lunedì 28 febbraio 2011

Considerazioni libere (211): a proposito di cose che fanno arrabbiare...

In un brevissimo commento su Facebook ho già fatto notare - e per fortuna non sono stato il solo - la bizzarria di un capo di governo (purtroppo il nostro, ça va sans dire) che denigra la scuola pubblica del suo paese, applaudito dal suo ministro dell'istruzione. Una cosa del genere non potrebbe avvenire in nessuna altra parte del mondo. Se chiedeste a Barack Obama com'è la scuola pubblica statunitense, egli certamente comincerebbe a citare risultati positivi e a fornire statistiche per sostenerne la validità. Anche se faceste la stessa domanda a Gheddafi - se avesse tempo per rispondervi - vi spiegherebbe che le scuole della Jamahiriya sono le migliori del mondo. Direbbero tutti la stessa cosa, anche quelli consapevoli di mentire.
Spero almeno che l'ennesima cretinata detta da B. ci spinga un po' a riflettere sulla scuola italiana. Ammetto che sul tema sono manicheo: per me la scuola è pubblica o non è. Non ci sono vie di mezzo. Naturalmente le famiglie hanno tutto il diritto di scegliere per i loro figli una scuola privata, ma questa scelta non deve assolutamente ricadere sulla collettività. Se vogliono una scuola privata devono pagarsela, fino all'ultimo centesimo. So che questo in Italia è un'utopia - e anche una bestemmia - perché in questo paese scuola privata è sinonimo di scuola cattolica e non si possono togliere alle gerarchie quelle risorse che si sono faticosamente conquistate. Devo ammettere che sono stati davvero bravi, perché sono riusciti, contro il dettato costituzionale, a far entrare nel sentire diffuso l'idea che le famiglie hanno il diritto di scegliere per i propri figli la scuola che sentono più affine ai loro valori. Non è vero: le famiglie hanno il diritto costituzionale di avere una scuola pubblica che funzioni, se poi non si avvalgono di questo diritto è una scelta loro, con tutte le conseguenze, anche economiche del caso.
Detto questo, il problema non è la differenza tra scuola pubblica e scuola privata - quest'ultima peraltro è per larghissima parte di qualità inferiore, dal momento che in genere lì gli insegnanti scartati dalle scuole pubbliche insegnano a ragazzi che non riescono nella scuola pubblica - francamente quale sia il livello qualitativo della scuola privata è una cosa che deve interessare le istituzioni e la società. Il problema vero è la frattura nella scuola pubblica tra nord e sud dell'Italia. In alcune regioni del Mezzogiorno, secondo i dati Pisa (acronimo per Programme for International Student Assessment) forniti dall'Invalsi, l'istituto di valutazione della scuola italiana, quasi il 25% dei quindicenni non sono in grado di svolgere semplici calcoli aritmetici o di calcolare il cambio tra due valute, il 15% non è in grado di interpretare ed elaborare le informazioni di un semplice testo. In Italia il tasso di abbandono scolastico è arrivato al 19,2%, anche qui con enormi differenze tra nord e sud. Secondo i dati della Fondazione Agnelli presentati l'anno scorso uno studente del nord ha 68 punti Pisa in più rispetto a un suo collega del sud, come se quest'ultimo fosse indietro di un anno e mezzo.
Questo, caro presidente, va indignare, ancora di più delle sue parole del vento o della sua vergognosa condotta morale.

sabato 26 febbraio 2011

Considerazioni libere (210): a proposito di principi e di Costituzione...

Alcuni giorni fa ho acquistato l'edizione italiana di "Indignatevi!", il fortunato pamphlet scritto da Stéphane Hessel. Visto che il testo, per altro molto breve - poco più di venti pagine - era già stato ampiamente riassunto e commentato dalla stampa europea e italiana, ho comprato il libro non tanto perché fossi curioso di leggerlo, ma come un gesto di testimonianza. Mi piacerebbe che anche in Italia questo libretto diventasse un caso editoriale, come è accaduto in Francia, e ho dato il mio modesto contributo. La vita di Hessel è già da sola un manifesto politico del Novecento e la sua invettiva ha una forza incredibile, proprio perché viene da un uomo che ha vissuto, da protagonista, la storia europea dalla seconda guerra mondiale a oggi. Hessel mantiene una sua dignità perfino quando indossa, come è avvenuto di recente in un comizio improvvisato davanti a migliaia di studenti universitari parigini, un cappello frigio, che adesso associamo più ai puffi che ai rivoluzionari dell'89.
Hessel chiede ai giovani di indignarsi di fronte ai mali del mondo e questo è sacrosanto: in fondo, come ho già scritto diverse volte, quello che sta succedendo nell'Africa settentrionale è proprio il frutto dell'indignazione, ormai non più repressa e non più contenibile, dei giovani di quei paesi. Dato che l'indignazione da sola non è sufficiente, Hessel prova a indicare una via per indirizzare questa sacrosanta voglia di ribellione e cita la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, di cui è stato peraltro uno degli estensori manuali. Inizialmente questa proposta mi è parsa un po' debole. Ho pensato che la Dichiarazione non può essere considerata un "testo di sinistra", tout court, perché è una summa di principi che deve essere accettata da tutti, indipendentemente dalle idee politiche di ciascuno.
Poi ho pensato a quello che sta succedendo in Tunisia, in Egitto, in Libia e mi sono reso conto che Hessel ha perfettamente ragione. I principi enunciati nella Dichiarazione di Parigi sono ogni giorno messi in discussione e serve quindi tutto il nostro impegno non solo per difendere i diritti già acquisiti, ma soprattutto per rendere effettivi quei diritti che ora sono tali solo sulla carta.
Qualcosa del genere succede anche in Italia, a proposito della nostra Costituzione. Difendere la Costituzione non può essere considerato l'esercizio retorico di qualche vecchio intellettuale, ma è una necessità viva di ciascuno di noi, soprattutto di chi si ostina a lottare perché si affermino i principi del progresso. Confesso - per inciso - che a me la parola "progressisti" è sempre piaciuta, poi abbiamo smesso di usarla perché è stata utilizzata in una campagna elettorale sfortunata, ma continuo a trovarla piena di significato.
Provo a fare un esempio dell'attualità della Costituzione e di quanto sia necessario difenderla. In questi giorni il mondo politico e dell'informazione parla, come al solito, di altro e sembra che si occupi soltanto dei passaggi da un gruppo parlamentare all'altro di personaggi di quarta e quinta fila, eppure sotto tutto questo fumo tossico e diversivo, sta anche cuocendo l'arrosto. Infatti è in discussione alla Camera la cosiddetta legge sul fine vita, che snatura profondamente un principio costituzionale, contenuto in quella Parte prima che tanti si affannano a dichiarare intangibile. La Costituzione si cambia non solo con gli emendamenti, ma anche svuotandone i principi. Il secondo comma dell'art. 32 della Costituzione infatti dice:
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

