lunedì 28 maggio 2012

Piazza della Loggia, Brescia, 28 maggio 1974


Giulietta Banzi Bazoli, 34 anni, insegnante
Livia Bottardi Milani, 32 anni, insegnante
Euplo Natali, 69 anni, pensionato
Luigi Pinto, 25 anni, insegnante
Bartolomeo Talenti, 56 anni, operaio
Alberto Trebeschi, 37 anni, insegnante
Clementina Calzari Trebeschi, 31 anni, insegnante
Vittorio Zambarda, 60 anni, operaio

sabato 26 maggio 2012

"Nulla è in regalo" di Wislawa Szymborska


Nulla è in regalo, tutto è in prestito.
Sono indebitata fino al collo.
Sarò costretta a pagare per me
con me stessa,
a rendere la vita in cambio della vita.
E' cosi che stanno le cose,
il cuore va reso
e il fegato va reso
e ogni singolo dito.
E' troppo tardi per impugnare il contratto.
Quanto devo
mi sarà tolto con la pelle.
Me ne vado per il mondo
tra una folla di altri debitori.
Su alcuni grava l'obbligo
di pagare le ali.
altri dovranno, per amore o per forza,
rendere conto delle foglie.
Nella colonna dare
ogni tessuto che è in noi.
Non un ciglio, non un peduncolo
da conservare per sempre.
L'inventario è preciso
e a quanto pare
ci toccherà restare con niente.
Non riesco a ricordare
dove, quando e perché
ho permesso di aprirmi
quel conto.
Chiamiamo anima
la protesta contro di esso.
E questa è l'unica cosa
che non c'è nell'inventario.

giovedì 24 maggio 2012

da "Le memorie di Adriano" (II) di Marguerite Yourcenar

La Villa era ormai abbastanza a buon punto da potervi trasportare le mie collezioni, i miei strumenti di musica, le poche migliaia di libri acquistati un po' dovunque nel corso dei miei viaggi. Offrii una serie di feste in cui ogni cosa era prevista con cura, la lista delle vivande e il numero ristrettissimo dei miei ospiti. Ci tenevo che ogni cosa fosse in armonia con lo splendore pacato di questi giardini e di queste sale, che le frutta fossero squisite quanto i concerti, e il funzionamento dei servizi perfetto quanto il cesello dei piatti d'argento. Mi interessai per la prima volta alla scelta delle vivande: volli che si provvedesse a far venire le ostriche dal Lucrino e i gamberi fossero pescati nei fiumi della Gallia. In contrasto con la negligenza pomposa che troppo spesso distingue la tavola imperiale, stabilii la regola che mi si mostrasse ogni piatto prima di offrirlo, sia pure all'ultimo dei miei commensali; insistetti per verificare personalmente i conti dei cuochi e dei trattori: a volte, ricordavo che mio nonno era stato avaro. Non erano ancora terminati né il piccolo teatro greco della Villa, né quello latino, un po' più vasto, ma vi feci egualmente rappresentare qualche commedia. Per mio ordine, furono recitate tragedie e pantomime, drammi in musica e atellane. Mi piaceva soprattutto la ginnastica sottile delle danze, e scoprii d'avere un debole per le danzatrici con le nacchere, che mi ricordavano il paese di Gades, i primi spettacoli ai quali avevo assistito quando non ero che un bimbo. Amavo quel suono crepitante, le braccia levate, quei veli spiegati o ravvolti, quella danzatrice che cessa d'esser donna per diventare nuvola o uccello, onda o trireme. Per una di queste creature, ebbi persino una passioncella di breve durata. Durante le mie assenze, non erano stati trascurati i canili e le scuderie, e ritrovai il pelo duro dei cani, il manto serico dei cavalli, la bella muta dei paggi. Organizzai qualche caccia in Umbria, sulle sponde del Trasimeno, o, più vicino aRoma, nei boschi di Alba. Il piacere aveva ripreso il suo ruolo nella mia vita; il mio segretario, Onesimo, mi serviva da fornitore, sapeva quando bisognava evitare certe affinità, quando, al contrario, ricercarle. Ma questo amante frettoloso e distratto non era troppo amato. A volte, m'imbattevo in un essere più tenero, più fine degli altri,qualcuno che valeva la pena di ascoltar parlare, fors'anche di rivedere; casi fortunati ma rari, per colpa mia, senza dubbio. Di solito, mi bastava placare, o ingannare, la mia fame. In altri momenti, mi accadeva di provare una indifferenza da vegliardo per quei giochi.
Nelle ore d'insonnia, percorrevo i corridoi della Villa, erravo di sala in sala, a volte importunavo un artigiano intento a mettere a posto un mosaico; passando,esaminavo un Satiro di Prassitele; mi fermavo davanti ai simulacri del morto. Ogni stanza aveva il suo, ogni portico perfino. Facevo schermo con la mano alla fiamma della mia lampada; sfioravo con un dito quel petto di pietra. Questi confronti rendevano più arduo il compito della memoria; scostavo come una tenda il candore del marmo pario e del pentelico, risalivo alla meglio da quei contorni immobili alla forma viva, dal freddo marmo alla carne. Proseguivo nella mia ronda; la statua interrogata ripiombava nell'oscurità; a pochi passi da me, la lampada mi rivelava un'altra immagine; quelle grandi figure bianche non si distinguevano quasi dai fantasmi. Pensavo amaramente agli esorcismi mediante i quali i sacerdoti egizi avevano attirato l'anima di loro culto; avevo fatto anch'io come loro, avevo stregato pietre che mi stregavano a loro volta; non sarei sfuggito mai più a quel silenzio, a quel gelo che ormai mi era più vicino che non il calore, la voce dei vivi; guardavo quasi con rancore quel viso insidioso, dal sorriso sfuggente. Ma, poche ore dopo, nel mio letto, risolvevo d'ordinare a Papias di Afrodisia una nuova statua; avrei voluto un modellato più esatto delle gote, là dov'esse, insensibilmente, s'incavano sotto la tempia,un'inclinazione più lieve del collo sulla spalla; alle ghirlande di pampini e ai fermagli di pietre preziose avrei sostituito questa volta lo splendore dei riccioli nudi. Non dimenticavo mai di far scavare all'interno quei bassorilievi o quei busti per diminuirne il peso, e renderne più agevole il trasporto. Di queste immagini, le più somiglianti mi hanno accompagnato dovunque; non m'importa neanche più che siano belle oppure no.
[…]
Da semplice privato, avevo cominciato a comprare e mettere insieme pezzo per pezzo i terreni che si estendono ai piedi dei monti Sabini, al limitare delle sorgenti,con l'ostinazione paziente d'un contadino che amplia le sue vigne; tra un giro di ispezione imperiale e l'altro, avevo posto le tende sotto quei boschetti invasi da muratori e architetti, dove un giovinetto imbevuto di tutte le superstizioni asiatiche chiedeva piamente che gli alberi fossero risparmiati. Di ritorno dal mio grande viaggio d'Oriente, m'ero messo con una specie di sacra frenesia a completare lo scenario immenso di quell'opera già quasi terminata. Questa volta vi feci ritorno per terminare i miei giorni il più dignitosamente possibile. Tutto era predisposto per regolare il lavoro così come il piacere: la cancelleria, le sale per le udienze, il tribunale dove avrei giudicato in ultimo appello la cause difficili, m'avrebbero risparmiato faticosi andirivieni fra Tivoli e Roma. Avevo dotato ciascuno di quegli edifici di nomi evocanti la Grecia: il Pecile, l'Accademia, il Pritaneo. Sapevo bene che quella valle angusta, disseminata d'olivi, non era il Tempe, ma ero giunto in quell'età in cui non v'è una bella località che non ce ne ricordi un'altra, più bella, e ogni piacere s'arricchisce del ricordo di piaceri trascorsi. Consentivo ad abbandonarmi a quella nostalgia ch'è la malinconia del desiderio. A un angolo particolarmente ombroso del parco, avevo persino dato il nome di Stige; a una prato costellato d'anemoni quello di Campi Elisi, preparandomi così a quell'altro mondo i cui tormenti somigliano tanto a quelli del nostro, ma le cui gioie nebulose non valgono le nostre. Ma, soprattutto, nel cuore di quel ritiro, m'ero fatto costruire un asilo ancor più celato, un isolotto di marmo al centro d'un laghetto contornato di colonne, una stanza segreta che un ponte girevole, così lieve che si può con una mano sola farlo scivolare nella sua corsia, unisce alla riva, o, piuttosto, segrega da essa. In quel padiglione feci trasportare due o tre statue a me care, e quel piccolo busto d'Augusto fanciullo che Svetonio m'aveva dato ai tempi della nostra amicizia;all'ora della siesta, mi recavo là per dormire, per pensare, per leggere. Sdraiato sulla soglia, il mio cane allungava innanzi a sé le zampe rigide; un riflesso di luce si riverberava sul marmo; Diotimo, per rinfrescarsi, posava la gota al fianco levigato d'una vasca. Io pensavo al mio successore.

