti. I potenti che prima avrebbero preferito perdere la loro vita piuttosto che veder cancellare i loro titoli fastosi scolpiti sui loro portici superbi schernivano ora queste vane iscrizioni. L’architettura quest’arte meravigliosa fu del tutto abbandonata. Gli artigiani non trovavano piú nessuno che li volesse impiegare. I pittori non diventavano piú celebri con le loro pitture. La scultura l’incisione il cesello e la statuaria non furono piú rinomate nell’alveare.
Le poche api che vi restarono vivevano miseramente. Non ci si preoccupava piú di come spendere il proprio denaro ma di come guadagnarne per vivere. Quando dovevano pagare il loro conto alla taverna decidevano di non rimetterci piú piede. Non si vedevano piú le donne da bettola guadagnare tanto da poter indossare abiti drappeggiati d’oro. Torcicollo non donava piú delle grosse somme per avere del borgogna e degli uccelletti. I cortigiani che si compiacevano di regalare a Natale alla loro amante degli smeraldi spendendo in due ore tanto quanto una compagnia di cavalleria avrebbe speso in due giorni fecero bagaglio e si ritirarono da un paese cosí miserevole.
La superba Cloe le cui grandi pretese avevano un tempo costretto il suo marito troppo condiscendente a saccheggiare lo stato ora vende il suo abbigliamento composto dei piú ricchi bottini delle Indie. Ora sopprime le sue spese e porta tutto l’anno lo stesso abito. L’età spensierata e mutevole è passata. Le mode non si susseguono piú con quella bizzarra incoscienza. Dal canto loro tutti gli operai che lavoravano le ricche stoffe di seta e d’argento e tutti gli artigiani che dipendevano da loro si ritirarono. Una pace profonda domina in questo regno; e ha come sua conseguenza l’abbondanza. Tutte le fabbriche che restano producono soltanto le stoffe piú semplici; tuttavia esse sono tutte molto care. La natura prodiga non essendo piú costretta dall’infaticabile giardiniere produce bensí i suoi frutti nelle sue stagioni; però non produce piú né rarità né frutti precoci.
A misura che diminuivano la vanità e il lusso si videro gli antichi abitanti abbandonare la loro dimora. Non erano piú né i mercanti né le compagnie che facevano decadere le manifatture erano la semplicità e la moderazione di tutte le api. Tutti i mestieri e tutte le arti erano abbandonati. La facile contentatura questa peste dell’industria fa loro ammirare la loro grossolana abbondanza. Essi non ricercarono piú la novità non hanno piú alcuna ambizione.
E cosí essendo l’alveare pressoché deserto le api non si potevano difendere contro gli attacchi dei loro nemici cento volte piú numerosi. Esse difendevano tuttavia con tutto il valore possibile finché qualcuna di loro avesse trovato un rifugio ben fortificato.
Non v’era alcun traditore presso di loro. Tutte combattevano validamente per la causa comune. Il loro coraggio e la loro integrità furono infine coronate dalla vittoria.
Ma questo trionfo costò loro tuttavia molto. Parecchie migliaia di queste valorose api perirono. Il resto dello sciame che si era indurito nella fatica e nel lavoro credette che l’agio e il riposo che mettono a sí dura prova la temperanza fossero un vizio. Volendo dunque garantirsi una volta per sempre da ogni ricaduta tutte queste api si rifugiarono nel cupo cavo di un albero dove a loro non resta altro della loro antica felicità che la contentatura dell’onestà.

MORALE
Abbandonate dunque le vostre lamentele o mortali insensati! Invano cercate di accoppiare la grandezza di una nazione con la probità. Non vi sono che dei folli che possono illudersi di gioire dei piaceri e delle comodità della terra di esser famosi in guerra di vivere bene a loro agio e nello stesso tempo di essere virtuosi. Abbandonate queste vane chimere! Occorre che esistano la frode il lusso e la vanità se noi vogliamo fruirne i frutti. La fame è senza dubbio un terribile inconveniente. Ma come si potrebbe senza di essa fare la digestione da cui dipendono la nostra nutrizione e la nostra crescita? Non dobbiamo forse il vino questo liquore eccellente a una pianta il cui legno è magro brutto e tortuoso? Finché i suoi pampini sono lasciati abbandonati sulla pianta si soffocano l’uno con l’altro e diventano dei tralci inutili. Ma se invece i suoi rami sono tagliati tosto essi divenuti fecondi fanno parte dei frutti piú eccellenti.