La Costituzione in sostanza difende il diritto di ciascuno di noi di scegliere come curarsi e anche se curarsi. La legge attualmente in discussione in pratica decide che tale diritto si perde quando la persona non è in grado di intendere e di volere e soprattutto quando è in imminente pericolo di vita. Per riassumere: quando sono sano ho un diritto, che perdo quando mi ammalo, che paradossalmente è proprio il momento in cui mi servirebbe di più. La legge in discussione ammette che un cittadino, quando è ancora in grado di intendere, possa esprimere, in maniera ufficiale, la propria volontà su come essere curato - o non essere curato - nel momento estremo e possa anche decidere di nominare una persona di sua fiducia per prendere questa decisione, comunque difficile. Ma la stessa legge dice poi che tale dichiarazione di volontà esprime soltanto un orientamento, di cui il medico può anche non tenere conto, e che anche la decisione della persona nominata come "tutore" ha un valore inferiore rispetto a quella del medico. Così, anche se io ho espresso, in maniera ufficiale, la volontà di non essere alimentato forzatamente, nel momento in cui questo fosse il mio unico legame con la vita biologica, e anche se mia moglie, con cui ho condiviso gran parte della mia vita, che mi conosce, con cui ho affrontato un tema così intimo e personale - con tutte le implicazioni di carattere etico e religioso che comporta - decide che questa è la scelta più opportuna da fare, perché io l'ho nominata mio "tutore", nel caso in cui io perda la coscienza e sia in pericolo di vita, un medico che non mi conosce può prendere una decisione completamente opposta, perché la legge, questa legge, gli ha assegnato un tale potere. In parlamento esiste una maggioranza ampia che sostiene questa legge: tutto il centrodestra, i partiti del cosiddetto "terzo polo" e anche parte del centrosinistra. Nel paese ci sono forze consevatrici che sostengono questa legge, prima di tutto le gerarchie ecclasiastiche che, hanno chiuso entrambi gli occhi di fronte ai peccati del presidente del consiglio, pur di portare a casa questa legge, che segna un oggettivo passo indietro rispetto alle libertà individuali. Questa legge passerà non solo per la forza dello schieramento che la sostiene, ma anche per la debolezza e il timore di quello che teoricamente la dovrebbe avversare. Personalmente considero questa legge un tradimento dei principi costituzionali e spero che la magistratura possa intervenire, in attesa che cresca una coscienza popolare sul tema.
Del tentativo di modificare l'art. 41 della Costituzione ho già parlato - nella "considerazione" nr. 122, per la precisione - e non voglio tornare sul tema.
Al punto in cui siamo arrivati, con gli attacchi violenti che il fronte conservatore e di destra sta portando ai nostri diritti, lo schieramento di centrosinistra dovrebbe attenersi ai principi della Costituzione. Il programma è già scritto, non serve un libro lunghissimo, come quello di 400 pagine scritto dai partiti dell'Unione nel 2006, o una carrellata di immagini e suggestioni, come quella proposta da Veltroni nel 2008; basta che prendiamo la nostra Costituzione e con quello facciamo la campagna elettorale. Magari rischiamo di vincere.

venerdì 25 febbraio 2011

"Profezia" di Pier Paolo Pasolini


A Jean Paul Sartre, che mi ha raccontato la storia di Alì dagli Occhi Azzurri.

Era nel mondo un figlio
e un giorno andò in Calabria:
era estate, ed erano
vuote le casupole,
nuove, a pan di zucchero,
da fiabe di fate color
delle feci. Vuote.
Come porcili senza porci, nel centro di orti senza insalata, di campi
senza terra, di greti senza acqua. Coltivate dalla luna, le campagne.
Le spighe cresciute per bocche di scheletri. Il vento dallo Jonio
scuoteva paglia nera
come nei sogni profetici:
e la luna color delle feci
coltivava terreni
che mai l’estate amò.
Ed era nei tempi del figlio
che questo amore poteva
cominciare, e non cominciò.
Il figlio aveva degli occhi
di paglia bruciata, occhi
senza paura, e vide tutto
ciò che era male: nulla
sapeva dell’agricoltura,
delle riforme, della lotta
sindacale, degli Enti Benefattori,
lui. Ma aveva quegli occhi.
La tragica luna del pieno
sole, era là, a coltivare
quei cinquemila, quei ventimila
ettari sparsi di case di fate
del tempo della televisione,
porcili a pandizucchero, per
dignità imitata dal mondo padrone.
Ma si può vivere là! Ah, per quanto ancora, l’operaio di Milano lotterà
con tanta grandezza per il suo salario? Gli occhi bruciati del figlio, nella
luna, tra gli ettari tragici, vedono ciò che non sa il lontano fratello
settentrionale. Era il tempo
quando una nuova cristianità
riduceva a penombra il mondo
del capitale: una storia finiva
in un crepuscolo in cui accadevano
i fatti, nel finire e nel nascere,
noti ed ignoti. Ma il figlio
tremava d’ira nel giorno
della sua storia: nel tempo
quando il contadino calabrese
sapeva tutto, dei concimi chimici,
della lotta sindacale, degli scherzi,
degli Enti Benefattori, della
Demagogia dello Stato
e del Partito Comunista..
…e così aveva abbandonato
le sue casupole nuove
come porcili senza porci,
su radure color delle feci,
sotto montagnole rotonde
in vista dello Jonio profetico.
Tre millenni svanirono
non tre secoli, non tre anni e si sentiva dinuovo nell’aria malarica
l’attesa dei coloni greci. Ah, per quanto tempo ancora, operaio di Milano,
lotterai solo per il salario? Non lo vedi come questi qui ti venerano?
Quasi come un padrone.
Ti porterebbero su
dalla loro antica regione,
frutti e animali, i loro
feticci oscuri, a deporli
con l’orgoglio del rito
nelle tue stanzette novecento,
tra frigorifero e televisione,
attratti dalla tua divinità,
Tu, delle Commissioni Interne,
tu della CGIL, Divinità alleata,
nel meraviglioso sole del Nord.
Nella loro Terra di razze
diverse, la luna coltiva
una campagna che tu
gli hai procurata inutilmente.
Nella loro Terra di Bestie
Famigliari, la luna
è maestra d’anime che tu
hai modernizzato inutilmente. Ah, ma il figlio sa: la grazia del sapere
è un vento che cambia corso, nel cielo. Soffia ora forse dall’Africa
e tu ascolta ciò che per grazia il flglio sa. (Se egli non sorride
è perché la speranza per lui
non fu luce ma razionalità.
E la luce del sentimento
dell’Africa, che d’improvviso
spazza le Calabrie, sia un segno
senza significato, valevole
per i tempi futuri!) Ecco:
tu smetterai di lottare
per il salario e armerai
la mano dei Calabresi.
Alì dagli Occhi Azzurri
uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sè i bambini,
e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.
Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camice americane.
Subito i Calabresi diranno,
come malandrini a malandrini:
"Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e formaggio!"
Da Crotone o Palmi saliranno
a Napoli, e da lì a Barcellona,
a Salonicco e a Marsiglia,
nelle Città della Malavita.
Anime e angeli, topi e pidocchi,
col germe della Storia Antica,
voleranno davanti alle willaye.
Essi sempre umili
essi sempre deboli
essi sempre timidi
essi sempre infimi
essi sempre colpevoli
essi sempre sudditi
essi sempre piccoli,
essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare,
essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi
in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,
essi che si costruirono
leggi fuori dalla legge,
essi che si adattarono
a un mondo sotto il mondo
essi che credettero
in un Dio servo di Dio,
essi che cantarono
ai massacri dei re,
essi che ballarono
alle guerre borghesi,
essi che pregarono
alle lotte operaie…
…deponendo l’onestà
delle religioni contadine,
dimenticando l’onore
della malavita,
tradendo il candore
dei popoli barbari,
dietro ai loro Alì
dagli Occhi Azzurri – usciranno da sotto la terra per rapinare –
saliranno dal fondo del mare per uccidere, – scenderanno dall’alto del cielo
per espropriare – e per insegnare ai compagni operai la gioia della vita –
per insegnare ai borghesi
la gioia della libertà –
per insegnare ai cristiani
la gioia della morte
– distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno come zingari
su verso l’Ovest e il Nord
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento…

mercoledì 23 febbraio 2011

Considerazioni libere (209): a proposito di una sorpresa annunciata...