da "Le Metamorfosi" (II, vv. 833-875) di Ovidio

 Max Beckmann, The rape of Europe, 1933

Questo dice, e già i giovenchi cacciati giù dal monte si dirigono,
come ordinato, alla spiaggia, dove la figlia di quel re potente,
accompagnata dalle fanciulle di Tiro, è solita giocare.
Maestà e amore non vanno molto d'accordo,
non possono convivere: lasciato lo scettro solenne,
il padre e signore degli dei, quello che ha la destra armata
di fulmini a tre punte, lui che con un cenno fa tremare il mondo,
assume l'aspetto di un toro e mescolato alle giovenche
muggisce, aggirandosi aitante sull'erba tenera.
Il suo colore è come quello della neve non calcata
da passo pesante o sciolta dalle piogge dell'Austro;
gonfio di muscoli è il suo collo, dalle spalle pende la giogaia;
piccole le corna, ma tali che potresti ritenerle
fatte a mano, e più trasparenti d'una gemma pura.
Niente di minaccioso in volto, niente di spietato nello sguardo:
un'aria mansueta. La figlia di Agenore lo guarda
meravigliata, bello com'è e senza intenti bellicosi.
Prima però, malgrado le appaia così mite, esita a toccarlo;
ma poi gli si accosta e a quel candido muso porge dei fiori.
Gode l'innamorato e, in attesa del piacere sognato,
le bacia le mani: a stento ormai, a stento rimanda il resto;
intanto si sfrena gioioso saltando sull'erba verde
o stendendo il fianco color di neve sulla rena bionda;
e allontanata a poco a poco da lei la paura, le offre il petto
perché l'accarezzi con la sua mano ingenua, o le corna perché
le inghirlandi ancora di fiori. E la figlia del re
s'adagia persino sul suo dorso, senza sapere su chi si siede.
Allora il dio dalla terra asciutta della riva, senza parere,
comincia a imprimere le sue mentite orme nelle prime onde,
poi procede oltre e in mezzo alle acque del mare si porta via
la sua preda. Lei terrorizzata si volge a guardare la riva
ormai lontana: la destra stringe un corno, la sinistra s'afferra
alla groppa; palpitando al vento si gonfiano le vesti.

martedì 22 maggio 2012

Storie (VI). "Il delitto del bibliotecario..."