È cosí che si scopre vantaggioso il vizio quando la giustizia lo epura eliminandone l’eccesso e la feccia. Anzi il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa. Per far rivivere la felice età dell’oro bisogna assolutamente oltre all’onestà riprendere la ghianda che serviva di nutrimento ai nostri progenitori.

Considerazioni libere (47): a proposito di "progetti"...

Sul "Corriere della sera" ho letto una di quelle piccole notizie, che non fanno notizia, su cui mi sembra utile fare una breve riflessione.
Il Laboratorio "Revelli" ha presentato alcuni dati sul monitoraggio delle retribuzioni in Italia, facendo una ricerca sui dati Inps. Il Laboratorio "Revelli" è un centro studi, fondato nel 1999 dall'Università di Torino e dalla Compagnia San Paolo - quindi penso non possa essere accusato di simpatie sinistrorse o sinistroidi - che si occupa essenzialmente di ricerche sul mercato del lavoro in Italia e in Europa. Il dato più interessante è questo: nel periodo 1998-2004, a parità di mansioni e di orario, un lavoratore a tempo indeterminato ha guadagnato il 20% in più rispetto a un collega con un contratto a tempo determinato e il 40% in più rispetto a chi ha un contratto a "progetto".
Nella sua sinteticità questo dato rappresenta bene quello che vivono sulla propria pelle ogni giorno migliaia e migliaia di giovani - e non solo giovani - italiani. I contratti a "progetto", ben lungi dall'essere un modo per assicurare alle imprese il ricorso a manodopera specializzata, sono diventati, nella migliore delle ipotesi, l'occasione per le imprese di ridurre il costo del lavoro. Oltre al fatto che i lavoratori a "progetto" sono in genere più "ricattabili", perché sempre soggetti al rinnovo del contratto. Quello che manca è proprio la progettualità e l'innovazione, cose su cui le imprese italiane, in genere, hanno pochi mezzi su cui competere.

giovedì 17 dicembre 2009

da "La Prospettiva Nevskij" di Nikolaj Vasilevic Gogol'

A Pietroburgo, non c'è niente di meglio della Prospettiva Nevskij. Essa è tutto. Di cosa non brilla questa strada, meraviglia della nostra capitale! So con certezza che non uno dei pallidi abitanti cambierebbe la Prospettiva Nevskij con tutti i beni della terra.
Non solamente chi è giovane, magnifici baffi e un soprabito dal taglio perfetto, ma anche chi si vede già spuntare sul mento i peli bianchi e ha la testa liscia come un piatto d'argento, va in estasi davanti alla Prospettiva Nevskij. E le signore! Per le signore la Prospettiva Nevskij è qualcosa di ancora più piacevole.
E per chi del resto non è piacevole? Non appena la imbocchi, non senti altro che odore di passeggio. Anche se hai un affare importante e improrogabile da sbrigare, ecco che, dopo averci messo piede, te ne dimentichi subito. Questo è l'unico luogo dove la gente non si fa vedere perché spinta dal bisogno e dall'interesse che coinvolgono l'intera Pietroburgo. Sembra che le persone incontrate sulla Prospettiva Nevskij siano meno egoiste che non sulla Morskàja, sulla Gorochòvaja, sulla Litèjnaja, sulla Mescànskaja e nelle altre vie, dove l'avidità, il profitto e il bisogno si manifestano sia in quelli che camminano, sia in quelli che volano in carrozze e calessini.
La Prospettiva Nevskij è il punto universale di confluenza di Pietroburgo. Qui l'abitante del rione Peterbùrgskij o del rione Vybòrgskoj, che per vari anni non è andato a trovare il suo amico a Peski o alla Barriera di Mosca, può star certo che lo incontrerà senza possibilità d'errore.