In una certa retorica giornalistica, che in questi anni va decisamente per la maggiore, si tende ad abusare dell'aggettivo "storico" per definire fatti che superano a stento le forche caudine della cronaca: ci sono elezioni storiche, partite storiche, spettacoli storici e così via. Nonostante questa necessaria premessa, credo sia doveroso definire storico quello che sta avvenendo in queste settimane nel Maghreb. La storia nel suo evolversi spesso sorprende chi vive quegli stessi avvenimenti che i posteri ricorderanno come passaggi epocali, fondamentali per la storia dell'umanità. L'ho scritto anche in una "considerazione" recente, sempre dedicata alle rivolte dei paesi della costa meridionale del Mediterraneo: nell'89 rimanemmo sorpresi di fronte al crollo improvviso e velocissimo dei regimi comunisti dell'Europa orientale, anche se ogni analisi seria indicava ormai la crisi sempre più grave di quel modello e di quelle strutture politiche. Anche in noi - mi permetto indegnamente di usare questo pronome per indicare chi militava allora nella sinistra italiana, in particolare nel Pci - che pure da qualche tempo, discutevamo, per usare un eufemismo, sulla fine della "spinta propulsiva", quel passaggio lasciò un senso di incertezza e comunque una sensazione di sorpresa.
Questo antefatto per dire che una certa meraviglia, un momento di impasse, la difficoltà a capire come muoversi sono giustificati anche di fronte alle attuali rivolte nei paesi arabi, ai fatti che si susseguono in maniera tumultuosa. Basta però. Ormai la sorpresa non può più essere usata come una giustificazione per la miopia e l'incapacità di intervento della comunità internazionale. Ormai sono passate alcune settimane: il tempo è scaduto. Ammettiamo pure che i fatti della Tunisia abbiano colto in contropiede i governi occidentali, già è meno giustificabile la sorpresa di fronte ai fatti egiziani, ma dire che si continua a essere sorpresi anche davanti a quello che sta succedendo in Libia significa o essere stupidi o essere in malafede. Immagino che qualche ministro degli esteri - per evitare equivoci parlo sempre di ministri veri, non del lacchè che in Italia utilizza questo titolo - si sorprenderà anche per le prossime rivolte in Algeria.
Quello che sta succedendo in quei paesi poteva essere previsto. Basta guardare alcuni numeri: gli arabi sono circa 350 milioni, più della metà di loro ha meno di 30 anni, il livello di disoccupazione giovanile è in media, nei vari paesi, tra il 30 e il 40%, il reddito pro capite è tra i più bassi del mondo. Chi anima le rivolte di queste settimane, in Tunisia, in Egitto, in Libia, in Algeria, sono giovani che in parte hanno studiato - nonostante gli alti tassi di analfabetismo, hanno comunque un livello di istruzione maggiore di quello dei loro genitori e dei loro nonni - che conosco, o almeno hanno intravisto - attraverso la televisione, la rete, o viaggiando, le ricchezze del mondo occidentale - un'opportunità che i loro padri e i loro nonni non hanno avuto. Sono milioni di giovani che non hanno nessuna prospettiva nei loro paesi, governati da autocrati corrotti, e che si rendono conto che non c'è nessuna prospettiva neppure nell'emigrazione, visto che la crisi ha coinvolto tutto il mondo e che verso di loro nei nostri paesi c'è un forte pregiudizio. Il problema non è l'islam, non è l'odio antioccidentale - componenti pur presenti in quelle folle, ma non determinanti - questa massa enorme di giovani, chiede semplicemente di avere un futuro: è qualcosa che non può essere fermato. E' una forza potente, ancora più esplosiva perché è stata a lungo compressa. Forse imprevedibile è stata la scintilla, imprevedibile è stato il primo scoppio, ma le successive esplosioni dovevano essere previste. E per questo è ancora più grave quello che sta succedendo adesso in Libia, con un numero imprecisato di morti lasciati nelle strade dalla reazione rabbiosa di Gheddafi e dei suoi mercenari.
Si poteva prevedere che la reazione di Gheddafi sarebbe stata in linea con tutto quello che ha fatto in questi lunghi anni di regime. Come dice Shakespeare, "c'è del metodo in questa follia". Il dittatore libico ha letteralmente comprato dagli Stati Uniti e dall'Europa una sorta di licenza per comportarsi come un pazzo. Deve essere stato particolarmente divertente per lui vedere sfilare nella sua tenda i politici e gli imprenditori italiani - e non solo. A tutti loro, che si sono presentati in genere con il cappello in mano, ha offerto commesse, finanziamenti, partecipazioni azionarie, il blocco degli immigrati e così via.
Quello che è fatto è fatto: a questo punto non possiamo continuare star qui a calcolare chi ha passato più tempo nella tenda. Gli Stati Uniti e l'Europa devono abbattere Gheddafi, come hanno catturato e ucciso Saddam Hussein. Se vogliono invertire l'ordine - prima ucciderlo poi catturarlo - per evitare che il leader libico riveli qualche imbarazzante segreto - facciano pure. A questo punto bisogna salvare quel popolo da un massacro e anche un po' la nostra dignità.

martedì 22 febbraio 2011

da "Il conflitto delle facoltà" di Immanuel Kant


Questo evento non consiste propriamente in importanti fatti o misfatti compiuti dagli uomini, attraverso i quali quello che tra loro è stato grande diviene più piccolo o ciò che fu piccolo grande e, come per incanto, spariscono magnifiche costruzioni politiche antiche, e, quasi uscissero dal profondo della terra, ne nascono altre al loro posto. No: niente di tutto ciò. Si tratta semplicemente del modo di pensare degli spettatori che, in questo gioco di grandi trasformazioni, si rivela pubblicamente e manifesta una così generale e pure disinteressata partecipazione di coloro che si schierano da una parte contro quelli che stanno dall'altra, pur con il pericolo che questo essere di parte possa diventare per loro molto svantaggioso, ma così si mostra, almeno nella disposizione, un carattere del genere umano nel suo complesso (per via dell'universalità) e insieme un suo carattere morale (per il disinteresse) che non solo fa sperare nel progresso verso il meglio, ma, per quanto è sinora possibile, è già come tale un progresso.
La rivoluzione di un popolo ricco di spirito che abbiamo visto avvenire nel nostro tempo, può avere successo o può fallire; può essere così piena di miseria e di atrocità, che un uomo che pensa rettamente, se potesse sperare di portarla a termine felicemente compiendola una seconda volta, non deciderebbe mai di ritentare l'esperimento a tal prezzo - questa rivoluzione, dico, trova però nell'animo di tutti gli spettatori (i quali non siano personalmente coinvolti in questo gioco) una partecipazione sul piano del desiderio che rasenta nell'entusiasmo, e la cui stessa manifestazione comportava qualche pericolo: una partecipazione che dunque non può avere altra causa che una disposizione morale insita nel genere umano.
Questa causa morale che interviene è duplice: in primo luogo è quella del diritto di un popolo a non essere ostacolato da altre potenze a darsi una costituzione civile che gli sembra buona; in secondo luogo è quella dello scopo (che è al tempo stesso un dovere) per cui è legittima e moralmente buona solo quella costituzione civile che per sua natura è tale da evitare per principio la guerra di aggressione, e che, almeno in teoria, non può essere che la costituzione repubblicana; dunque del fine di entrare nella condizione nella quale la guerra (la fonte di ogni male e corruzione dei costumi) venga fermata, e al genere umano, nonostante tutta la sua fragilità, venga così assicurato il progresso verso il meglio in negativo, perlomeno nel non essere ostacolato nel suo progredire. Questo, dunque, e il prendere parte al bene con un affetto, l'entusiasmo, sebbene esso non sia del tutto da giustificare, poiché ogni affetto merita in sé biasimo, dà l'occasione, tramite questa storia, per fare un'importante osservazione antropologica: un vero entusiasmo si riferisce sempre soltanto a ciò che è ideale, e precisamente puramente morale, come è il concetto del diritto, e non può innestarsi nell'interesse personale. I nemici della rivoluzione, attraverso ricompense, non potevano essere pieni dell'ardore e della grandezza d'animo che il semplice concetto del diritto faceva nascere nei rivoluzionari, e persino il concetto dell'onore dell'antica nobiltà guerriera (analogo all'entusiasmo) scomparve di fronte alle armi di coloro che avevano stampato negli occhi il diritto del popolo di cui facevano parte, e del quale si ritenevano difensori; con tale esaltazione simpatizzava il pubblico esterno, che era spettatore, senza alcuna intenzione di cooperare.