Melezio lavorava alla Grande Biblioteca ormai da vent'anni. Era stato assunto da Pansemne, che aveva diretto per quasi mezzo secolo la sezione dedicata alla filosofia e che, poco prima di congedarsi dall'istituzione a cui aveva dedicato gran parte della vita, aveva voluto assumere dei giovani in grado di continuare il suo lavoro. Purtroppo Agenore, che aveva sostituito Pansemne, non teneva in alcuna considerazione i collaboratori del precedente direttore, che uno dopo l'altro avevano preferito chiedere il trasferimento in qualche altra sezione. Melezio non chiese di essere trasferito, perché voleva continuare a studiare i suoi amati filosofi, anche se Agenore gli rendeva ogni giorno la vita più difficile. Per prima cosa gli cambiò incarico: Melezio era stato assunto per occuparsi delle edizioni dei primi sofisti - Protagora e Gorgia, in particolare - eppure gli ordinò, senza nemmeno consultarlo, di preparare le edizioni di alcuni sconosciuti filosofi della scuola stoica, discepoli minori di Crisippo. Poi gli negò la promozione a vice sovrintendente - con la relativa gratifica economica - che pure gli sarebbe spettata per anzianità di servizio, per premiare un suo pupillo, tal Nectario, che era entrato in Biblioteca soltanto perché suo zio era il direttore della sezione tragici e compagno di caccia di Agenore. Melezio si curava poco di quello che succedeva ormai ad Alessandria: continui colpi di stato, intrighi di corte, tradimenti e inganni all'interno della dinastia e tra gli alti funzionari del palazzo reale. E anche nella Biblioteca e nel Museo le cose non andavano meglio: le nomine e le promozioni riflettevano sempre più le beghe politiche e sempre meno le conoscenze e le competenze dei diversi studiosi. Melezio trascorreva tutti i giorni nella Biblioteca, anche quando aveva finito il suo turno di servizio, non partecipava a feste, incontri politici, non aveva nessuno che lo raccomandasse e quindi era finito per diventare lo zimbello dei bibliotecari più giovani, che stavano facendo rapidamente carriera.
Nonostante Melezio amasse molto il suo lavoro, gli pesava dover continuare ad occuparsi di quegli oscuri autori, di cui non condivideva il pensiero e le cui opere rimanevano a raccogliere la polvere sugli scaffali. Non vedeva l'ora di terminare il proprio turno e il proprio lavoro - a cui pure dedicava ogni energia - per poter tornare nella sezione dedicata a raccogliere le opere dei sofisti e continuare a studiare i testi di Protagora. Per sua fortuna, Crescle, il giovane a cui Agenore aveva affidato il compito di completare l'edizione critica del sofista di Abdera, era uno sfaccendato che amava passare più tempo nelle taverne che tra gli scaffali della Biblioteca e così Melezio era riuscito a fare un patto con lui. All'insaputa di Agenore, Melezio avrebbe continuato a lavorare sull'edizione critica delle opere di Protagora, che il giovane Crescle avrebbe poi fatto passare come curate da lui.
Erano anni ormai che le cose andavano avanti in questo modo. Melezio continuava il suo lavoro segreto e Crescle riceveva le lodi degli studiosi per le edizioni critiche protagoree, tanto da ottenere la nomina a vicedirettore della sezione filosofi. Anche con Eufemio, che aveva preso il posto di Crescle, Melezio potè continuare indisturbato il suo lavoro, all'oscuro di tutti. Purtroppo un giorno di primavera un carro lo investì mentre tornava a casa per cenare e dormire; si ruppe una gamba e fu costretto a rimanere a casa. Non era un grave danno per le edizioni degli stoici minori, che tanto nessuno consultava e che quindi potevano essere tranquillamente completate in un secondo tempo, ma nell'ambiente culturale alessandrino c'era una certa attesa per l'edizione critica della più importante opera di Protagora, Aletheia, con cui si sarebbe concluso il corpus delle edizioni del sofista di Abdera. Eufemio non sapeva come fare, temeva che a quel punto l'inganno venisse svelato e anche Crescle aveva la stessa preoccupazione; i due decisero quindi di chiedere a Melezio di continuare a casa il suo lavoro. Sarebbe stato però necessario far uscire dalla Biblioteca alcuni rotoli, quelli su cui il bibliotecario stava segretamente lavorando: era vietato far uscire dei rotoli dalla Biblioteca, ma Crescle e il suo successore decisero di correre il rischio. Una notte presero i rotoli e andarono a casa di Melezio pregandolo di continuare il suo lavoro; lui naturalmente accettò: quell'edizione critica di Protagora era ormai la cosa più importante della sua vita e voleva terminarla a ogni costo, anche se era necessario trasgredire una delle regole fondamentali della Biblioteca.
Melezio continuava a lavorare con sollecitudine, nonostante il dolore alla gamba, che non accennava a diminuire. Era completamente immerso nel suo lavoro e non notò neppure che da almeno cinque giorni né Crescle né Eufemio erano andati a controllare che il suo lavoro procedesse, come avevano fatto regolarmente fino ad allora. Delle poche necessità di Melezio si occupava una vecchia serva, che era già stata schiava della sua famiglia e che lo aveva visto crescere. La donna però era muta e quindi non potè spiegare a Melezio che da alcuni giorni ad Alessandria c'era una grande tensione. C'erano soldati romani dappertutto e si diceva che fosse in città anche il loro re - o come chiamava quel popolo il loro capo - e c'era anche un gran movimento tra i soldati egizi. La vecchia Zoe aveva sentito dire al mercato che il re dei romani si era sposato in segreto con la loro regina e che per questo il fratello di lei stava armando un grande esercito contro i due amanti. In quei giorni era sempre più difficile trovare al mercato qualcosa da mangiare, anche se a loro due bastava davvero poco.
Quella mattina c'era tanto rumore che anche Melezio fu costretto a interrompere il suo lavoro per capire cosa stava succedendo. I soldati correvano da ogni parte, le persone si barricavano in casa, Melezio dalla piccola finestra della sua camera vide che si alzavano nuvole di fumo da molti punti della grande città. Passarono un paio di giorni prima che il silenzio e una relativa calma tornassero ad Alessandria e in quei due giorni Melezio completò finalmente il suo lavoro. Il bibliotecario, che intanto si era ripreso e aveva ricominciato a camminare, decise di uscire per sapere cosa fosse successo. I soldati presidiavano le strade; Melezio seppe che erano le truppe del fratello della regina, che avevano vinto la battaglia, ma la regina e il romano non erano stati del tutto sconfitti, rimanevano asserragliati nel palazzo, in attesa di rinforzi. C'erano macerie ovunque, specialmente attorno al palazzo reale. Melezio fu fermato più volte dalle ronde, spiegò che doveva andare alla Biblioteca, che doveva tornare al lavoro. I soldati lo ricacciarono indietro, nonostante camminasse a fatica, sorretto dal bastone: "Un lavoro non l'hai più, vecchio, la biblioteca è bruciata". Melezio allora si rese conto che proprio dove c'era la Biblioteca si alzava quella nuvola di fumo più densa, che aveva notato fin da quando era uscito.
Tornò a casa, stremato, si gettò a sedere sullo sgabello davanti al tavolo su cui c'erano tutte le sue carte e si rese conto all'improvviso di avere in quella stanza l'unica opera scampata dalle fiamme che avevano distrutto la Grande Biblioteca: l'Aletheia di Protagora. E subito capì che quei rotoli non avrebbero dovuto essere lì, non sarebbero mai dovuti uscire dalle stanze della Biblioteca, così come prescrivevano le leggi fin dai tempi del secondo Tolomeo e di Zenodoto. Ora però, distrutta la Grande Biblioteca, non c'era più modo per riparare a quel delitto.
Il giorno dopo Melezio prese i rotoli e decise di andare a confessare il furto, non avrebbe coinvolto Crescle ed Eufemio, ma avrebbe riconsegnato l'opera, denunciando di averla presa a casa per continuare i suoi studi; sperava che le autorità sarebbero state clementi. Decise di andare alla sede del governatore, dove aveva saputo c'era il quartier generale del nuovo re. Al palazzo del governatore c'era una confusione indescrivibile. Fece anticamera per ore, spiegò che doveva denunciare un furto, si ritrovò in mezzo a una folla che si lamentava di aver perso il bestiame e le mercanzie, e quando finalmente riuscì a parlare con un funzionario, questi gli chiese cosa gli avessero rubato. Melezio, intimorito, cominciò a dire: "A me non hanno rubato nulla..." e farfugliò qualcosa a proposito di rotoli della Biblioteca; non fece neppure in tempo a proseguire, il funzionario lo cacciò via, dicendo che in quell'ufficio si doveva andare soltanto per fare una denuncia di furto e non per altre questioni. Andò anche i due giorni successivi, ma nessuno sembrava preposto a ricevere la sua confessione. Il quarto giorno quando arrivò al palazzo del governatore trovò tutti gli ingressi sbarrati; solo due giovani reclute a controllare le porte chiuse. Seppe che stavano arrivando i rinforzi da Roma. Ci fu una nuova battaglia, vi furono nuovi incendi, ancora una volta fu impossibile trovare del cibo al mercato; ma Melezio continuava a pensare al modo di espiare la sua colpa. Questa volta vinsero il romano e la regina, le truppe del fratello furono cacciate da Alessandria. Melezio decise di scriverle una supplica, denunciando la propria colpa e chiedendole di poterle affidare l'unica copia dell'opera di Protagora, magari come prima pietra della nuova, rinata, Biblioteca. Il bibliotecario mise tutto il suo impegno e tutte le sue capacità retoriche per scrivere questa lettera, che avrebbe finalmente messo fine ai suoi tormenti. Passarono mesi, Melezio si aspettava che da un momento all'altro arrivassero i soldati mandati dalla regina per arrestarlo e per prendere in carico la preziosa opera di Protagora, ma non succedeva nulla. Seppe anche che la regina era partita per Roma, per raggiungere il suo sposo, che nel frattempo aveva sconfitto altri nemici, pensò che forse aveva portato con sé anche la sua supplica.
In quei mesi, Melezio aveva cominciato a insegnare ai bambini del suo quartiere a leggere e a scrivere. Da giovane, prima di entrare nella Biblioteca, aveva già fatto il maestro, per pagarsi gli studi; ora era stato costretto a ricominciare, per poter sopravvivere e per assicurare almeno un pasto al giorno per sé e per la povera Zoe. Il vecchio Trasibulo, il commerciante di pellame che viveva in fondo alla strada, aveva un'unica figlia, che quindi sarebbe stata destinata a ereditare la sua attività; anche per questo voleva che imparasse a leggere e a scrivere e la mandò a scuola da Melezio. Aulampia era una ragazzina molto intelligente, che imparava in fretta; il maestro e la sua allieva lasciarono presto le favole di Esopo per passare ai poemi omerici e alle tragedie di Sofocle. La ragazza era curiosa, voleva sapere cosa Melezio aveva fatto nella Grande Biblioteca e volle che il suo maestro cominciasse a insegnarle anche la filosofia. Per Melezio era una gioia poter insegnare di nuovo, poter ancora una volta spiegare le diverse teorie sul mondo, sull'uomo, confrontarsi con un'intelligenza così viva come quella della sua giovane allieva. Un giorno le mostrò anche l'opera di Protagora, ma non ebbe il coraggio di raccontarle tutta la storia. 
Passarono poco più di due anni. La regina tornò ad Alessandria, si diceva che il capo dei romani fosse stato ucciso in una congiura di palazzo: in fondo Roma non era poi così diversa da Alessandria. La regina ordinò ai suoi segretari di leggere le suppliche che erano arrivate in tutti quei mesi. Probabilmente la lettera di Melezio sarebbe stata gettata - in fondo si parlava soltanto di un vecchio libro rubato - ma il caso volle che fu letta da un giovane segretario che aveva studiato filosofia e si incuriosì del fatto che ad Alessandria, a casa di uno sconosciuto bibliotecario, ci fosse ancora una copia dell'Aletheia di Protagora, un'opera che si pensava ormai perduta. Decise così di far visita a Melezio. Il vecchio bibliotecario davvero non si aspettava più quella visita. Il segretario gli chiese dove fosse quell'unica copia dell'opera di Protagora e il bibliotecario compì a causa di quell'opera un nuovo delitto; non ci pensò e così, in maniera assolutamente naturale, mentì: "Purtroppo alcuni mesi fa ho subito un furto, sono entrati dei ladri e mi hanno rubato ogni cosa, compreso quei rotoli. Temo che ormai li avranno distrutti, quando si saranno resi conto che per loro non avevano nessun valore". Il segretario della regina se ne andò, deluso. Sperava davvero di poter recuperare quell'opera preziosa, ma si rese conto che in quei tempi difficili lo scritto di un filosofo non poteva avere nessun valore e presto si convinse che i ladri lo avevano ormai distrutto.