Nessun bollettino e nessun ufficio informazioni procureranno mai notizie così sicure come la Prospettiva Nevskij. Onnipotente Prospettiva Nevskij! Come sono spazzati con cura i tuoi marciapiedi e, Dio mio, quanti piedi vi hanno lasciato le loro orme! Il rozzo sudicio stivale del soldato in congedo, sotto il cui peso sembra doversi incrinare persino il granito; la minuscola scarpetta, leggera come il fumo, della giovane donna che, come il girasole all'astro, volge il viso verso le vetrine scintillanti di un negozio; la sciabola tintinnante dell'alfiere pieno di speranze che vi lascia un graffio! Sulla Prospettiva Nevskij tutto contribuisce a fondere il potere della forza e il potere della debolezza.
Quale veloce fantasmagoria si svolge nel corso di una giornata! Quanti mutamenti in sole ventiquattro ore!

Cominceremo dal primissimo mattino, quando tutta Pietroburgo odora di panini ancora caldi, appena sfornati, ed è invasa da vecchie in abiti e pellicciotti laceri che compiono le loro incursioni nelle chiese e contro i passanti pietosi. La Prospettiva Nevskij è vuota: i solidi proprietari dei negozi e i loro commessi dormono ancora nelle loro camicie di tela d'Olanda oppure insaponano le nobili guance e bevono il caffè; i mendicanti si radunano davanti alle porte delle pasticcerie, dove un garzone sonnolento, che il giorno prima svolazzava come una mosca servendo la cioccolata, adesso esce furtivo, senza cravatta, con una scopa in mano, e butta loro dei pasticcini raffermi e altri avanzi di cibo. La povera gente si trascina per le vie; a volte passano dei contadini russi che s'affrettano al lavoro con stivali così inzaccherati di fango che nemmeno il canale Ekaterìnskij, pur celebre per la sua pulizia, riuscirebbe a lavare. A quest'ora di solito non sta bene che le signore escano di casa, perché il popolo russo ama esprimersi con termini così violenti che non si odono nemmeno a teatro. Ogni tanto, se la Prospettiva Nevskij si trova sul suo tragitto alla volta del suo ufficio ministeriale, si vedrà passare un funzionario sonnacchioso con la borsa sotto il braccio. Si può dire senz'altro che a quest'ora, e sino alle dodici, la Prospettiva Nevskij per nessuno rappresenta un fine, ma serve soltanto come mezzo.
A poco a poco essa si riempie di persone che hanno occupazioni, preoccupazioni, fastidi, ma non pensano per nulla alla strada. Il contadino russo parla di grivnje, ovvero di monete di rame da sette centesimi; vecchi e vecchie agitano le braccia o parlano da soli, talvolta con gesti bizzarri, ma nessuno li ascolta e neppure ride, esclusi forse i ragazzini in camiciotti variopinti che corrono come fulmini per la Prospettiva Nevskij con bottiglie vuote o stivali da consegnare. A quest'ora, qualunque cosa vi mettiate indosso, abbiate pure in testa un berretto al posto d'un cappello, o sporga troppo il colletto rispetto alla cravatta, nessuno lo noterebbe. Alle dodici arrivano gli istitutori di tutte le nazionalità con i loro pupilli dai colletti di batista. Gli inglesi Jones e i Coques francesi vanno a braccetto con i discepoli affidati alla loro tutela e, con rispettabile gravità, spiegano che le insegne sopra ai negozi sono fatte allo scopo di sapere che cosa si trova nei negozi stessi. Le governanti, pallide miss o rosee slave, camminano maestose dietro le loro sottili e irrequiete fanciulle alle quali ordinano di tirare giù una spalla o di tenersi più dritte. Insomma, a quest'ora la Prospettiva Nevskij è una Prospettiva pedagogica, ma, quanto più ci si avvicina alle due, tanto più diminuisce il numero degli istitutori, dei pedagoghi e dei bambini, finché ad essi subentrano i loro cari genitori che camminano sottobraccio alle loro variopinte ed isteriche consorti.