lunedì 21 febbraio 2011

"Echi di lingua madre" di Eva Taylor


Scottate la lingua sulla fiamma viva
levatele la pelle
tagliatela a fettine.
Fate appassire in frasi fatte le parole.
Aggiungete una rosa, petali e spine,
portate a bollore
con un po' di buon rimpianto,
salate, leggete.
Il tempo di cottura non è stabilito
provate a parlare di tanto in tanto.
Se qualcuno vi risponde
o qualcosa vi risuona dentro
staccate dal fondo
spegnete il fuoco.

Servite caldissima.

sabato 19 febbraio 2011

Considerazioni libere (208): a proposito di Sanremo e di lavoro...

"La radio mi pugnala con il festival dei fiori" canta Sergio Caputo e in questi giorni è davvero difficile sfuggire alla kermesse canora: neppure io voglio esimermi e dedico questa mia nuova "considerazione" proprio al festival di Sanremo. Sinceramente non trovo ozioso o inutile riflettere su questo avvenimento. Non si tratta solo di canzonette. E se anche fossero soltanto canzonette, il festival viene visto da quasi la metà delle famiglie italiane, è il programma di punta di una delle più importanti agenzie culturali di questo paese: merita una qualche attenzione. E comunque - lo ripeto - non stiamo parlando solo di canzoni, come spero di riuscire a dimostrare.
Siamo talmente abituati alla mediocrità da rimanere stupiti di fronte alla normalità. Ci ho pensato guardando la terza serata del festival. Svegliandomi estremamente presto al mattino, ho praticamente smesso di guardare la televisione, che già prima delle mie levatacce guardavo di rado. Ma visto che giovedì e venerdì ho potuto alzarmi un po' più tardi del solito - comunque intorno alle 6.30 - e che era ampiamente annunciata la presenza di Roberto Benigni, giovedì sera - naturalmente insieme a Zaira - ho fatto un'eccezione. Benigni mi è piaciuto molto, ma non voglio parlare di lui; l'autore toscano è di un'altra categoria e francamente la "media" del livello culturale e della bellezza dello spettacolo di giovedì, e dell'intero festival, non può essere calcolata basandosi su di lui.
Tornando allo spettacolo per così dire "normale" di giovedì sera, ho trovato alcuni altri aspetti degni di nota: lo stile della conduzione di Gianni Morandi, le interpretazioni di Roberto Vecchioni, di Anna Oxa, di Davide Van De Sfroos, la qualità degli arrangiamenti e la capacità dell'orchestra, l'ironia di Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu; così ho avuto l'impressione - a caldo per così dire - di assistere a uno spettacolo di qualità, sopra la media di quello che comunemente si vede in televisione. Naturalmente ci sono stati anche momenti decisamente sotto la media: alcune interpretazioni canore imbarazzanti, i siparietti difficili da sopportare - d'altra parte tra gli autori figura Federico Moccia con il suo cappellino - l'ingombrante e difficilmente gestibile presenza della futura signora Clooney, lo sfruttamento da lenoni della bellezza di Belen Rodriguez e così via. Ripensandoci a mente fredda, sono arrivato alla conclusione che quella serata del festival non sia stata un'eccellenza televisiva - naturalmente sempre al netto di Benigni - ma semplicemente uno spettacolo a cui hanno lavorato diverse persone che sanno fare il proprio mestiere. E questo nel nostro paese finisce per essere rivoluzionario. Per fare una buona media non sono necessari alcuni geni, ma sono sufficienti molte persone normali.
E siccome non stiamo parlando soltanto di canzonette, mi pare che questo avvenga ogni giorno, in ogni contesto. Quando sono al lavoro, mi capita di sentire dei cittadini che ringraziano i miei colleghi per la professionalità e la gentilezza che hanno trovato nel nostro ufficio, anche se sono venuti soltanto per chiedere un certificato o per rinnovare la carta d'identità. Al netto della capacità dei miei colleghi - che è comunque alta - mi sembra che anche questo dimostri che siamo talmente abituati all'approssimazione quando ci rechiamo a un qualsiasi sportello pubblico da stupirci quando veniamo trattati in maniera normalmente competente, anche per una pratica semplice. E lo stesso avviene - purtroppo è una constatazione comune e difficilmente confutabile - negli ospedali, nelle scuole, in molti ambienti di lavoro, anche privati. Ho già scritto diverse volte delle condizioni al limite dei diritti sindacali e costituzionali in cui sono costretti a lavorare tanti giovani, ad esempio nei call center, e non voglio tornarci sopra. E questo favorisce naturalmente la mancanza di professionalità. Mi pare quasi - ma magari su questo sarebbe necessario un maggior approfondimento - che a fronte di paghe basse e diritti inesistenti quei lavoratori, piuttosto che reagire chiedendo maggiori diritti, si rifugino nel far male il proprio lavoro. E' una sorta di rincorrersi al ribasso del concetto di do ut des: tu mi dai poco, ma io lavoro male. Invece il lavoro dovrebbe essere onorato, sempre, perché è qualcosa di prezioso.
Per tornare alle canzonette e alla televisione, mi sembra davvero che troppe volte il lavoro, sia di chi appare in scena sia di chi sta dietro le quinte, non venga affatto onorato. E probabilmente sta qui il danno più profondo che la televisione italiana sta facendo a questo paese, non tanto nella stucchevole faziosità di certi telegiornali o di alcuni programmi di informazione. Questa televisione ha insegnato a una generazione - e continua a insegnare - che non è tanto importante quello che sai fare e come lo sai fare, ma come sei, cosa indossi, come ti vedono gli altri.