Aulampia conservò sempre con cura i rotoli che il suo maestro le aveva regalato in occasione delle nozze e su quel testo insegnò a leggere ai propri figli. E insegnò loro il valore della filosofia.

mercoledì 16 maggio 2012

"Rancio" di Sotirios Pastakas


Odore di grigliata della domenica
sul mio balcone. Allungo
le braccia e trovo
i fornelli spenti,
i piatti freddi. Ho scordato
ancora di cucinare. Mi sazio
di profumi, anche se nessuno
mi ha invitato a dividere
il pollo con le patate.
Nell’arma degli indesiderati,
dico, non a caso ho prestato servizio.
*
In una bottiglia vuota di plastica
da un litro e mezzo, mettiamo
le olive appena tagliate
e aggiungiamo un’intera
cucchiaiata di sale,
e un po’ d’acqua. Dopo quattro mesi,
sono pronte per essere mangiate.
*
L’uomo che mangia
da solo alla tavola calda,
del cavolo e del tas-
kebab, un vinello bianco
da due lire, da Thomàs,
si pulisce in silenzio
la bocca e se ne va.
Con forchetta e coltello
mangiamo la nostra morte
quotidiana.

martedì 15 maggio 2012

"La chèrta zala" di Nino Pedretti


Cumè ch'a farò a spieghè
ma éun ch'u n la à mai vésta,
's'èll ch'l'era la chèrta zala,
la chèrta zala da pach, fata sla paia
ch'la stévva se bancòun ad cal budgózzi
indurménti te sòul de dopmèzdè?
La zénta ch'la andévva pianin
ti vstéi dla dmènga
la à pórt vèa tótt i su cartózz.

La carta gialla
Come farò a spiegare / a uno che non l'ha mai vista / cos'era la carta gialla, / la carta gialla da pacchi, fatta con la paglia, / che stava sul balcone di quelle bottegucce / addormentate nel sole del pomeriggio? / La gente che andava lenta / negli abiti della domenica / ha portato via tutti i suoi cartocci.

lunedì 14 maggio 2012

"Inventario" di Lutz Seiler


hai scru­tato il tempo
nel para­lume: rami intrec­ciati, linee
di edi­fici toc­cate parola per parola.
fino allo sguardo tutto è aperto – chi

l’ha detto? sto sola­mente seduto qui come
scritto da me stesso, matita su
carta. batte l’orologio a gas, si beve
forte per fis­sare que­sto testo & si ha

nel san­gue l’interpunzione sba­gliata. là
le bot­ti­glie sulla stufa, qui
i tru­cioli, dis­solti dal par­lare, l’odore
di sega­tura fre­sca – ogni

tratto di scrit­tura respinge le cose
attra­verso gra­fite nelle tue ossa, solo
al pian­gere non rie­sci ad arrivare.

domenica 13 maggio 2012

"La sopravvivenza di Icaro" di Susan Stewart


Mio padre vedeva le piume sulle onde e si disperava,
non aveva sentito la voce nel vento
che risoffiava la cera nella forma come
l’alba fredda che dà forza a una bava di candela.
Io avevo sentito quella voce prima,
in un qualche tempo lontano oltre questo posto
e la immagino ora come una rete vivente,
sebbene non sappia come si stenda per il mondo
o se canti dai suoi lacci o dai suoi spazi.

sabato 12 maggio 2012

Considerazioni libere (284): a proposito di elezioni italiane...

