Melezio lavorava alla Grande Biblioteca ormai da vent'anni. Era stato assunto da Pansemne, che aveva diretto per quasi mezzo secolo la sezione dedicata alla filosofia e che, poco prima di congedarsi dall'istituzione a cui aveva dedicato gran parte della vita, aveva voluto assumere dei giovani in grado di continuare il suo lavoro. Purtroppo Agenore, che aveva sostituito Pansemne, non teneva in alcuna considerazione i collaboratori del precedente direttore, che uno dopo l'altro avevano preferito chiedere il trasferimento in qualche altra sezione. Melezio non chiese di essere trasferito, perché voleva continuare a studiare i suoi amati filosofi, anche se Agenore gli rendeva ogni giorno la vita più difficile. Per prima cosa gli cambiò incarico: Melezio era stato assunto per occuparsi delle edizioni dei primi sofisti - Protagora e Gorgia, in particolare - eppure gli ordinò, senza nemmeno consultarlo, di preparare le edizioni di alcuni sconosciuti filosofi della scuola stoica, discepoli minori di Crisippo. Poi gli negò la promozione a vice sovrintendente - con la relativa gratifica economica - che pure gli sarebbe spettata per anzianità di servizio, per premiare un suo pupillo, tal Nectario, che era entrato in Biblioteca soltanto perché suo zio era il direttore della sezione tragici e compagno di caccia di Agenore. Melezio si curava poco di quello che succedeva ormai ad Alessandria: continui colpi di stato, intrighi di corte, tradimenti e inganni all'interno della dinastia e tra gli alti funzionari del palazzo reale. E anche nella Biblioteca e nel Museo le cose non andavano meglio: le nomine e le promozioni riflettevano sempre più le beghe politiche e sempre meno le conoscenze e le competenze dei diversi studiosi. Melezio trascorreva tutti i giorni nella Biblioteca, anche quando aveva finito il suo turno di servizio, non partecipava a feste, incontri politici, non aveva nessuno che lo raccomandasse e quindi era finito per diventare lo zimbello dei bibliotecari più giovani, che stavano facendo rapidamente carriera.
Nonostante Melezio amasse molto il suo lavoro, gli pesava dover continuare ad occuparsi di quegli oscuri autori, di cui non condivideva il pensiero e le cui opere rimanevano a raccogliere la polvere sugli scaffali. Non vedeva l'ora di terminare il proprio turno e il proprio lavoro - a cui pure dedicava ogni energia - per poter tornare nella sezione dedicata a raccogliere le opere dei sofisti e continuare a studiare i testi di Protagora. Per sua fortuna, Crescle, il giovane a cui Agenore aveva affidato il compito di completare l'edizione critica del sofista di Abdera, era uno sfaccendato che amava passare più tempo nelle taverne che tra gli scaffali della Biblioteca e così Melezio era riuscito a fare un patto con lui. All'insaputa di Agenore, Melezio avrebbe continuato a lavorare sull'edizione critica delle opere di Protagora, che il giovane Crescle avrebbe poi fatto passare come curate da lui.
Erano anni ormai che le cose andavano avanti in questo modo. Melezio continuava il suo lavoro segreto e Crescle riceveva le lodi degli studiosi per le edizioni critiche protagoree, tanto da ottenere la nomina a vicedirettore della sezione filosofi. Anche con Eufemio, che aveva preso il posto di Crescle, Melezio potè continuare indisturbato il suo lavoro, all'oscuro di tutti. Purtroppo un giorno di primavera un carro lo investì mentre tornava a casa per cenare e dormire; si ruppe una gamba e fu costretto a rimanere a casa. Non era un grave danno per le edizioni degli stoici minori, che tanto nessuno consultava e che quindi potevano essere tranquillamente completate in un secondo tempo, ma nell'ambiente culturale alessandrino c'era una certa attesa per l'edizione critica della più importante opera di Protagora, Aletheia, con cui si sarebbe concluso il corpus delle edizioni del sofista di Abdera. Eufemio non sapeva come fare, temeva che a quel punto l'inganno venisse svelato e anche Crescle aveva la stessa preoccupazione; i due decisero quindi di chiedere a Melezio di continuare a casa il suo lavoro. Sarebbe stato però necessario far uscire dalla Biblioteca alcuni rotoli, quelli su cui il bibliotecario stava segretamente lavorando: era vietato far uscire dei rotoli dalla Biblioteca, ma Crescle e il suo successore decisero di correre il rischio. Una notte presero i rotoli e andarono a casa di Melezio pregandolo di continuare il suo lavoro; lui naturalmente accettò: quell'edizione critica di Protagora era ormai la cosa più importante della sua vita e voleva terminarla a ogni costo, anche se era necessario trasgredire una delle regole fondamentali della Biblioteca.