mercoledì 16 febbraio 2011

da "Lettere persiane" di Charles Louis de Secondat barone di Montesquieu

Parigi è grande quanto Ispahan, e le case sono così alte che si direbbero tutte abitate da astrologi. Capirai bene che una città costruita nell'aria, con sei o sette case l'una sull'altra, è popolosissima, e che quando la gente è tutta nelle vie c'è una bella confusione.
[...]
Non credere che per il momento io possa parlarti a fondo delle abitudini e dei costumi europei: non ne ho che una pallida idea, ho avuto appena il tempo d'esserne stupefatto.
Il re di Francia è il principe più potente d'Europa. Non possiede miniere d'oro come il re di Spagna suo vicino, ma ha più ricchezze di lui, perché le ricava dalla vanità dei suoi sudditi, più inesauribile delle miniere. Gli si è visto intraprendere e sostenere grandi guerre senza altri fondi che titoli d'onore da vendere, e per un prodigio dell'orgoglio umano le sue truppe erano pagate, le sue piazzeforti munite, le sue flotte equipaggiate.
D'altronde questo re è un gran mago: esercita il suo impero anche sullo spirito dei suoi sudditi, li fa pensare come vuole. Se nel suo tesoro c'è solo un milione di scudi, e gliene occorrono due, gli basta persuaderli che uno scudo ne vale due, ed essi ci credono. Se deve sostenere una guerra difficile, e non ha denaro, non deve far altro che metter loro in testa che un pezzo di carta è denaro, ed essi ne sono tosto convinti. Arriva a far loro credere che può guarirli di ogni male toccandoli, tanto grande è la forza e il potere che ha sugli spiriti. Quanto ti dico di questo principe non deve stupirti: c'è un altro mago più potente di lui, il quale domina sul suo spirito non meno di quanto egli domini su quello degli altri. Questo mago, che si chiama papa, ora gli fa credere che tre è uguale ad uno, che il pane che mangia non è pane, o che il vino non è vino, e mille altre cose del genere.
E per tenerlo sempre in esercizio e non fargli perdere l'abitudine di credere, di tanto in tanto gli manda qualche articolo di fede. Due anni fa gli inviò un lungo scritto, chiamato Costituzione e minacciando gravi pene volle obbligare questo re e i suoi sudditi a credere in tutto ciò che vi era contenuto. La cosa gli riuscì nei confronti del sovrano, che si sottomise subito dando l'esempio ai suoi sudditi, ma alcuni si rivoltarono e dissero che non volevano credere a nulla di ciò che vi era scritto. Fautrici di questa rivolta, che divide la corte, tutto il regno e le famiglie, sono state le donne. Questa Costituzione vieta loro di leggere un libro che tutti i cristiani dicono venuto dal cielo: è come il loro Corano. Le donne, indignate per l'oltraggio fatto al loro sesso, si sollevarono tutte contro la Costituzione; e tirarono dalla loro parte gli uomini che in questa occasione non vogliono avere nessun privilegio. Bisogna tuttavia riconoscere che questo mufti non ragiona poi male, e, per il grande Alì, si crederebbe che sia stato istruito nei principi della nostra santa legge. Infatti, poiché le donne sono di una creazione inferiore alla nostra, e i nostri profeti dicono che non entreranno in paradiso, perché dovrebbero impicciarsi di leggere un libro che è fatto per insegnare la via del paradiso?
Sul re ho udito raccontare cose prodigiose, che stenterai a credere. Si dice che mentre faceva guerra ai suoi vicini, che si erano uniti in lega contro di lui, era circondato nel suo regno da innumerevoli nemici. Si aggiunge che li ha cercati per più di trenta anni e non ne ha potuto trovare uno solo, malgrado lo zelo infaticabile di certi dervisci che godono della sua fiducia. Quei nemici vivono con lui: sono alla sua corte, nella sua capitale, nel suo esercito, nei suoi tribunali; e tuttavia si dice che avrà il dolore di morire senza averli trovati. Si direbbe che esistono in generale, ma non come individui: è un corpo che non ha membra. Senza dubbio il cielo vuole punire questo principe di aver usato poca moderazione verso i nemici vinti, dal momento che gliene dà di invisibili, e tali che il loro genio e destino sono al di sopra del suo.
Potrei continuare a scriverti, facendoti conoscere cose ben lontane dal carattere e dal genio persiano. Una è la terra su cui viviamo entrambi, ma gli uomini del paese in cui mi trovo e quelli del paese dove sei tu sono assai diversi.
Parigi, il giorno 4 della luna di Rebiab 2, 1712.

Considerazioni libere (207): a proposito di multiculturalismo...

In casi come quello successo pochi giorni fa a Roma le parole di giustificazione e di consolazione possono farci sentire meglio, ma non devono nascondere la verità, per quanto cruda: Sebastian, Elena Patrizia, Eldeban e Raoul non sono i primi bambini rom a morire nel rogo di una capanna fatiscente e non saranno certo gli ultimi. Prima o poi succederà una nuova tragedia, vedremo la stessa disperazione negli occhi dei genitori, sentiremo le stesse parole di chi si rimpalla la responsabilità. Dobbiamo ringraziare il presidente Napolitano che ha saputo esprimere, attraverso l'efficacia di un gesto - quella carezza paterna e riservata - il nostro dolore e il nostro sconforto. Ma non possiamo fermarci a questo.
So bene che il tema dell'accoglienza dei rom è uno di quelli che divide, ma questo non è un motivo per non affrontarlo. Quando si parla di rom, di zingari, solitamente i toni si alzano, le polemiche si fanno trancianti. Si fronteggiano con questa enfasi due minoranze. Da un lato ci sono quelli che posso definire schematicamente i "cattivi": sono quelli che dicono che i rom non lavorano perché non vogliono lavorare e preferiscono rubare, quelli che dicono che è inutile spendere risorse per loro visto che non sono più recuperabili, quelli che dicono che le case andrebbero date agli italiani e così via; abbiamo sentito tutto il repertorio pochi giorni fa. Dall'altra parte ci sono i "buoni": sono quelli che, con la stessa incrollabile sicurezza dei primi, trovano una giustificazione per qualunque cosa facciano i rom, quelli che imputano alla nostra società le loro difficoltà a trovare un lavoro, a inserirsi, quelli che pensano che di fronte all'accoglienza debba essere sacrificato ogni altro principio. Nessuno di questi alla fine aiuta a risolvere il problema. In mezzo a questi due poli opposti c'è la maggioranza delle persone, quelli che guardano ai rom con sospetto e paura, quelli che dicono che il problema è troppo complesso, quelli che dicono che in fondo ci sono problemi ben più gravi. Loro sono la maggioranza - siamo la maggioranza - e quindi inesorabilmente il tema si elude, si tralascia. Il giorno dopo la tragedia il Corriere della sera riportava la notizia in cronaca, nelle pagine interne, dopo la cosiddetta cronaca politica e le notizie dall'Egitto; dopo pochissimi giorni la notizia ha smesso di essere tale e quindi eliminata dal giornale. La polvere è stata rapidamente messa sotto il tappeto.
Dei rom ho già parlato in altre "considerazioni" - la nr. 154 e la nr. 166, per la precisione - provando a spiegare cosa intendo io per politica di accoglienza. Se avete voglia cercate quelle riflessioni, su cui non voglio tornare oggi per concentrarmi su un'altra questione.
La presenza dei rom, oltre che alle questioni legate alle scelte di politica sociale delle diverse amministrazioni, dovrebbe anche farci riflettere sul complesso rapporto che esiste nelle nostre società - per brevità le definisco europee, anche se ci sono profonde differenze le une dalle altre - tra la maggioranza e le diverse minoranze, spesso anche numericamente consistenti, con culture, stili di vita, religioni differenti. Trovo piuttosto curioso che su questo tema, almeno in Europa - non dico in Italia perché qui parliamo sempre e solo di una cosa sola - si stia esercitando più il fronte conservatore che quello progressista: personalmente ritengo che questa sia una causa, non secondaria, delle attuali difficoltà della sinistra europea a parlare con i cittadini. Prima Angela Merkel e poi David Cameron, che guidano paesi in cui l'immigrazione è un fenomeno molto consistente, hanno parlato della fine del multiculturalismo, pochi giorni fa il cardinal Ravasi, "ministro degli esteri" di Benedetto XVI, ha parlato della necessità di sostituire l'approccio multiculturale con quello interculturale.
Voglio riportare alcune riflessioni di Ravasi che mi sembrano particolarmente interessanti.
Bisogna costruire un confronto che non sia scontro, nel quale anche i valori siano comunicati ma senza perdere la propria identità: una sorta di convivenza culturale, molto delicata e complessa.
Il multiculturalismo è un dato di fatto fin dall'antichità, ma oggi è diventato emblematico nelle città, dove si vedono compresenze di identità culturali diversissime, talvolta quasi dei fondamentalismi che stanno uno accanto all'altro: con scintille, scontri.
Il dialogo, come dice questa bella parola greca, presuppone il dia-logos e quindi il rapporto tra due logoi. Il che significa che l'interculturalità non ha come meta l'identificazione, la costruzione di un'unica società globalizzata.
La tentazione multiculturale era quella del duello: il più forte riesce a occupare più spazio. Ciò che dobbiamo creare con l'interculturalità è piuttosto un duetto, che in musica può essere costituito da un basso e da un soprano. Cosa c'è di più diverso di queste due voci? E perché ci sia armonia, è forse necessario che il basso canti in falsetto e il soprano abbassi il tono?
No, l'essenziale è avere una forte coscienza della propria identità, perché non si fa dialogo senza un volto.