Questa "considerazione" è il seguito di quella scritta "a caldo" lunedì pomeriggio, dedicata all'esito delle elezioni in Francia, in Grecia e in Germania; spero l'abbiate letta, questa in qualche modo presuppone quella.
Domenica si è votato anche in diverse città italiane, grandi e piccole, ma, come è noto, in Italia - a differenza di quello che avviene nell'Europa "normale" - si vota anche il lunedì, per santificare la gita domenicale, e soprattutto ci vuole tantissimo tempo per contare i voti. Così, mentre in Francia i due presidenti hanno già, in maniera assolutamente inedita, celebrato insieme la fine della seconda guerra mondiale e in Grecia il presidente della repubblica ha già assegnato, uno dopo l'altro, a tre persone diverse l'incarico di formare il nuovo governo, a Catanzaro non siamo ancora sicuri su quanti voti abbiano preso i candidati sindaci.
Premesso come fanno tutti - specialmente quelli che hanno perso - che si tratta di elezioni locali - ed effettivamente spesso i singoli candidati hanno giocato, nel bene e nel male, un ruolo essenziale, basti pensare a Tosi ed Orlando - qualche riflessione generale si può fare. Io ne ho fatte due.
Il dato più eclatante è che, finito B., è finito anche il suo partito: ci accorgeremo che forse il berlusconismo è stato più dannoso per la destra che per la sinistra. In questi vent'anni in cui è stato il dominus della destra italiana B. non ha saputo - e probabilmente non ha voluto - costruire un gruppo dirigente degno di questo nome. Il paradosso è che neppure l'opposizione di destra si è fatta forte della fine di B.: Fini, di cui tanti, anche a sinistra, cantavano le lodi, è ormai politicamente irrilevante, per non parlare di quella pletora di personaggi che, già militanti nei bassifondi fascisti, per alcuni mesi hanno occupato il posto d'onore della politica. Per fortuna sono stati tutti spazzati via, insieme al loro arcinemico. Eppure lì in fondo, nelle acque limacciose e maleodoranti della destra profonda, qualcosa si sta muovendo. Credo nascerà qualcosa di molto simile al Front national in Francia. Le pulsioni peggiori ci sono: l'odio contro i diversi, l'ostilità contro lo stato e contro l'Europa, la voglia di non pagare le tasse, la retorica nazionalista; ci sono i giornali - Il Giornale, Libero, La Padania - pronti a essere la grancassa di questo movimento; c'è qualche prete pronto a benedire l'operazione, in nome dell'odio contro il mondo islamico; soprattutto ci sono tantissimi potenziali elettori, che questa volta sono stati a casa o hanno votato per Grillo o per altre liste civiche, più o meno di protesta. Manca per il momento il o la Le Pen italiana, ma non ci vorrà molto tempo, lì c'è un tesoro di voti che fa gola a tanti e che non rimarrà incustodito ancora a lungo. Nel sud, inoltre, questo nuovo partito sarà sostenuto con voti, risorse e personale politico dalle varie mafie che governano quelle regioni e che hanno tutto l'interesse a creare un clima di ingovernabilità permanente, sul modello messicano. Il dramma è che la situazione italiana è speculare a quella francese: lì c'è una destra repubblicana più grande della destra "impresentabile" e che, almeno fino a ora, ha saputo tenere alta la barriera tra queste due destre. In Italia la destra di Monti, di Casini, di Montezemolo, è molto più più piccola della destra lepenista e destinata in quel campo a una posizione di subalternità, a meno che non sia innaturalmente sostenuta dalla sinistra, come sta avvenendo in queste settimane. Con una destra così, profondamente antieuropea, sarà molto difficile continuare a stare in Europa, tanto più se questa "nuova" destra italiana troverà il modo di allearsi con le altre destre nazionaliste europee, da quella francese a quella ungherese di Fidesz - che è già maggioranza di governo nel paese magiaro - e così via: con questi direttamente al governo o capaci di condizionare i governi di centrodestra la prospettiva europea è destinata a subire colpi mortali.
Questo voto amministrativo, oltre al dissolvimento della destra come l'abbiamo conosciuta fino ad ora, ha segnato la sostanziale tenuta del centrosinistra, che, con tutti i suoi innegabili problemi, è comunque al ballottaggio con uno dei suoi candidati in quasi tutte le città in cui si è votato. E, all'interno del centrosinistra, bisogna sottolineare il buon risultato del Pd, che rimane di gran lunga il primo partito di quello schieramento. Cosa penso del Pd lo sapete, l'ho scritto con chiarezza anche nell'ultima "considerazione". Comunque, al di là di ogni altra riflessione, il Pd è sopravvissuto al terremoto che ha colpito gli altri partiti. Bersani ha usato l'espressione "usato sicuro" e probabilmente in questo c'è una parte di verità. Il Pd è l'unico partito "vero", con una struttura - per quanto molto meno robusta di quella dei partiti di cui è erede - ed è presente in tutta Italia; inoltre il Pd gode di un residuo, ma non irrilevante, "voto di appartenenza", che ne permette la tenuta anche in momenti difficili come quello che stiamo vivendo. In questi anni si è fatto un gran parlare di partito "leggero", della necessità di superare il valore dell'iscrizione a favore del mito "fondante" delle primarie, eppure alla base della tenuta di questa tornata amministrativa, in cui si votava per le istituzioni più vicine ai cittadini, è servita anche la "vecchia" rete dei militanti. Mi è capitato di scriverlo in una "considerazione" di un paio d'anni fa: qui in Europa abbiamo enfatizzato il ruolo della rete per l'elezione di Obama alla Casa bianca, arrivando a definirlo come il primo presidente eletto grazie a internet, mentre una bella inchiesta del Time, a ridosso delle elezioni di quattro anni fa, metteva in luce la forza di una struttura capillare di militanti, che avevano svolto, con tenacia e con metodo, il porta a porta per far conoscere le proposte del candidato democratico. Hollande, dopo la vittoria al primo turno nelle presidenziali francesi, ha chiesto ai militanti socialisti di non abbassare la guardia e ha definito, insieme ai suoi collaboratori, un piano straordinario di porta a porta, per raggiungere il maggior numero di elettori. Per far crescere il consenso e per vincere è necessario anche questo lavoro, spesso sottovalutato, che, anche se in maniera sempre più debole e con sempre minor riconoscimento, i militanti del Pd sanno ancora fare, specialmente quando si tratta di condurre una campagna elettorale amministrativa. Naturalmente, anche chi come me - per vecchia deformazione "professionale" - ritiene importante l'organizzazione - come ho cercato di spiegare prima - sa bene che l'organizzazione non può mai supplire la politica. E sul territorio, al di là di alcuni problemi locali, esiste il centrosinistra fotografato a Vasto e che ha fatto arricciare il naso a tanti "capetti" del Pd. Come ho scritto lunedì, la sinistra esiste, anche in Italia. E soprattutto esiste un vasto e potenziale elettorato di sinistra. Servirebbe un partito che sia insieme democratico e socialista, capace di interpretare questo bisogno di sinistra. Su questo concludo con alcune frasi di Mauro Zani, che condivido pienamente.

Si sta rapidamente consumando il tempo delle mezze misure. Per essere coerentemente riformisti nel nostro tempo occorre prima compiere una netta scelta di campo. Occorre elaborare una propria, autonoma visione del mondo.
Sapendo che sull'onda degli avvenimenti europei e mondiali, si farà strada un'alternativa democratica globale, nonostante i pericoli pur incombenti di una deriva sociale verso le nuove forme della destra populista e fascista.
Succederà. Con o senza il Pd.

mercoledì 9 maggio 2012

"Acciambellato" di Mario Luzi


Acciambellato in quella sconcia stiva,
crivellato da quei colpi,
è lui, il capo di cinque governi,
punto fisso o stratega di almeno dieci altri,
la mente fina, il maestro
sottile
di metodica pazienza, esempio
vero di essa
anche spiritualmente: lui -
come negarlo? - quell’abbiosciato
sacco di già oscura carne

fuori da ogni possibile rispondenza
col suo passato
e con i suoi disegni, fuori atrocemente -
o ben dentro l’occhio
di una qualche silenziosa lungimiranza – quale?
non lascia tempo di avvistarla
la superinseguita gibigianna.

"E venne da noi un adolescente" di Peppino Impastato


E venne da noi un adolescente
dagli occhi trasparenti
e dalle labra carnose,
alla nostra giovinezza
consunta nel paese e nei bordelli.
Non disse una sola parola
nè fece gesto alcuno:
questo suo silenzio
e questa sua immobilità
hanno aperto una ferita mortale
nella nostra consunta giovinezza.
Nessuno ci vendicherà:
la nostra pena non ha testimoni.