A poco a poco si uniscono alla compagnia tutti quelli che hanno terminato importanti occupazioni domestiche, e cioè hanno chiacchierato con il dottore a proposito del tempo e di un piccolo foruncolo comparso sul naso, si sono informati della salute dei cavalli e dei figli che peraltro rivelano grandi doti, hanno letto un affisso e un importante articolo sul giornale a proposito di chi arriva o di chi parte, e, infine, hanno bevuto una tazza di caffè o di tè; ad essi si aggiungono anche quelli a cui una sorte invidiabile ha dato il titolo di funzionario con incarichi speciali. Arrivano poi coloro che prestano servizio al Ministero degli Esteri e si distinguono per la nobiltà delle loro occupazioni e abitudini. Dio, quali magnifici impieghi e incarichi esistono! Come elevano e deliziano l'anima! Ma, ahimè! io non presto servizio al ministero degli Esteri e sono quindi privato del piacere di vedere il fine tratto dei superiori nei miei confronti. Tutto ciò che s'incontra sulla Prospettiva Nevskij, è pervaso di distinzione: uomini dai lunghi soprabiti con le mani sprofondate nelle tasche; signore in redingotes di raso, rosse, bianche e celeste chiaro, con cappellini. Incontrerete basettoni davvero unici, fatti scendere sotto la cravatta, con arte stupefacente e straordinaria; basettoni di velluto, di raso, neri come lo zibellino o il carbone. Però, ahimè! appartenenti soltanto al Ministero degli Esteri. Agli impiegati degli altri ministeri la provvidenza ha negato i basettoni neri; con sommo disappunto essi debbono portarli fulvi. Incontrerete baffi meravigliosi, che nessuna penna, nessun pennello sanno raffigurare; baffi ai quali è stata dedicata la metà migliore della vita: oggetto di lunghe cure durante il giorno e durante la notte, baffi sui quali sono stati versati profumi e aromi tra i più sorprendenti e che tutte le più preziose e rare qualità di unguenti hanno impomatato; baffi che durante la notte vengono avvolti in fine carta velina, baffi a cui sono rivolte le più commoventi attenzioni dei loro possessori, e che i passanti invidiano. Ognuno sulla Prospettiva Nevskij è poi abbagliato dalle mille varietà di cappellini, di abiti, di fazzoletti variopinti e leggeri, ai quali le rispettive proprietarie restano a volte affezionate anche per due giorni. Sembra che un intero mare di farfalle si sia sollevato improvvisamente dai fiori e si libri come una nuvola scintillante sopra gli scarafaggi neri che sono gli uomini. Incontrerete vitini come non avete mai sognato: vitini esili, sottili, non più grossi d'un collo di bottiglia, vedendo i quali vi fate rispettosamente da parte perché non si dia il caso di urtarli inavvertitamente con un gomito scortese. Il vostro cuore è preso dalla timidezza e dal timore che magari anche soltanto un vostro incauto respiro possa infrangere queste incantevoli creazioni della natura e dell'arte.
E quali maniche femminili incontrate sulla Prospettiva Nevskij! Ah, che incanto! Esse assomigliano un poco a due aerostati, tanto che la dama potrebbe d'improvviso sollevarsi in aria, se non la tenesse il suo cavaliere; poiché sollevare in aria la dama è facile e piacevole come portare alle labbra una coppa di champagne. In nessun luogo come sulla Prospettiva Nevskij, incontrandosi, ci si saluta in modo così nobile e disinvolto. Qui troverete un sorriso unico, un sorriso all'apice dell'arte, che può farvi liquefare dal piacere, oppure, al contrario, farvi sentire a un tratto più in basso dell'erba, costringendovi a chinare il capo; oppure, ancora, trasportarvi più in alto della guglia dell'Ammiragliato e farvi sollevare la testa. Incontrerete gente che discute di un concerto o del tempo con termini eccezionalmente nobili e senso della propria dignità. Qui incontrerete migliaia di caratteri e di fenomeni incomprensibili.
Creatore! In quali strani caratteri ci s'imbatte sulla Prospettiva Nevskij! C'è una quantità di gente che, incontrandovi, immancabilmente vi guarderà le scarpe e, quando voi passate oltre, si volterà indietro per guardare le vostre falde. Ancora oggi non riesco a capire perché questo accada. In un primo tempo pensavo si
trattasse di calzolai, eppure non è così; per la maggior parte sono persone che prestano servizio in ministeri, molte di loro possono scrivere in modo stupendo un rapporto da un ufficio statale a un altro; oppure sono persone che come occupazione vanno a passeggio, leggono i giornali nelle pasticcerie, insomma per la maggior parte persone proprio a modo.