Credo che, a partire da quello che avviene nel nostro paese con le difficoltà di una convivenza sempre più difficile per finire con quello che sta succedendo nel mondo, in particolare nelle coste meridionali del Mediterraneo, questa sia una riflessione da sviluppare con attenzione.

martedì 15 febbraio 2011

"Sentinella" di Fredric Brown

Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa.
Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella a cui era abituato, faceva d'ogni movimento una agonia di fatica.
Ma dopo decine di migliaia di anni quest'angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell'aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arrivava al dunque, toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano sbarcato. E adesso era suolo sacro perché c'era arrivato anche il nemico. Il nemico, l'unica altra razza intelligente della Galassia. Crudeli, schifosi, ripugnanti mostri.
Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della Galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata la guerra, subito; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica.
E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo, e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale.
Stava all'erta, il fucile pronto. Lontano cinquantamila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l'avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.
E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s'erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d'un bianco nauseante, e senza squame.

domenica 13 febbraio 2011

"Ti ricostruirò di nuovo, mia patria" di Simin Behbahani


Ti ricostruirò di nuovo, mia patria
Anche con mattone della mia vita
Ti appoggerò sulla colonna
Colonna fatta con le mie ossa
Ancora ti racconterò dei fiori
Per i tuoi giovani
Ancora diventeremo sangue per te
E diluvio con le nostre lacrime
Se sarò morto da cento anni
Mi alzerò in piedi dalla sepoltura
Per combattere i tuoi malevoli
Se sono vecchio oggi
Avendo possibilità di imparare
Comincerò la gioventù
Insieme con i giovani.

mercoledì 9 febbraio 2011

Considerazioni libere (206): a proposito di capitalismo...

Oggi voglio raccontarvi una storia di ordinario capitalismo. Walmart è la multinazionale più grande del mondo; il colosso della grande distribuzione organizzata ha avuto nel 2010 un fatturato di 408 miliardi di dollari e 14 miliardi di utili netti; i suoi dipendenti sono 2 milioni e 100mila e ogni settimana 138 milioni di persone entrano in uno dei suoi centri commerciali per fare almeno un acquisto. La filosofia dell'azienda è racchiusa in uno slogan molto semplice: "Lavoriamo per diminuire i prezzi ogni giorno". Soprattutto in tempi di crisi come questi potrebbe sembrare il modo migliore per aiutare le persone, ma bisogna vedere qualche altro numero per capire se è davvero così.
Lo stipendio medio di un lavoratore di Walmart è di 14mila dollari all'anno, contro i 18mila delle catene concorrenti. Il governo degli Stati Uniti ha recentemente stabilito che la soglia di povertà per una famiglia di tre persone è 15.060 dollari: un lavoratore di Walmart, che inoltre con il suo stipendio deve pagarsi una quota sempre più consistente dell'assistenza sanitaria, ha letteralmente un salario da fame. E ci sono condizioni anche peggiori. Il 23 ottobre scorso gli agenti federali hanno fatto un blitz in 61 supermercati Walmart, in 21 Stati: sono stati arrestati 250 lavoratori clandestini. La multinazionale ha scaricato la responsabilità su aziende esterne, a cui ha appaltato alcuni lavori. Forse è così, ma è comunque frutto della politica industriale di Walmart di tenere prezzi così bassi. Nel supermercato di Piscataway, nel New Jersey, sono stati trovati molti immigrati clandestini messicani: lavoravano lì da anni, facendo le pulizie e riempiendo gli scaffali durante la notte. Gli immigrati lavoravano 60 ore alla settimana per 6 dollari l'ora, senza contratto, senza assistenza sanitaria, senza vacanze né straordinari. Forse a questo punto inutile sottolineare che nella multinazionale il sindacato non esiste, perché, come ha spiegato recentemente in un'intervista l'amministratore delegato Lee Scott, "pensiamo che sia meglio avere a che fare con i nostri dipendenti a livello individuale, senza bisogno di intermediari".
L'effetto Walmart sta colpendo però un numero ben più alto di lavoratori. Safeway e altre catene di supermercati hanno deciso di ridurre l'assistenza sanitaria ai loro dipendenti per cercare di fronteggiare in qualche modo la concorrenza di Walmart. E le conseguenze non si fermano qui e coinvolgono anche le aziende produttrici di beni e conseguentemente altri milioni di lavoratori. Walmart ha una quota così rilevante di mercato da poter imporre i propri prezzi di acquisto alle società produttrici, che non possono permettersi che i loro prodotti siano esclusi dagli scaffali della catena. Naturalmente sono i lavoratori, ancora una volta, a pagare le spese di questi contratti capestro, con la riduzione dei salari, l'aumento delle ore di lavoro, la diminuzione dell'assistenza sanitaria.
L'altra leva usata da Walmart per tenere i prezzi bassi è l'utilizzo sempre più massiccio di prodotti importati dai paesi in via di sviluppo, in particolare in Oriente. Nel 2002 Walmart ha importato merci dalla Cina per 12 miliardi di dollari, il 10% delle importazioni statunitensi da quel paese; la multinazionale importa il 96% dell'abbigliamento, l'80% dei giocattoli, il 100% dell'elettronica. Anche in questo caso è inutile ricordare gli scarsissimi livelli di tutela dei lavoratori. Se sono terribili le condizioni dei lavoratori cinesi che producono i prodotti Apple, che pure ha un codice etico - se volete leggete la "considerazione" nr. 121 - pensate cosa può succedere in una fabbrica cinese di jeans, i cui prodotti in due anni sono scesi nei negozi americani da 27 a 8 dollari: è facile capire chi paga la differenza.
Alcune reazioni negli Stati Uniti ci sono state. In Walmart, come detto, non c'è il sindacato e non si sciopera, ma i lavoratori di alcuni altri supermercati, i cui amministratori hanno introdotto lo "stile Walmart", hanno organizzato alcuni scioperi. La cosa non ha avuto ripercussioni né sulle aziende né verso i consumatori, perché negli Stati Uniti le aziende possono assumere temporaneamente qualcuno al posto di un lavoratore che sciopera e quindi i vari magazzini sono rimasti aperti. Nonostante tutto, questi scioperi hanno cominciato a far riflettere l'opinione pubblica sullo strapotere di questa azienda che, in nome del liberalismo e della capacità di favorire le fasce più deboli dei consumatori, ha riflessi molto pesanti sull'economia statunitense e globale, contribuendo di fatto ad aumentare ancora di più il numero dei poveri. Alcune amministrazioni locali hanno cercato di porre dei limiti all'apertura di nuovi supermercati, ma Walmart promuove e sostiene, anche finanziariamente, dei referendum per far considerare illegittime queste decisioni. Si tratta con tutta evidenza di cerotti, inadatti da soli a chiudere una ferita. C'è al fondo l'idea salvifica che il mercato sia capace di regolarsi da solo, aumentando il benessere della società. Invece aumentano soltanto gli utili e diminuiscono diritti e salari dei lavoratori. Dovrebbe pensarci qualche nostro politico, recentemente convertitosi sulla via di Detroit. Il mercato da solo non è in grado di tutelare il lavoro: occorrono le leggi e un'amministrazione capace di farle rispettare. Occorre anche più sinistra: a chi predica la fine del Novecento e della contrapposizione tra capitale lavoro, chiedete cosa pensa di un lavoratore il cui salario è inferiore alla soglia di povertà. Nessuno riuscirà a convincermi che questa è la modernità.