martedì 8 maggio 2012

da "L'amore degli insorti" di Stefano Tassinari

Sono concetti diversi, lo so, e comportamenti talvolta opposti, ma a tenerli insieme c'è la stessa radice, lo stesso bisogno di sovvertire quell'ordine stabilito che, in egual misura, ci ha stretto le manette ai polsi e anche ai semplici pensieri. Io lo posso dire soltanto a queste pareti, ma se fossi libero di farlo lo farei, senza il timore di venire fulminato dagli sguardi, e circondato dal disprezzo di chi continua a credere che siamo stati noi a rovinare tutto. E che cosa significa, poi, "rovinare tutto"? Secondo loro avremmo dovuto partecipare a un grande gioco di simulazione, scrivendo "viale Lenin" al posto di "corso Traiano", e dopo tutti contenti a contare le fiches che abbiamo guadagnato? Oppure scendere in piazza, come facevamo, a gridare: «Dieci, cento, mille Vietnam!», e poi tornare a casa, la sera, a guardare la televisione? O riempire le strade di bandiere rosse con l'effigie del Che, studiare a fondo il suo libro La guerra di guerriglia, mandare soldi ai combattenti di mezzo mondo, cantare a squarciagola: «E allora lotta, lotta di lunga durata, lotta di popolo armata, lotta continua sarà» o, meglio ancora, «Stato e padrone, fate attenzione, nasce il partito dell'insurrezione… Agnelli, Pirelli, Restivo, Colombo, non più parole ma pioggia di piombo», e alla fine organizzare un cineforum con i film sul Terzo mondo, promuovere un dibattito sulla resistenza del popolo Saharawi o fare uno sciopero della fame contro il genocidio degli abitanti di Timor Est? Certo, c'è chi si è accontentato di questo, senza capire quanta distanza ci fosse tra quelle parole apprese o cantate e una pratica che non ha mai dato fastidio a nessuno. Io no, io non ce l'ho fatta a convivere con l'ipocrisia, a far risuonare le strade con un boato di sillabe ritmate e rimate, a gareggiare da un capo all'altro di un corteo a chi lanciava lo slogan più trucido, a gridare con l'espressione dura: «Per i compagni uccisi non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto!» o «Contro lo Stato della violenza, ora e sempre resistenza», e poi a dormire sonni tranquilli nel mio letto, immaginando gli scogli a picco delle mie prossime vacanze. Io no, io non ce l'ho fatta ad aspettare tempi migliori, a limare documenti fino al mattino per poi affermare soddisfatto: «Abbiamo spostato a sinistra l'asse del partito», a spendere le mie giornate per reclutare un militante in più mentre, intorno a noi, i piccoli fuochi diventavano incendi.
Allora ero convinto che non ci fossero alternative alla strada su cui mi stavo incamminando. Adesso so che qualcosa di diverso si poteva fare, a patto di sentirsi davvero dalla stessa parte. Tra me e Alba, per esempio, qual è la differenza? Che io ho preso le armi e lei no, ma io non ero più indignato di quanto non lo fosse lei. Dalla stessa matrice sono usciti due fogli diversi. È possibile? Sì, se tra un passaggio di colore e l'altro qualunque cosa, anche il più classico dei granelli di polvere, finisce dentro gli ingranaggi. Lei mi andava bene comunque, perché la sua passione non era inferiore alla mia. Ma tutti gli altri, tutti quelli che si sono riparati in una nicchia, spacciando la mancanza di coraggio per l'intelligente intuizione di rosicchiare il sistema dall'interno?
Basta, non ho voglia di fare altri commenti. Mi rode solo di essere il bersaglio immobile di una macchinazione, costretto a tacere e a vergognarmi un po’ ogni qual volta mi tocca di sciorinare le mie generalità fittizie, ripetendo a memoria: «Calvesi Paolo Emilio, nato a Roma il, residente a Bologna in, professione architetto, sposato, due figli, cittadino benestante in regola col fisco e con le leggi». Fino a prova contraria.
[...]
Nella visione li vedo muoversi a schiera, circondare interi edifici, sfasciare a colpi di piccone le porte di casa di persone ignare, mettersi in tasca tutto quello che trovano, a partire dai soldi, minacciare chiunque protesti e poi tornare in strada, sudati e orgogliosi, a urlare ai quattro venti che "la legge lo consente". E vero, la legge consentiva loro queste e altre nefandezze, come sequestrare i "sospetti" per tre giorni senza avvisare le famiglie e gli avvocati, blindare per anni la gente in una cella senza processarla, confinare su un'isola gli indesiderabili, riempire di microfoni migliaia di vite e puntare un mitra in faccia a chiunque avesse l'aria di non starci. Anche per questo ho preso in mano un’arma, solo che oggi nessuno si ricorda delle cause, ma solo degli effetti, in primo luogo i morti, sempre e soltanto i loro. E di quelli non ho pietà, se non di alcuni, uccisi per caso o per calcoli sbagliati. La gran parte era responsabile di qualcosa: di aver utilizzato le proprie conoscenze per fottere gli operai, di essere stati i promotori di centinaia di arresti illegali, di aver diretto partiti corrotti, organizzato le stragi di stato, preso ordini dagli americani, promosso e finanziato gruppi golpisti e coperto i traffici della mafia. Per non parlare dei cosiddetti pesci piccoli, che magari se la sono cavata a buon mercato, con un po' di spavento o qualche buco nelle gambe: speculatori immobiliari, caporali, pennivendoli, mandanti di stupri politici contro le operaie sindacalizzate, tutta gente che, in quell'Italia, non avrebbe mai fatto un solo giorno di galera. Gente di rispetto, amici degli amici, carrieristi massoni, riciclatori di denaro sporco... Tutti tranquilli, finché non siamo arrivati noi a farli vivere con la paura, a farli girare con la scorta, a farli passare, di colpo, dal ruolo di potenti e intoccabili a quello di deboli e vulnerabili. E se in mezzo a loro c'è finita qualche brava persona mi dispiace, ma in guerra è così, da sempre, e le guerre non le abbiamo inventate noi, casomai ce le hanno fatte subire.
Mi torna tutto su, di nuovo, e ogni volta che mi accade è come se il diaframma mi si bloccasse all'altezza del cuore, stringendo d'assedio il mio respiro e le mie emozioni. Capita ancor di più quando con la memoria sale anche la domanda che non riesco a tollerare, quell'imbarazzante "a cos'è servito?" dalla risposta scontata. A niente, hanno detto in tanti, voltando il viso dall'altra parte. A far marcire in galera migliaia di compagni, ha aggiunto qualcuno. A rafforzare il loro potere, ha chiosato qualcun altro, mentre per l'uomo della strada, le istituzioni, le televisioni, il sentire comune, il sentito dire, il politicamente corretto, i nuovi angeli della non violenza, i giudicanti e anche certi giudicati è stato tutto un generare lutti, seminare tempeste, aizzare odio, creare fratture insanabili e trascinare il paese nella barbarie, come se treni, stazioni e aerei saltati in aria fossero stati esempi di convivenza civile...

lunedì 7 maggio 2012

Considerazioni libere (283): a proposito di un turno di elezioni europee...

