martedì 22 febbraio 2011

da "Il conflitto delle facoltà" di Immanuel Kant


Questo evento non consiste propriamente in importanti fatti o misfatti compiuti dagli uomini, attraverso i quali quello che tra loro è stato grande diviene più piccolo o ciò che fu piccolo grande e, come per incanto, spariscono magnifiche costruzioni politiche antiche, e, quasi uscissero dal profondo della terra, ne nascono altre al loro posto. No: niente di tutto ciò. Si tratta semplicemente del modo di pensare degli spettatori che, in questo gioco di grandi trasformazioni, si rivela pubblicamente e manifesta una così generale e pure disinteressata partecipazione di coloro che si schierano da una parte contro quelli che stanno dall'altra, pur con il pericolo che questo essere di parte possa diventare per loro molto svantaggioso, ma così si mostra, almeno nella disposizione, un carattere del genere umano nel suo complesso (per via dell'universalità) e insieme un suo carattere morale (per il disinteresse) che non solo fa sperare nel progresso verso il meglio, ma, per quanto è sinora possibile, è già come tale un progresso.
La rivoluzione di un popolo ricco di spirito che abbiamo visto avvenire nel nostro tempo, può avere successo o può fallire; può essere così piena di miseria e di atrocità, che un uomo che pensa rettamente, se potesse sperare di portarla a termine felicemente compiendola una seconda volta, non deciderebbe mai di ritentare l'esperimento a tal prezzo - questa rivoluzione, dico, trova però nell'animo di tutti gli spettatori (i quali non siano personalmente coinvolti in questo gioco) una partecipazione sul piano del desiderio che rasenta nell'entusiasmo, e la cui stessa manifestazione comportava qualche pericolo: una partecipazione che dunque non può avere altra causa che una disposizione morale insita nel genere umano.
Questa causa morale che interviene è duplice: in primo luogo è quella del diritto di un popolo a non essere ostacolato da altre potenze a darsi una costituzione civile che gli sembra buona; in secondo luogo è quella dello scopo (che è al tempo stesso un dovere) per cui è legittima e moralmente buona solo quella costituzione civile che per sua natura è tale da evitare per principio la guerra di aggressione, e che, almeno in teoria, non può essere che la costituzione repubblicana; dunque del fine di entrare nella condizione nella quale la guerra (la fonte di ogni male e corruzione dei costumi) venga fermata, e al genere umano, nonostante tutta la sua fragilità, venga così assicurato il progresso verso il meglio in negativo, perlomeno nel non essere ostacolato nel suo progredire. Questo, dunque, e il prendere parte al bene con un affetto, l'entusiasmo, sebbene esso non sia del tutto da giustificare, poiché ogni affetto merita in sé biasimo, dà l'occasione, tramite questa storia, per fare un'importante osservazione antropologica: un vero entusiasmo si riferisce sempre soltanto a ciò che è ideale, e precisamente puramente morale, come è il concetto del diritto, e non può innestarsi nell'interesse personale. I nemici della rivoluzione, attraverso ricompense, non potevano essere pieni dell'ardore e della grandezza d'animo che il semplice concetto del diritto faceva nascere nei rivoluzionari, e persino il concetto dell'onore dell'antica nobiltà guerriera (analogo all'entusiasmo) scomparve di fronte alle armi di coloro che avevano stampato negli occhi il diritto del popolo di cui facevano parte, e del quale si ritenevano difensori; con tale esaltazione simpatizzava il pubblico esterno, che era spettatore, senza alcuna intenzione di cooperare.

Nessun commento:

Posta un commento