domenica 6 febbraio 2011

"Fili" di Fatma Qandil


Il primo filo
Ho chiesto di presentarmi a voi
Non per raccontare il torto subito
Ma per godere a lungo dello splendore del trono
Dove posso nascondere il mio viso prostrato
Il mio viso, che voi avete creato
Ve ne farò avere nostalgia
Lo terrò nascosto a lungo
So che non potreste mai rinunciare a questa mia prostrazione
E che resisterete al desiderio
Di guardarlo, forse solo ora che ride
Messo lì come un ostacolo
Non lascerete mai che i vostri piedi vi inciampino .
Il secondo filo
Vi parlerò degli alberi le cui radici non hanno mai lasciato la terra
Sono cresciuti
Nell’aria che congiunge la nostra casa al giardino
E i loro rami si sono attorcigliati intorno ad essa con precisione
E già potete attraversarli mentre passate
Anzi poggiate il vostro mento su di loro ogni volta che vi bloccano
Futili conversazioni
Ne è la prova il fatto
Che anche richiamandole subito alla memoria
E’ difficile ricordarne i dettagli.
Il terzo filo
Il ballerino in un cerchio di luce
Non distingue il buio del palco da quello degli spettatori
Se l’uomo delle luci non fa errori
Spiccherà un volo sulle teste
Nel momento in cui il teatro è illuminato
Si accendono gli insulti
Si spengono le luci
Sul ballerino che si chiede confuso:
Da dove veniva la musica?
Il quarto filo
Come se lei fosse qui
Come se fosse seduta sul marciapiede
E osservasse i passanti
Come se potesse raccontarli uno ad uno
Come se tutti voi parlaste con lei nello stesso momento
E quando scoppiò la rissa
Tutti si dileguarono
E lei rimase seduta sul marciapiede
A chiamarli
Mentre un filo di sangue
Scendeva sulle sue ginocchia.
Il quinto filo
Dato che il tentato omicidio
È un crimine
Stringeremo il male nel pugno
E leccheremo ciò che cola dalle dita.
L’ultimo filo
Ti ho costretto dentro questo sacco
Ne ho chiuso l’apertura con una corda grezza
Mi devi almeno di non gridare
Sai che non sono così severa
Da gettarti, per esempio, dall’alto
O da prenderti a calci
Anche se dopo un po’ mi giudicherai per non aver annodato bene la corda
E ascolterai le lamentele per la durezza del sacco
Perché non è comodo come cuscino
E anche per il tuo continuo movimento
Bene, dividerò con te il sonno
Perché sei l’unico che riesce a svegliarmi.

sabato 5 febbraio 2011

Considerazioni libere (205): a proposito di internet e di povertà...

Questi giorni sono indubbiamente segnati da quello che sta succedendo nei paesi della costa meridionale del Mediterraneo e del Medio Oriente: la rivolta in Tunisia che ha costretto alla fuga il dittatore Ben Ali, le grandi manifestazioni che stanno aprendo una breccia sempre più larga nel regime di Mubarak e i cui esiti sono per ora imprevedibili, il diffondersi di moti di protesta nell'intera regione, dall'Algeria allo Yemen, dal Marocco al Libano; per non parlare della crisi delle cancellerie occidentali, che vedono crollare i propri, mal scelti, alleati. Ne ho già parlato nella "considerazione" nr. 198 e credo che ne parlerò ancora, perché queste rivolte segnano un passaggio storico estremamente importante.
Con una qualche enfasi, diversi commentatori hanno descritto queste rivolte come le prime dell'era tecnologica, una sorta di rivoluzioni 2.0. Ho letto, come immagino abbiate fatto voi, molti commenti che hanno descritto il ruolo dei blogger e il diffondersi delle parole d'ordine della rivolta attraverso Twitter e Facebook. Ho l'impressione che concentrarsi troppo su questo aspetto, ci distolga da alcuni altri concetti fondamentali.
Ricordo che poco più di due anni fa in tanti presentavano Obama come il primo presidente degli Stati Uniti eletto grazie alla rete. Certamente Obama, per età e per curiosità intellettuale, è il primo presidente americano che maneggia con disinvoltura questi strumenti e sicuramente chi ha lavorato - e lavora - insieme a lui sa usare bene le potenzialità della rete. Un po' di tempo fa ho scritto una "considerazione" sul tema - la nr. 32, per la precisione - e, come scrissi allora, continuo a venire aggiornato, almeno due o tre volte alla settimana, su quello che sta facendo l'amministrazione statunitense, molto meglio che la triste newsletter dei nostri governi, di destra e di sinistra. Nonostante tutto questo, ricordo però un lungo reportage di Time sulla campagna elettorale di Obama, in cui venivano descritti gli uffici dei volontari rione per rione, cittadina per cittadina, i volantinaggi per strada, il porta a porta, in sostanza tutti gli strumenti più old che si potesse immaginare. Il fatto di guardare a quegli avvenimenti da lontano e per lo più attraverso la rete, ci aveva fatto scambiare il mezzo per la sostanza e fatto dare un giudizio sbagliato.
Credo che alla fine scopriremo qualcosa del genere anche sugli avvenimenti di queste settimane. Ogni paese ha le proprie caratteristiche e quindi bisogna fare attenzione a non dare giudizi generici. La Tunisia ha un livello di istruzione più alto rispetto a quello dell'Egitto, comunque in questi due paesi il livello di analfabetismo raggiunge rispettivamente il 22 e il 33,6%. In Egitto almeno un terzo della popolazione è esclusa dalla rete perché non sa leggere e scrivere. Secondo i dati di giugno del 2010, in Egitto su una popolazione complessiva di 77 milioni di persone, ci sono 182.017 host, ossia di terminali collegato a una rete o più in particolare a internet: sono 2,4 per ogni 1.000 abitanti. Per altro l'Egitto è uno dei paesi africani - escluso il Sudafrica che fa storia a sé - in cui la rete è più diffusa. In paesi così poveri i livelli di accesso a internet e di utilizzo di social network è decisamente inferiore rispetto alle medie occidentali.
Questo non significa che questi strumenti non abbiano avuto un ruolo, ma diverso da quello che forse abbiamo immaginato. I social network e i blog sono stati utili per aggirare la censura e per tenerci informati, in tempo reale, su quello che accadeva in quei paesi e per questo c'è stato, in particolare in Egitto, il tentativo, in parte riuscito, di bloccare l'informazione attraverso questi canali, così come ci sono state le minacce verso i giornalisti occidentali e il tentativo di oscurare Al Jazeera. Ma la voce della rivolta non è passata, o è passata solo in minima parte, sulla rete, la rivolta si è diffusa tra le persone, con il dialogo, il confronto, il passaparola.
Io credo che, anche per colpa di come abbiamo letto questo aspetto "digitale" della rivolta, ci sia sfuggito un un punto fondamentale. Le rivolte in Algeria, in Tunisia, in Egitto sono scoppiate per la disperazione di milioni di persone che non sanno cosa mangiare. Naturalmente c'è anche un alto livello di consapevolezza politica - che pare stia crescendo, per fortuna - c'è il forte collante delle fede, ma è stata l'impossibilità di costruirsi un futuro a spingere tanti giovani alla ribellione. Facciamo sempre più fatica a leggere il mondo attraverso la categoria della povertà, della fame: solo perché qui, nel mondo occidentale, abbiamo sconfitto - apparentemente, come dovremmo sapere, se leggessimo con maggior attenzione quello che succede nelle nostre società - questo problema, non vuol dire che nel mondo questo problema non investa masse enormi. La crisi globale in Europa ha significato per molte persone la perdita del lavoro, per altri la perdita della casa, per moltissimi l'impossibilità di mantenere lo stesso tenore di vita, in paesi come l'Egitto ha significato - e significa - morire di fame. Sarà che il Novecento è finito e quindi la povertà non c'è più e c'è la rete che ha spinto troppi commentatori a leggere queste rivolte con una lente distorta. In Egitto il Novecento non è ancora cominciato.