Domenica 6 maggio qualcosa è successo. Vedremo nei prossimi mesi se ci saranno conseguenze e, soprattutto, se saranno positive o negative. Per forza di cose, visto che scrivo subito dopo il voto, queste note sono frammentarie, sono spunti di riflessione più che una "considerazione" vera e propria; prendeteli come tali, con la consueta pazienza.
Primo spunto: l'Europa esiste. Non esiste uno spazio istituzionale comune - e le istituzioni che comunque ci sono appaiono estremamente deboli - c'è una propaganda molto ostile contro l'Europa di Maastricht, contro l'Europa dell'euro e delle autorità monetarie che in questi anni sono state le titolari di fatto di tutta la politica europea, e non esiste di converso una cultura europeista capace di "far sognare" come è avvenuto in altre stagioni; eppure ieri sera in tanti, in tutti i paesi europei, abbiamo aspettato l'esito delle elezioni francese, greca e tedesca, consapevoli che quei voti ci riguardano direttamente. L'Europa come entità politica ieri sera alle 20.00 aspettava i risultati delle elezioni francesi e guardava con apprensione ai primi dati che giungevano dalla Grecia: ormai, nonostante tutta la retorica patriottarda o localistica, abbiamo capito che c'è una dimensione europea con cui dobbiamo fare i conti; per l'Italia poi mi pare sia un'opportunità, visto il livello del dibattito politico "nostrano".
Secondo spunto: la sinistra esiste. Non so se si sta effettivamente aprendo una fase nuova, però la sinistra europea ha ricominciato a proporre un'analisi propria, non più presa a prestito dalla cultura dominante liberista. Ieri sera lo "spettro" ha battuto un colpo sul tavolino europeo. Per troppi anni l'unico orizzonte culturale è stato rappresentato dal mercato, dal mito della competitività, dall'idea che la finanza pubblica debba essere comunque vincolata - tanto che abbiamo perfino messo nelle nostre costituzioni il pareggio di bilancio, istituzionalizzando l'ultraliberismo; naturalmente questa cultura è ancora quella vincente, è quella largamente dominante, ma ieri sera, ascoltando il primo discorso "presidenziale" di Hollande, pur nell'inevitabile retorica di un'occasione come questa, abbiamo sentito alcune parole "nuove", come giustizia, uguaglianza, diritti. Nei prossimi mesi misureremo quanto questo cambio, anche lessicale, sarà effettivo. Adesso tutti parlano di crescita - perfino un ultraliberista come Monti, perfino il pavido Barroso, perfino i tedeschi - però al momento in cui comincerà la crescita occorre arrivarci vivi e non è detto che sarà così, come vediamo, già adesso, in modo drammatico in Grecia e come vedremo - molto presto purtroppo - anche in Italia. La crisi non è stata causata dall'aumento del debito pubblico - come cercano ogni giorno di convincerci - ma dal crollo del sistema finanziario privato, per una micidiale miscela di incapacità e di avidità; su questo bisogna intervenire. Hollande ha saputo dire con chiarezza che occorre regolamentare i mercati finanziari, cosa che finora è sempre stata un tabù, anche per molti esponenti di sinistra, e ha detto che occorre investire sullo stato; anche ieri sera ha ripetuto il suo impegno per aumentare il numero degli insegnanti nella scuola pubblica e questo è uno dei segnali più forti che ha saputo dare nel corso della sua campagna. Ieri ha perso in maniera nettissima il Pasok; sinceramente mi dispiace molto perché quel partito ha rappresentato qualcosa di importante per la storia recente della Grecia e per il ritorno di quel paese alla democrazia. Ma in Grecia è stata sconfitta la sinistra che ha perso l'anima, che ha rinunciato ai suoi valori fondanti; il dramma del Pasok non è quello di aver accettato una politica di sacrifici - i partiti di sinistra lo hanno saputo fare nei momenti più tragici della storia - né di aver accettato dei compromessi - anche questo è nel nostro dna - ma di aver abdicato culturalmente all'impostazione voluta dalle istituzioni finanziarie internazionali. Spero sinceramente che non accada lo stesso in Italia, perché - anche se io non sostengo il Pd - penso che l'alternativa nel nostro paese sarà impossibile senza il Pd. La sinistra in Italia ha bisogno del Pd, anche se di un Pd diverso da quello che c'è ora; mi auguro che il Pd cambi e non che muoia, come sta avvenendo al Pasok. Fate attenzione però, amici e compagni del Pd: l'abbraccio con la destra, anche quella rispettabile di Monti e Casini, è mortale.
Terzo spunto: le istituzioni sono importanti ed è importante che siano forti e condivise. Hollande ha vinto - e ha potuto vincere - perché la gara si è svolta con regole che hanno reso possibile quel risultato: senza il meccanismo del doppio turno probabilmente l'esito delle elezioni sarebbe stato diverso, più incerto, senza la garanzia che fosse così netto, già a partire dalla serata di ieri. So bene che quando si devono ridefinire le regole istituzionali di un paese non basta presentare le proprie e aspettare che vengano accolte dagli altri: bisogna saper accettare delle mediazioni affinché si possa giungere a una proposta condivisa. Ma perché in Italia la sinistra ha abbandonato così presto la proposta di riformare la legge elettorale seguendo lo schema del doppio turno francese? Mi pare che il Pd abbia proposto altri schemi perché sostanzialmente i suoi leaders immaginavano di poter rappresentare tutto il campo del centrosinistra e quindi che fosse più funzionale per il nuovo partito una legge elettorale di tipo maggioritario. Visto che - per me fortunatamente, per altri forse no - non è così e c'è una sinistra che, seppur confusamente, vive fuori dal Pd, che non ha rappresentanza, che emerge e scompare in maniera carsica: queste donne e questi uomini debbono avere una qualche prospettiva, che non sia quella di rifugiarsi in un'antipolitica piuttosto sterile. In Francia il Front de gauche ha svolto questa funzione, incidendo anche sulla politica di Hollande e dei socialisti. Capisco Bersani quando dice che in fondo il voto di Hollande, che va da Mélanchon a Bayrou, rappresenta un po' la grande coalizione che il Pd vorrebbe fare in Italia, in chiave repubblicana contro la destra populista; un po' bara, perché Hollande è centrale nella sua coalizione, non rifiutando la sua matrice socialista, mentre Bersani è stato costretto a farlo, ponendosi inevitabilmente in una condizione di subalternità culturale prima che politica.
Quarto spunto: c'è un pericolo all'orizzonte. Pur in un quadro istituzionale forte come quello francese, il Front national ha avuto il risultato che ha avuto e su cui ho già avuto l'opportunità di soffermarmi in un'altra "considerazione". Nel parlamento greco sarà rappresentato un partito di stampo nazista, che ha nella violenza, in particolare contro i diversi, la sua ragion d'essere. C'è motivo di temere questi fatti, tanto più che c'è una destra istituzionale, che per convenienza, sembra voler aprire un dialogo con questi partiti. Movimenti di tipo fascista si trovano in molti paesi europei, in alcuni di essi sono e sono stati determinanti per sostenere il governo di centrodestra - ad esempio in Olanda - in Ungheria un partito nazionalista, con forti caratteri fascisti, è addirittura il partito di maggioranza e ha modificato la carta costituzionale. C'è una risposta della destra estrema e xenofoba alla crisi. E anche per questo la sinistra deve trovare in fretta le proprie risposte. E arrivo all'ultimo punto.
Quinto spunto - e quello che in questo momento mi sembra più importante: siamo di fronte a un'opportunità e a un rischio. Nessuno ha la sfera di cristallo e chiunque faccia in questi momenti delle ipotesi rischia di essere smentito nel giro di qualche mese; premesso questo, voglio però fare una riflessione. La vittoria di Hollande potrebbe aprire un ciclo favorevole alla sinistra europea; d'altra parte i conservatori europei sono stati i maggiori - anche se non gli unici - responsabili di questa crisi ed è quindi naturale che ne paghino le conseguenze. Se anche si aprisse questa fase, ad esempio con la vittoria della Spd alle prossime elezioni politiche in Germania e la nascita di una coalizione di centrosinistra anche in quel paese, saremmo davvero in una fase molto diversa da quella attuale. In Europa abbiamo di recente vissuto un periodo in cui i rappresentanti del socialismo europeo erano al governo in quasi tutti i principali paesi dell'Unione, eppure di quel momento storico è rimasto molto poco: si disse allora che si trattava di un riformismo senza popolo, destinato quindi a tagliare il ramo su cui si era arrampicato. Non voglio tornare a quegli anni ed a un'analisi che richiederebbe più tempo. La sinistra europea non può ripetere quell'errore: ci sono milioni di europei che non hanno lavoro, giovani che non hanno prospettive, persone che vedono sgretolarsi conquiste del welfare ormai date per certe, come il sistema pensionistico, donne che non riescono più ad entrare nel mercato produttivo, in generale c'è una generazione intera che sa che vivrà peggio di come sono vissuti i loro genitori: è una novità inaudita per l'Europa. Nei giorni scorsi a Praga c'è stata una manifestazione enorme, la più grande dai tempi dell'89 e della cosiddetta "rivoluzione di velluto" per protestare contro le scelte liberiste del governo ceco. In Spagna c'è un movimento, forse un po' confuso, ma comunque vitale, che non esprime soltanto indignazione, ma anche una critica radicale al sistema capitalistico come lo abbiamo conosciuto fino ad ora. In Italia c'è il movimento che ruota attorno al tema dei beni comuni e che si è espresso con una grande maggioranza in occasione dei referendum sull'acqua. In Francia c'è la maggioranza che ha scelto Hollande: ammetto che non sia tutta sinistra, che ci sia anche un pezzo di "antisarkozismo" - concedetemi la brutta parola - ma comunque c'è un popolo che guarda con speranza alla sinistra. In tutta Europa durante le manifestazioni per il Primo maggio sono risuonati slogan e parole d'ordine importanti e significative. C'è un possibile risveglio, ma se queste speranze fossero deluse ancora una volta, ci sarebbero spinte difficili da governare, perché la miseria è una molla potente, che fa dimenticare molti valori positivi, a volte anche la solidarietà di classe. Se la sinistra fallisce, c'è una soluzione facile, sempre a portata di mano: è quella di incolpare della nostra povertà quelli che sono ancora più poveri, la continua lotta tra gli ultimi e i penultimi di cui si sono sempre avvantaggiate le classi dominanti. Se leggete certe notizie di cronaca in Italia c'è un humus sempre pronto a essere attivato. Si aprirebbe allora per l'Europa un buco nero. Chi si è assunto l'onere di guidare la sinistra spero abbia ben presente questo dramma e la necessità di dare una risposta positiva e noi che a sinistra militiamo, con tutte le nostre confusioni, i nostri velleitarismi, sia quelli di noi che sono nei partiti sia quelli - come me - che ne sono fuori, dobbiamo sentire la stessa responsabilità. Non sarà sufficiente la ricetta di Hollande per guarire il malato, servirà anche un nostro impegno più diretto, più fattivo, più vivo.