Nell'ora benedetta, dalle due alle tre del pomeriggio, quando la Prospettiva Nevskij può definirsi una capitale che deambula, ha luogo la principale esposizione delle migliori opere dell'uomo. Uno mostra un elegante soprabito del miglior castoro; l'altro un magnifico naso greco; un terzo porta splendidi basettoni; una quarta ha un paio di occhi assassini e un mirabile cappellino; un quinto, un anello col talismano sull'elegante mignolo; una sesta, un'incantevole scarpetta; un settimo, una cravatta che eccita lo stupore; un ottavo, dei baffi che suscitano la tua grande ammirazione.
Suonano le tre, l'esposizione finisce, la folla si dirada... e sulla Prospettiva Nevskij d'improvviso sorge la primavera: la strada si ricopre di funzionari in uniformi verdi. Affamati consiglieri titolari, consiglieri di corte e d'ogni altro genere si sforzano con tutte le loro energie di accelerare il passo. I giovani registratori di collegio, i segretari provinciali e di collegio si affrettano ad approfittare del tempo che resta e a passeggiare per la Prospettiva Nevskij con sussiego, dando a vedere che non sono stati affatto sei ore in ufficio. I vecchi segretari di collegio, i consiglieri titolari e di corte camminano svelti: essi hanno altro da fare che dedicarsi alla contemplazione dei passanti, ancora non si sono pienamente distaccati dalle loro preoccupazioni; nelle loro teste c'è un guazzabuglio, c'è un intero archivio di pratiche cominciate e non finite; invece di un'insegna, per molto tempo, essi vedono ancora quella cartella piena di incartamenti o la faccia grassoccia del capufficio.
Dopo le quattro la Prospettiva Nevskij è vuota e difficilmente vi troverete anche un solo impiegato. Magari la sartina di un negozio attraversa la Prospettiva con uno scatolone fra le mani, qualche misero relitto di capufficio umanitario che va in giro per il mondo in cappotto di frisia, qualche stravagante di passaggio per il quale tutte le ore sono uguali, qualche allampanata inglese con la reticella in testa e un libro in mano, qualche artigiano, uomo russo in soprabito di mezzo cotone stretto dietro e la barbetta a punta, che vive una vita di stenti; mentre passa cerimoniosamente sul marciapiede tutto in lui è movimento: la schiena, le braccia, le gambe, la testa. Talvolta troverete anche un lavoratore di fatica, ma, a quell'ora, sulla Prospettiva Nevskij non incontrerete nessun altro.
Non appena cade il crepuscolo sulle case e sulle strade, e la guardia, riparandosi sotto una stuoia, s'arrampica sulla scala ad accendere il lampione, e dalle basse vetrinette dei negozi occhieggiano quelle stampe che non osano mostrarsi alla luce del giorno, allora la Prospettiva Nevskij di nuovo si rianima e si mette in movimento. Ecco che arriva quel momento misterioso in cui le lampade danno ad ogni cosa una certa luce seducente, misteriosa. Incontrerete moltissimi giovani, per la maggior parte scapoli, in soprabiti pesanti e cappotti. A quest'ora si avverte un certo scopo nel passeggio o, meglio, qualcosa di simile a uno scopo. C'è un'aria straordinariamente spensierata, i passi di tutti accelerano e in genere si fanno assai irregolari. Lunghe ombre balenano sui muri e sul selciato e per poco non raggiungono con le loro teste il Ponte della Polizia. I giovani registratori di collegio, i segretari di provincia e di collegio, i consiglieri titolari e di corte stanno per lo più a casa, sia perché questa gente è ammogliata, sia perché le cuoche tedesche che vivono nelle loro case cucinano molto bene. Incontrerete invece rispettabili vecchi che per due ore passeggiano lungo la Prospettiva Nevskij con un'aria di grande importanza e di straordinaria nobiltà. Li vedrete sbirciare sotto il cappellino di una signora adocchiata da lontano, le cui grosse labbra e le guance impiastricciate di belletti tanto piacciono a molti uomini che vanno a passeggio, e più di tutto ai commessi di negozio, agli artigiani, ai mercanti che a passeggio ci vanno sempre in gruppo e solitamente a braccetto, indossando soprabiti di taglio tedesco.