mercoledì 2 febbraio 2011

"Potete legarmi mani e piedi" di Mahmoud Darwish


Potete legarmi mani e piedi
togliermi il quaderno e le sigarette
riempirmi la bocca di terra:
la poesia è sangue del mio cuore vivo
sale del mio pane, luce nei miei occhi.
Sarà scritta con le unghie, lo sguardo e il ferro,
la canterò nella cella della mia prigione,
al bagno,
nella stalla,
sotto la sferza,
tra i ceppi
nello spasimo delle catene.
Ho dentro di me un milione d'usignoli
Per cantare la mia canzone di lotta.

martedì 1 febbraio 2011

Considerazioni libere (204): a proposito di patrimoniale...

Inaspettatamente e inopinatamente un tema di politica economica ha fatto capolino nel dibattito politico italiano, cogliendo un po’ di sorpresa commentatori, opinionisti e naturalmente gli stessi politici, tutti impegnati a parlare d’altro, specialmente di puttane. Il tema è quello della patrimoniale. Il primo a parlarne, a fine dicembre, è stato Giuliano Amato, che ha proposto una tassa straordinaria a carico del terzo più ricco degli italiani, per ridurre di circa un terzo il nostro enorme debito pubblico, che pesa per il 116% sul Pil, il dato peggiore di tutta la cosiddetta zona-euro, a parte la Grecia, che però non sarebbe da prendere come modello. Alla fine di gennaio invece il professor Capaldo, economista di area cattolica, ha proposto un’imposta straordinaria sulle plusvalenze immobiliari, tra il 5 e il 20%.
Non dovrebbe stupire che un politico di cultura socialista proponga una patrimoniale, né stupisce che il premier di un governo di centrodestra, che è anche l’uomo più ricco di quello stesso paese, dica che il suo governo non varerà mai un provvedimento di tal genere. Al di là delle polemiche contro i giudici, contro le nuove e vecchie opposizioni, contro i giornali, contro il destino cinico e baro, Berlusconi con l’articolo di ieri sul Corriere della sera, è tornato a dire "qualcosa di destra", rassicurando così i suoi grandi elettori: no alla patrimoniale, sì agli accordi di Pomigliano e di Mirafiori contro i diritti dei lavoratori, sì alla riduzione delle tasse. Poi è tornato sulla riforma dell’art. 41 della Costituzione, per dare finalmente dignità costituzionale al liberismo più sfrontato, agli spiriti animali - di questo ho già parlato in un’altra "considerazione", la nr. 122, per la precisione. Ripeto: nulla di strano, Berlusconi fa il suo mestiere.
Suppongo che anche il Pd sia contrario alla patrimoniale. Sinceramente ammetto di non seguire quotidianamente lo stillicidio di dichiarazioni del sedicente gruppo dirigente del Pd, ma, visti i precedenti, l’ipotesi di introdurre una patrimoniale deve suonare a D’Alema e compagnia più o meno come una proposta trotzkista.
Personalmente sono favorevole alla proposta suggerita da Amato, in un’intervista peraltro piuttosto moderata nei toni, come è nei modi della persona. C’è un punto però che mi preme sottolineare in maniera particolare. Ne parla lo stesso Amato ed è una delle critiche più fondate che il Corriere fa alla proposta. Per come è strutturato il sistema fiscale italiano, per l’altissimo tasso di evasione, la patrimoniale finirebbe per sfiorare soltanto i patrimoni delle persone veramente ricche, che non risultano tali per il fisco, e colpirebbe invece i ceti medi, quelli che in sostanza le tasse già le pagano. Il problema è che, al di là del legittimo giudizio negativo del Corriere sulla patrimoniale - anche lui fa il suo mestiere di giornale della buona borghesia - questa analisi è impietosamente vera. In Italia pagano troppe tasse quelli che hanno meno, specialmente coloro che hanno un reddito da lavoro dipendente, e ne pagano poche - e a volte non le pagano affatto - quelli che hanno di più. La fiscalità italiana è solo teoricamente progressiva.
Sinceramente trovo che sia un grave errore che il Pd, come ha autorevolmente fatto anche domenica D’Alema, continui a proporre un fronte costituzionale da Fini a Vendola. Detto questo, se proprio non si vuole recedere da questo progetto, sarebbe utile mettere al centro della proposta programmatica di questo strano futuro governo non l’antiberlusconismo, ma la lotta serrata contro l’evasione, per far si che tutti paghino le tasse. In fondo si tratterebbe di una battaglia di legalità, che dovrebbe stare a cuore tanto a destra quanto a sinistra.
Al di là di questa ipotesi di scuola, io penso che un fronte di centrosinistra che si ponga come punto centrale non solo la lotta all’evasione, ma soprattutto un’equa riforma fiscale, con una rimodulazione del prelievo, magari accompagnato dalla patrimoniale, riuscirebbe a parlare a una parte grande della società, forse alla maggioranza, a chi fa fatica a immaginare il proprio futuro come a chi non riesce a organizzare il proprio presente, e forse non sarebbe neppure visto con ostilità da una classe media, che pur vivendo senza troppe preoccupazioni, è consapevole dei rischi serissimi che sta correndo il paese. Forse si potrebbe provare.