Melezio continuava a lavorare con sollecitudine, nonostante il dolore alla gamba, che non accennava a diminuire. Era completamente immerso nel suo lavoro e non notò neppure che da almeno cinque giorni né Crescle né Eufemio erano andati a controllare che il suo lavoro procedesse, come avevano fatto regolarmente fino ad allora. Delle poche necessità di Melezio si occupava una vecchia serva, che era già stata schiava della sua famiglia e che lo aveva visto crescere. La donna però era muta e quindi non potè spiegare a Melezio che da alcuni giorni ad Alessandria c'era una grande tensione. C'erano soldati romani dappertutto e si diceva che fosse in città anche il loro re - o come chiamava quel popolo il loro capo - e c'era anche un gran movimento tra i soldati egizi. La vecchia Zoe aveva sentito dire al mercato che il re dei romani si era sposato in segreto con la loro regina e che per questo il fratello di lei stava armando un grande esercito contro i due amanti. In quei giorni era sempre più difficile trovare al mercato qualcosa da mangiare, anche se a loro due bastava davvero poco.
Quella mattina c'era tanto rumore che anche Melezio fu costretto a interrompere il suo lavoro per capire cosa stava succedendo. I soldati correvano da ogni parte, le persone si barricavano in casa, Melezio dalla piccola finestra della sua camera vide che si alzavano nuvole di fumo da molti punti della grande città. Passarono un paio di giorni prima che il silenzio e una relativa calma tornassero ad Alessandria e in quei due giorni Melezio completò finalmente il suo lavoro. Il bibliotecario, che intanto si era ripreso e aveva ricominciato a camminare, decise di uscire per sapere cosa fosse successo. I soldati presidiavano le strade; Melezio seppe che erano le truppe del fratello della regina, che avevano vinto la battaglia, ma la regina e il romano non erano stati del tutto sconfitti, rimanevano asserragliati nel palazzo, in attesa di rinforzi. C'erano macerie ovunque, specialmente attorno al palazzo reale. Melezio fu fermato più volte dalle ronde, spiegò che doveva andare alla Biblioteca, che doveva tornare al lavoro. I soldati lo ricacciarono indietro, nonostante camminasse a fatica, sorretto dal bastone: "Un lavoro non l'hai più, vecchio, la biblioteca è bruciata". Melezio allora si rese conto che proprio dove c'era la Biblioteca si alzava quella nuvola di fumo più densa, che aveva notato fin da quando era uscito.
Tornò a casa, stremato, si gettò a sedere sullo sgabello davanti al tavolo su cui c'erano tutte le sue carte e si rese conto all'improvviso di avere in quella stanza l'unica opera scampata dalle fiamme che avevano distrutto la Grande Biblioteca: l'Aletheia di Protagora. E subito capì che quei rotoli non avrebbero dovuto essere lì, non sarebbero mai dovuti uscire dalle stanze della Biblioteca, così come prescrivevano le leggi fin dai tempi del secondo Tolomeo e di Zenodoto. Ora però, distrutta la Grande Biblioteca, non c'era più modo per riparare a quel delitto.
Il giorno dopo Melezio prese i rotoli e decise di andare a confessare il furto, non avrebbe coinvolto Crescle ed Eufemio, ma avrebbe riconsegnato l'opera, denunciando di averla presa a casa per continuare i suoi studi; sperava che le autorità sarebbero state clementi. Decise di andare alla sede del governatore, dove aveva saputo c'era il quartier generale del nuovo re. Al palazzo del governatore c'era una confusione indescrivibile. Fece anticamera per ore, spiegò che doveva denunciare un furto, si ritrovò in mezzo a una folla che si lamentava di aver perso il bestiame e le mercanzie, e quando finalmente riuscì a parlare con un funzionario, questi gli chiese cosa gli avessero rubato. Melezio, intimorito, cominciò a dire: "A me non hanno rubato nulla..." e farfugliò qualcosa a proposito di rotoli della Biblioteca; non fece neppure in tempo a proseguire, il funzionario lo cacciò via, dicendo che in quell'ufficio si doveva andare soltanto per fare una denuncia di furto e non per altre questioni. Andò anche i due giorni successivi, ma nessuno sembrava preposto a ricevere la sua confessione. Il quarto giorno quando arrivò al palazzo del governatore trovò tutti gli ingressi sbarrati; solo due giovani reclute a controllare le porte chiuse. Seppe che stavano arrivando i rinforzi da Roma. Ci fu una nuova battaglia, vi furono nuovi incendi, ancora una volta fu impossibile trovare del cibo al mercato; ma Melezio continuava a pensare al modo di espiare la sua colpa. Questa volta vinsero il romano e la regina, le truppe del fratello furono cacciate da Alessandria. Melezio decise di scriverle una supplica, denunciando la propria colpa e chiedendole di poterle affidare l'unica copia dell'opera di Protagora, magari come prima pietra della nuova, rinata, Biblioteca. Il bibliotecario mise tutto il suo impegno e tutte le sue capacità retoriche per scrivere questa lettera, che avrebbe finalmente messo fine ai suoi tormenti. Passarono mesi, Melezio si aspettava che da un momento all'altro arrivassero i soldati mandati dalla regina per arrestarlo e per prendere in carico la preziosa opera di Protagora, ma non succedeva nulla. Seppe anche che la regina era partita per Roma, per raggiungere il suo sposo, che nel frattempo aveva sconfitto altri nemici, pensò che forse aveva portato con sé anche la sua supplica.
In quei mesi, Melezio aveva cominciato a insegnare ai bambini del suo quartiere a leggere e a scrivere. Da giovane, prima di entrare nella Biblioteca, aveva già fatto il maestro, per pagarsi gli studi; ora era stato costretto a ricominciare, per poter sopravvivere e per assicurare almeno un pasto al giorno per sé e per la povera Zoe. Il vecchio Trasibulo, il commerciante di pellame che viveva in fondo alla strada, aveva un'unica figlia, che quindi sarebbe stata destinata a ereditare la sua attività; anche per questo voleva che imparasse a leggere e a scrivere e la mandò a scuola da Melezio. Aulampia era una ragazzina molto intelligente, che imparava in fretta; il maestro e la sua allieva lasciarono presto le favole di Esopo per passare ai poemi omerici e alle tragedie di Sofocle. La ragazza era curiosa, voleva sapere cosa Melezio aveva fatto nella Grande Biblioteca e volle che il suo maestro cominciasse a insegnarle anche la filosofia. Per Melezio era una gioia poter insegnare di nuovo, poter ancora una volta spiegare le diverse teorie sul mondo, sull'uomo, confrontarsi con un'intelligenza così viva come quella della sua giovane allieva. Un giorno le mostrò anche l'opera di Protagora, ma non ebbe il coraggio di raccontarle tutta la storia.
Passarono poco più di due anni. La regina tornò ad Alessandria, si diceva che il capo dei romani fosse stato ucciso in una congiura di palazzo: in fondo Roma non era poi così diversa da Alessandria. La regina ordinò ai suoi segretari di leggere le suppliche che erano arrivate in tutti quei mesi. Probabilmente la lettera di Melezio sarebbe stata gettata - in fondo si parlava soltanto di un vecchio libro rubato - ma il caso volle che fu letta da un giovane segretario che aveva studiato filosofia e si incuriosì del fatto che ad Alessandria, a casa di uno sconosciuto bibliotecario, ci fosse ancora una copia dell'Aletheia di Protagora, un'opera che si pensava ormai perduta. Decise così di far visita a Melezio. Il vecchio bibliotecario davvero non si aspettava più quella visita. Il segretario gli chiese dove fosse quell'unica copia dell'opera di Protagora e il bibliotecario compì a causa di quell'opera un nuovo delitto; non ci pensò e così, in maniera assolutamente naturale, mentì: "Purtroppo alcuni mesi fa ho subito un furto, sono entrati dei ladri e mi hanno rubato ogni cosa, compreso quei rotoli. Temo che ormai li avranno distrutti, quando si saranno resi conto che per loro non avevano nessun valore". Il segretario della regina se ne andò, deluso. Sperava davvero di poter recuperare quell'opera preziosa, ma si rese conto che in quei tempi difficili lo scritto di un filosofo non poteva avere nessun valore e presto si convinse che i ladri lo avevano ormai distrutto.
Aulampia conservò sempre con cura i rotoli che il suo maestro le aveva regalato in occasione delle nozze e su quel testo insegnò a leggere ai propri figli. E insegnò loro il valore della filosofia.
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