p.s. Scrivo mentre arrivano i dati delle amministrative italiane. Mi pare che il primo dato che balza all'occhio è che c'è di nuovo una grande mobilità nel voto. Ci sono milioni di voti a disposizione, di cui a questo giro hanno approfittato più singoli politici, da Orlando a Tosi, da Doria ai candidati grillini, più che i vari partiti; non bisogna rassegnarsi al pensiero che questo paese sia naturalmente di destra e quindi si possa vincere solo attraverso degli escamotage. Ma su questo penso tornerò.

sabato 5 maggio 2012

"Mistero per la strada" di Tomas Tranströmer


Si posò la luce del giorno sul viso di un uomo addormentato.
Gli giunse un sogno più vivido
ma non si svegliò.

Si posò l’oscurità sul viso di un uomo in cammino
tra la gente nei raggi di sole
forti e impazienti.

D’un tratto si fece buio come per il temporale.
Io ero in una stanza che conteneva tutti gli istanti -
un museo di farfalle.

Tuttavia il sole era forte come prima.
I suoi pennelli impazienti dipingevano il mondo.

mercoledì 2 maggio 2012

"I nomi delle strade" di Nino Pedretti


Le strade sono
tutte di Mazzini, di Garibaldi,
son dei papi,
di quelli che scrivono,
che dan dei comandi, che fan la guerra.
E mai che ti capiti di vedere
via di uno che faceva i berretti
via di uno che stava sotto un ciliegio
via di uno che non ha fatto niente
perché andava a spasso
sopra una cavalla.
E pensare che il mondo
è fatto di gente come me
che mangia il radicchio
alla finestra
contenta di stare, d’estate,
a piedi nudi.

martedì 1 maggio 2012

"L'avventura di due sposi" di Italo Calvino

L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei. Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po’ prima alle volte un po’ dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide.
Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, il sonno compatto della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per qualche secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo e già infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli occhi. Gli appariva così, in cucina, dove Arturo stava tirando fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos, e li posava sull’acquaio. Aveva già acceso il fornello e aveva messo su il caffè. Appena lui la guardava, a Elide veniva da passarsi una mano sui capelli, da spalancare a forza gli occhi, come se ogni volta si vergognasse un po’ di questa prima immagine che il marito aveva di lei entrando in casa, sempre così in disordine, con la faccia mezz’addormentata.
Quando due hanno dormito insieme è un’altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari. Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè, un minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la smorfia per uscire dal sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le braccia che s’alzavano per stirarsi, nude, finivano per cingere il collo di lui. S’abbracciavano. Arturo aveva indosso il giaccone impermeabile; a sentirselo vicino lei capiva il tempo che faceva: se pioveva o faceva nebbia o c’era neve a secondo di com’era umido e freddo. Ma gli diceva lo stesso: – Che tempo fa? – e lui attaccava il suo solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli inconvenienti che gli erano occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo trovato uscendo di fabbrica, diverso da quello di quando c’era entrato la sera prima, e le grane sul lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via.
A quell’ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s’era tutta spogliata, un po’ rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva lui, più con calma, si spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la polvere e l’unto dell’officina. Così stando tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzo nudi, un po’ intirizziti, ogni tanto dandosi delle spinte, togliendosi di mano il sapone, il dentifricio, e continuando a dire le cose che avevano da dirsi, veniva il momento della confidenza, e alle volte, magari aiutandosi a vicenda a strofinarsi la schiena, s’insinuava una carezza, e si trovavano abbracciati.
Ma tutt’a un tratto Elide: – Dio! Che ora è già! – e correva a infilarsi il reggicalze, la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e sporgeva il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro, aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un po’ impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava il cappotto nel corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e già la si sentiva correre giù per le scale.
Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e quando non la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona che saliva. “Ecco, l’ha preso”, pensava, e vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla d’operai e operaie sull’“undici”, che la portava in fabbrica come tutti i giorni. Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra, faceva buio, entrava in letto.
Il letto era come l’aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo, era quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte, per bene, ma dopo allungava una gamba in là, dov’era rimasto il calore di sua moglie, poi ci allungava anche l’altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla parte di Elide, in quella nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di lei, e affondava il viso nel suo guanciale, nel suo profumo, e s’addormentava.
Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po’ girava per le stanze: aveva acceso la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori li faceva lui, in quelle ore prima di cena, come rifare il letto, spazzare un po’, anche mettere a bagno la roba da lavare. Elide poi trovava tutto malfatto, ma lui a dir la verità non ci metteva nessun impegno in più: quello che lui faceva era solo una specie di rituale per aspettare lei, quasi un venirle incontro pur restando tra le pareti di casa, mentre fuori s’accendevano le luci e lei passava per le botteghe in mezzo a quell’animazione fuori tempo dei quartieri dove ci sono tante donne che fanno la spesa alla sera.
Alla fine sentiva il passo per la scala, tutto diverso da quello della mattina, adesso appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e carica della spesa. Arturo usciva sul pianerottolo, le prendeva di mano la sporta, entravano parlando. Lei si buttava su una sedia in cucina, senza togliersi il cappotto, intanto che lui levava la roba dalla sporta. Poi: – Su, diamoci un addrizzo, – lei diceva, e s’alzava, si toglieva il cappotto, si metteva in veste da casa. Cominciavano a preparare da mangiare: cena per tutt’e due, poi la merenda che si portava lui in fabbrica per l’intervallo dell’una di notte, la colazione che doveva portarsi in fabbrica lei l’indomani, e quella da lasciare pronta per quando lui l’indomani si sarebbe svegliato.
Lei un po’ sfaccendava un po’ si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa doveva fare. Lui invece era l’ora in cui era riposato, si dava attorno, anzi voleva far tutto lui, ma sempre un po’ distratto, con la testa già ad altro. In quei momenti lì, alle volte arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche parola brutta, perché lei lo avrebbe voluto più attento a quello che faceva, che ci mettesse più impegno, oppure che fosse più attaccato a lei, le stesse più vicino, le desse più consolazione. Invece lui, dopo il primo entusiasmo perché lei era tornata, stava già con la testa fuori di casa, fissato nel pensiero di far presto perché doveva andare.
Apparecchiata tavola, messa tutta la roba pronta a portata di mano per non doversi più alzare, allora c’era il momento dello struggimento che li pigliava tutti e due d’avere così poco tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il cucchiaio alla bocca, dalla voglia che avevano di star lì a tenersi per mano. Ma non era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a vedere se ogni cosa era in ordine. S’abbracciavano. Arturo sembrava che solo allora capisse com’era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava sulla spalla la canna della bici e scendeva attento le scale.
Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto il marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già dopo il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui, ma ogni volta s’accorgeva che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza.