giovedì 31 marzo 2011

Considerazioni libere (217): a proposito del mondo che cambia...

Dopo giornate come quelle di ieri e di oggi, credo sia sempre più indispensabile cercare di sviluppare gli anticorpi contro la cattiva politica. Per questo motivo non voglio commentare né lo spettacolo messo in scena dalla maggioranza tra Roma e Lampedusa, con contorno di frasi razziste contro immigrati e portatori di handicap, né il mortificante e avvilente silenzio della sinistra, che non riesce a dire una parola su quello che succede nel mondo. Anche nei suoi ultimi interventi mi sembra evidente lo sconforto e lo sgomento del presidente Napolitano, che è un uomo di altri tempi, con una certa idea e un grande rispetto delle istituzioni ed è un intellettuale che ha vissuto l'esperienza del Pci. Si dice che la moneta buona scaccia quella cattiva e allora proviamo a fare un'azione di resistenza: parliamo di politica, di quello che dovrebbe essere e non di quello che è. Io ci voglio provare, nel mio piccolo.
Non è insolito che un poeta riesca a capire meglio di altri - anche meglio dei filosofi, che dovrebbero capire, per definizione - quello che succede nel mondo. Guardando le immagini dei telegiornali, a cui - per nostra igiene mentale - dovremmo cominciare a togliere l'audio, mi sono venuti in mente due versi della canzone La storia di Francesco De Gregori
Quelli che hanno letto milioni di libri
e quelli che non sanno nemmeno parlare,
ed è per questo che la storia dà i brividi,
perchè nessuno la può fermare.

Ci sono momenti in cui davvero la storia mette i brividi. L'ho già scritto in altre "considerazioni", ma voglio ribadirlo ancora una volta: io ho sentito questi brividi della storia nell'89. Forse non è inutile ricordare che anche allora, pur se tutti i governi occidentali nelle dichiarazioni ufficiali enfatizzavano l'eccezionalità di quegli eventi, non pochi, nelle segrete stanze, erano preoccupati per un rivolgimento i cui esiti non erano prevedibili. Né Margaret Thatcher né Fran
çois Mitterand, che pure incarnavano politicamente ed ideologicamente modelli ben diversi, erano ugualmente preoccupati della riunificazione tedesca. Gran Bretagna e Francia fecero allora la parte in commedia svolta nell'attuale frangente dalla Germania di Angela Merkel. La riunificazione tedesca, ossia l'evento più importante e significativo della storia europea della fine del secolo scorso, è figlia prima di tutto dello slancio, dell'entusiasmo, - direi perfino dell'incoscienza - dei tedeschi, un popolo che siamo più abituati a pensare come pragmatico e attento ai propri interessi (non è un caso che Realpolitik sia una delle poche parole tedesche entrate nel lessico delle altre lingue europee). Ora la Germania è una sola appunto per la passione dei tedeschi guidati da Helmut Kohl e per l'appoggio convinto e senza tentennamenti di George Bush padre (se è vero che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, deve valere anche il contrario, per riabilitare quel saggio presidente, padre di un presidente molto meno saggio), non certo per il sostegno europeo.
Ai pessimisti, che dicono che dobbiamo fare attenzione agli esiti della cosiddetta "primavera araba", a quelli che pontificano sui rischi delle strade nuove, timorosi di abbandonare le vecchie e conosciute, voglio dire che certamente nell'89 avevamo in tanti molte speranze che sono andate deluse. Gli esiti sono stati molto diversi, da paese a paese: sono nate democrazie mature, come quelle polacca, quella ungherese, quella ceca, ma sono anche sorte dittature molto dure, come quella di Lukasenko in Bielorussia - personaggio molto stimato da Gheddafi e da Berlusconi, per dire - e regimi autoritari, come in Russia. Nell'89 ci aspettavamo che in ogni paese ci fosse un Havel, ma ci siamo ritrovati anche i Putin. Alcuni paesi si sono divisi in maniera consensuale, come la Repubblica ceca e la Slovacchia, mentre nei Balcani abbiamo assistito a conflitti sanguinosi, tra il cinismo e l'indifferenza dell'Europa. Srebrenica è una pagina buia della nostra storia, quanto la caduta del muro di Berlino è luminosa. Nonostante tutto, dopo vent'anni, osservando un cartina dell'Europa o guardando alla composizione del Parlamento europeo, credo che nessuno potrebbe rimpiangere l'ordine precedente all'89.
Allo stesso modo, anche in questo caso nonostante gli enormi problemi che ancora ci sono in America latina - e che io cerco di raccontare in questo blog - nessuno può rimpiangere l'ordine delle dittature militari sostenute dagli Stati Uniti. Ci sono regimi corrotti, ci sono i regimi autoritari di Chavez e dei Castro, ma in Brasile, in Argentina e in Cile ci sono democrazie ormai solide, che tra l'altro hanno portato alla presidenza in ciascuno di questi paesi delle donne, un traguardo che in diversi paesi europei siamo lontani dal raggiungere.
Anche i più entusiasti e i più utopisti di noi sanno che gli esiti delle rivolte di queste settimane non saranno uguali in tutti i paesi, sono troppo diverse le condizioni di partenza da stato a stato; in alcuni paesi è perfino azzardato parlare di stato in senso moderno. Ci saranno conflitti, nasceranno nuovi regimi autoritari, forse ci saranno anche dittature peggiori di quelle che sono state abbattute e di quelle che speriamo lo siano il prima possibile. Qualcosa però è successo e qualcosa succederà: nel 2011 ci saranno le elezioni politiche in 19 stati africani e il vento di libertà e di democrazia che soffia dal nord non potrà non avere conseguenze. Bisogna lavorare affinché tra 20 o 30 anni l'Africa non sia la stessa di oggi: è difficile, ma non impossibile.
E poi, se la politica smette di nutrirsi di sogni, ha perso parte del suo valore.

domenica 27 marzo 2011

da "Centuria" di Giorgio Manganelli

Ventotto

Eccitato da un inconsueto e assurdo disegno di nuvole all'alba, l'Imperatore giunse in Cornovaglia; ma il viaggio era stato così laborioso, così tortuoso ed erroneo, che egli aveva un ricordo assai impreciso del luogo da cui era partito. Era partito con tre scudieri e un uomo di fatica; il primo scudiero era fuggito con una zingara, dopo una disperata discussione con l'Imperatore durante una notte fitta di fulmini; il secondo scudiero s'era innamorato della peste, e per nessun motivo volle abbandonare un villaggio devastato dalla moria; il terzo scudiero s'era arruolato nelle truppe dell'imperatore successivo, e aveva cercato di assassinarlo; l'Imperatore era stato costretto a considerarlo condannato a morte, e finse di eseguire la sentenza tagliandogli il collo con il dito mignolo; poi entrambi risero, e si salutarono. L'uomo di fatica rimase con l'Imperatore. Erano tutt'e due silenziosi, malinconici, consapevoli di perseguire un obiettivo non tanto improbabile quanto irrilevante, avevano idee metafisiche assai imprecise, e quando incontravano un tempio, una chiesa, un santuario, non entravano, giacché, per motivi diversi, erano certi di incontrarvi solo menzogna, equivoci, disinformazione. Quando furono arrivati in Cornovaglia, l'Imperatore non negò il suo disagio: non capiva la lingua, non sapeva che fare, le sue monete venivano esaminate con cura sospetta da villani diffidenti. Voleva scrivere a Palazzo, ma non ricordava l'indirizzo; un Imperatore è l'unico che può, o deve ignorare il proprio indirizzo. L'uomo di fatica non aveva problemi, stare con l'Imperatore disorientato era l'unico modo per conoscere l'orientamento. Col passare del tempo, la Cornovaglia si aperse al traffico dei mercanti e dei turisti: e un professore di storia di Samarcanda (Ohio) riconobbe il profilo dell'Imperatore, che ormai passava le sue giornate al pub, servito dal suo taciturno uomo di fatica. La voce che l'Imperatore era in Cornovaglia si diffuse rapidamente, e sebbene nessuno sapesse né che mai fosse un Imperatore né di quale parte del mondo, la cosa lusingò gli indigeni. La birra gli venne passata gratis. Il villaggio che lo ospitava inserì una sua moneta nello stemma. L'uomo di fatica ebbe un generico titolo nobiliare, e l'Imperatore, che ormai parla un poco la lingua del luogo, sposerà tra qualche giorno la bella figlia di un guerriero depresso, ora ha l'orologio e mangia pasticcio di mele; dicono che alle prossime elezioni sarà candidato liberale, e perderà con onore.

venerdì 25 marzo 2011

"Dio mio" di Juan Vicente Piqueras


E' un dio che non dorme
e si affaccia agli occhi
del prigioniero e della sua sentinella.
E' un dio che ci vede a occhi chiusi,
una palpebra d'aria, l'altra di acqua,
e non crede in noi.
E' un dio letterario
scritto giorno dopo giorno dalla sete,
la sconfitta e la voglia
di fuggire, inutilmente sempre,
dall'io e dalla sua spietata tirannia.

L'orizzonte, madre degli orfani,
dio dei miscredenti.

Considerazioni libere (216): a proposito di latte e di mercato...

La premessa è d'obbligo e più di ogni altra volta giustificata e necessaria: non sono un esperto né di economia né di politiche industriali e quindi questa "considerazione" rischia di essere banale e poco interessante, ma c'è una domanda che mi ronza in testa da alcuni giorni e voglio parlarne con voi. La domanda è questa: perché dobbiamo essere preoccupati del fatto che la francese Lactalis sta per acquistare l'italiana Parmalat?
La questione non è oziosa, visto che, nonostante la guerra in Libia, il tema rimane di attualità da qualche giorno. I più autorevoli commentatori economici hanno deprecato la debolezza degli imprenditori italiani, che non sono stati abbastanza energici e reattivi da impedire lo shopping francese. I politici, come sempre, sono andati a ruota, hanno cavalcato la notizia e hanno alzato i toni, un po' ancora infervorati dalle parole patriottarde del 17 marzo e soprattutto risentiti per il protagonismo di Sarkozy in Libia. Addirittura il ministro Tremonti ha presentato una legge che, chiuse ormai le stalle dopo l'emigrazione delle mucche - forzo un po' il proverbio, visto il merito della questione - dovrebbe impedire in futuro una cosa del genere, individuando alcuni settori, tra cui l'industria alimentare, in cui è più difficile intervenire per i capitali stranieri.
Mi pare che il mondo giri alla rovescia. Chi scrive gli articoli contro i francesi sono gli stessi autorevoli commentatori che negli ultimi vent'anni ci hanno spiegato, fino allo sfinimento, che il mercato è la soluzione di ogni problema, tanto più in Italia, dal momento che il nostro paese ha sofferto quasi cinquant'anni di regime comunista. Lo hanno ripetuto con una tale ossessione e una tale enfasi che hanno finito per convincere tutti, perfino gli eredi di quei presunti governanti comunisti; e infatti questi eredi, per emendare le colpe dei padri, sono diventati ultraliberisti, disdegnano di essere definisti perfino socialdemocratici e accettano le incontrastate virtù del mercato. Chi ha preparato la legge a difesa delle industrie italiane è lo stesso governo che propone di introdurre gli "spiriti animali" del capitalismo nella Costituzione, anche perché il presidente del consiglio è diventato l'uomo più ricco d'Italia godendo di un monopolio nelle comunicazioni televisive garantitegli dalla politica; è lo stesso governo che è stato per mesi senza un ministro per lo sviluppo economico e probabilmente è ancora senza, visto che il sedicente ministro deve fare dell'altro. Delle due l'una: o il mercato funziona e bisogna che non abbia intralci, quindi chi ha più risorse e più capacità le usa o servono dei meccanismi di regolazione. Finora abbiamo deciso che è vera la prima ipotesi.
Peraltro il caso Parmalat è una prova eclatante del fatto che il mercato non tutela né i lavoratori né i risparmiatori. Calisto Tanzi ha organizzato una grande truffa, con la complicità di banche, grandi investitori, politici, uomini di chiesa, quegli stessi autorevoli commentatori di cui sopra che si sperticavano di lodi per l'umanesimo cristiano del patron di Parmalat. Il caso Parmalat ha dimostrato - come la vicenda Eutelia-Phonemedia, come il recentissimo caso Aiazzone, come tantissimi altri, in cui gli unici a pagare sono stati dei poveri cristi - che il mercato non è la soluzione, spesso è il problema.
Francamente a questo punto, con queste regole, o meglio "non-regole", non so dire se sia meglio che Parmalat sia diventata francese o diventasse proprietà dei Ferrero. Non mi pare ci sia una grande differenza.

mercoledì 23 marzo 2011

da "Centuria" di Giorgio Manganelli

Tredici

Quel signore che attraversa piazza Indipendenza e che regge tra le mani il capo che gli hanno appena mozzato, è un Martire della Fede. Il signore è vestito in modo dimesso, non ha giacca, e la camicia è sporca di sangue. Quella testa che tiene tra le mani lo imbarazza, non avrebbe mai pensato che fosse così ingombrante e pesante. Se ci riuscisse, e molti ci si provano, a dare un'occhiata all'espressione di quella testa tagliata, si scoprirebbero i segni di una viva perplessità. In realtà il signore, che verosimilmente sta dirigendosi alla fermata del Trentasei barrato, è estremamente confuso, non tanto per il trauma della decapitazione, quanto perché non gli sembra che gli spetti il titolo di Martire della Fede.
Nella sua infanzia prevaleva una religione, nella quale era stato allevato, che credeva in un Dio, in altri dèi specializzati, e in esseri invisibili, buoni e cattivi. C'erano dei peccati: niente uccidere, non insultare i gatti, non frodare gli orfani, non attaccare i francobolli capovolti, non fare oscillare la mano destra, niente cannibalismo. Era una religione vecchia, che aveva conosciuto giorni migliori, ma che col tempo era diventata tollerante. Tutto era perdonabile. Il Martire era cresciuto in quella religione distrattamente, pensando ad altro, e quando erano emersi dai cunicoli gli altri, ne aveva provato un limitato disagio. Ma per gli Altri era fondamentale precisare che Dio era giallo, che gli dèi minori erano ermafroditi, che le creature erano invisibili solo ai malvagi, ai predestinati alla condanna. Poi, peccati, diciamo, stravaganti: non accarezzare i cani, non batter moneta falsa, non mentire su nulla eccetto il sesso, sul quale mentire era obbligatorio. Si era forse occupato di sesso? No, davvero. Aveva accarezzato cani? In quel momento, il signore che era giunto alla fermata dell'autobus si accorse che sapeva di essere un Martire della Fede, ma non era certo di quale fede; infatti, da che erano stati cacciati nei cunicoli, anche i vecchi fedeli avevano peggiorato carattere. Per un istante restò in dubbio: poi capì che la sua incertezza era il suo prestigio, la sua tiepidezza la sua forza; e stava iniziando una nuova carriera quando, nel momento in cui saliva sull'autobus , la sua testa tagliata gli sfuggì di mano.

martedì 22 marzo 2011

"E se Dio fosse una donna?" di Mario Benedetti

E se Dio fosse una donna?
si chiede Juan senza immutarsi,
guarda, guarda, se Dio fosse donna
è possibile che gnostici ed atei
ci diremmo no con la testa
e diremmo si con le viscere.
Forse ci avvicineremmo alla sua divina nudità
per baciare i suoi piedi non di bronzo,
il suo pube non di pietra,
le sue tette non di marmo,
le sue labbra non di gesso.
Se Dio fosse donna l’abbracceremmo
per strapparla dalla sua lontananza
e non ci sarebbe da giurare
fino a che la morte ci separi
giacché sarebbe immortale per antonomasia
e invece di trasmetterci Aids o panico
ci contagerebbe la sua immortalità.
Se Dio fosse donna non si installerebbe
lontana nel regno dei cieli,
ma ci aspetterebbe nel vestibolo dell’inferno,
con le sue braccia non chiuse,
la sua rosa non di plastica
e il suo amore non di angeli.
Ah, mio Dio, mio Dio
se per sempre e da sempre
fossi una donna
che bello scandalo sarebbe,
che felice, splendida, impossibile,
prodigiosa bestemmia.

lunedì 21 marzo 2011

Considerazioni libere (215): a proposito di una scelta non facile...

Chi ha avuto la pazienza di leggere le mie precedenti "considerazioni" su quello che è accaduto durante le ultime settimane nei paesi della costa meridionale del Mediterraneo - in particolare la nr. 209 - o chi ha letto qualche mio messaggio di stato su Facebook, sa già come la penso: per parafrasare una celebre espressione usata in un altro periodo storico, che ci appare ormai lontanissimo - quasi quanto l'epoca medievale - ma che non è poi così lontano, credo sia giusto "morire per Bengasi".
Ho letto con attenzione chi si è espresso contro la guerra. Prima di tutto ho letto, con partecipazione e con emozione, gli appelli di è contro la guerra "senza se e senza ma", ossia di quelle persone che con tenacia e perseveranza ci spiegano che la guerra è un male in sé e che quindi deve essere bandita dal discorso politico, evitata in qualunque circostanza. Queste parole fanno parte della mia storia, del mio bagaglio etico di uomo di sinistra, colpiscono il mio cuore e la mia anima - per usare espressioni che non mi sono usuali - ma nello stesso tempo non mi sembrano - o meglio non mi sembrano più - sufficienti a spiegare la complessità del mondo. Capisco che uomini come Gino Strada, che hanno visto e vedono ogni giorno gli orrori della guerra, spendano ogni loro energia per chiedere la pace: e per fortuna ci sono tante persone così. Il loro insegnamento deve essere ascoltato, eppure le loro parole non bastano per risolvere i conflitti, che ci sono e che continueranno a esserci.
Personalmente mi sono battuto, nel piccolo delle mie possibilità, contro la guerra in Iraq e provo a spiegare perché non ritengo quella posizione in contraddizione con quella che ho oggi. Ritenevo allora quel conflitto uno strumento inadeguato per risolvere la questione internazionale a cui avrebbe dovuto porre rimedio, almeno secondo Bush jr, Blair e i tanti loro epigoni, anche italiani; e pensavo che avrebbe causato più danni che benefici. E infatti il bilancio di quel conflitto, che peraltro non è ancora finito, è assolutamente fallimentare. L'unico dato positivo è la fine del regime di Saddam Hussein. Dall'altra parte sono tutti segni negativi: in Iraq è cresciuta l'instabilità, anche perché la società di quel paese non era ancora pronta a un regime di tipo diverso, come dimostra anche l'attuale incapacità di formare un governo; il terrorismo ha trovato nuove basi, nuove armi e soprattutto nuove reclute tra le fila degli uomini che avevano un qualche ruolo nel passato regime; sono cresciuti i motivi di contrasto, veri e ideologici - ma soprattutto i secondi - tra mondo occidentale e mondo musulmano. In sostanza la situazione in Medio Oriente è peggiorata dopo la guerra in Iraq. Ho fatto questo discorso per provare a dire che in politica, pur tenendo ben saldi i propri valori, occorra sempre valutare opportunità e conseguenze delle proprie azioni.
Ho poi letto le opinioni di coloro che, da destra, hanno riserve su questa guerra; si tratta di un bel campionario della destra internazionale, dalla cancelliera Merkel a Putin, dagli esponenti del Tea Party alla Lega; in Italia ci sono anche Ferrara e Formigoni, per dire due tra quelli considerati più brillanti nel campo del centrodestra. E ci sono diversi imprenditori. Capisco questi ultimi: erano abituati a fare ottimi affari con il governo libico e quindi hanno scommesso sul fatto che il regime proseguisse il suo cammino, magari con la sostituzione dell'imbarazzante e impresentabile colonnello da parte del più rassicurante figlio. Negli altri, quando non c'è la malafede o l'interesse - non mi stupirei se gli articoli delle gazzette della "destra pacifista", da Il Giornale a Il Foglio, fossero finanziati dall'Eni - prevale un istinto conservatore, per cui tutto quello che è nuovo fa paura: meglio Ben Ali, Mubarak e Gheddafi dei nuovi governanti che con conosciamo. Con in più la paura degli sbarchi di nuovi migranti. Era ingenuo pensare che la soluzione per evitare gli sbarchi fosse continuare a finanziare i regimi del nord Africa: questa soluzione era destinata prima o poi a saltare.
Per tornare alla vicenda libica, tutti vediamo che nel Maghreb sta succedendo qualcosa di inedito: migliaia di giovani hanno deciso di mettere la parola fine a regimi che sono al potere da prima che loro nascessero, hanno deciso di dire basta alla corruzione, si sono resi conto che la loro condizione era insostenibile, tanto più se paragonata con quella dei loro coetanei occidentali, che in qualche modo hanno imparato a conoscere. Francamente non serviva un esperto di questioni internazionali per capire che l'atteggiamento di Gheddafi sarebbe stato ben diverso da quello che hanno tenuto Ben Ali e Mubarak. Questi hanno accettato di arrendersi, trattando per la propria incolumità e per quella dei propri familiari - Mubarak vive ancora con la sua famiiglia in Egitto - e immagino abbiano trattato anche su una consistente buonuscita; il colonnello libico evidentemente non ritiene che questo sia un esito possibile e probabilmente sogna la morte in battaglia, novello Riccardo III. Dall'inizio della rivolta dei giovani di Bengasi era chiaro che in quel paese la rivolta avrebbe avuto successo solo con la morte del dittatore. Mi rendo conto che nessun governo avrebbe mai potuto fare pubblicamente un discorso del genere, ma credo esistano i servizi segreti anche per fare quello che non si può dire in pubblico. Se Gheddafi fosse stato ucciso due o tre settimane fa il regime si sarebbe sgretolato e ora ci sarebbe un governo provvisorio per guidare la transizione.
Anche senza prevedere uno scenario come questo, la comunità internazionale avrebbe dovuto da subito appoggiare la rivolta dei giovani libici, riconoscere il governo di transizione di Bengasi, inviare aiuti alimentari e armi in Cirenaica. La rivolta avrebbe avuto un altro esito e probabilmente oggi non saremmo qui a commentare questo scenario di guerra. I tentannamenti, il prevalere di importanti interessi economici hanno ridato fiato al regime e così siamo al punto in cui siamo. La comunità internazionale doveva fare tutto il possibile per dare gambe alla cosiddetta "primavera araba", ha avuto paura ed è stata sfidata da Gheddafi. Quella sfida doveva essere raccolta, far vincere Gheddafi, come stava avvenendo prima della risoluzione delle Nazioni Unite e dellinizio degli attacchi, avrebbe significato dare un colpo mortale alle possibilità di rivolta non solo in Libia, ma in tutto il mondo arabo. Per questo motivo io sono favorevole al conflitto, perché spero che sia un segnale per tutto il Medio Oriente: ai dittatori ci si può ribellare, c'è una possibilità, lo hanno insegnato i giovani tunisini ed egiziani e lo insegneranno anche i giovani libici, sostenuti e difesi dai paesi occidentali.
C'è un'altra serie di critiche alla guerra, questa volta da sinistra, che non si limitano a dire che la guerra non deve essere fatta, ma che spiegano gli interessi politici ed economici che stanno dietro all'intervento occidentale. Cito per tutti, per la lucidità e la perentorietà delle argomentazioni, Mauro Zani. Non credo di essere ingenuo; mi rendo conto che Sarkozy ha agito con questa tempestività più per fini interni che per reale spirito umanitario; so che dietro Francia e Gran Bretagna ci sono multinazionali desiderose di scalzare Eni dal ruolo privilegiato che da molti anni si è ritagliata in Libia; capisco che si sta giocando, al di qua e al di là dell'Atlantico, una partita ben più complessa che quella dell'assetto dello "scatolone di sabbia" libico. Eppure, nonostante questo, io penso che un Mediterraneo senza Gheddafi, senza Ben Ali, senza Mubarak, domani senza Bouteflika e senza il figlio di Asad in Algeria e in Siria sarà migliore di quello che abbiamo conosciuto.
Naturalmente per migliorare il Mediterraneo non bastano le armi, serve soprattutto la politica, serve decidere da subito come utilizzare le ingentissime risorse che i governi occidentali hanno sequestrato ai dittaori deposti e ai loro familiari: sono soldi che devono essere investiti velocemente per la crescita dell'intera regione, nella consapevolezza che il petrolio rimarrà ancora per qualche anno una risorsa preziosa, ma che è destinato a finire. Con questa investimenti daremo una risposta alle rivolte dei giovani arabi e forse risolveremo anche il problema dell'emigrazione, almeno al renderemo meno drammatica.
Di questo dovremo continuare a parlare.

sabato 19 marzo 2011

"Libri contro sigarette" di George Orwell

Un paio d'anni fa un mio amico, direttore di un giornale, era di turno alla protezione antincendio con alcuni operai di una fabbrica. Il discorso cadde sul suo giornale, che molti di loro leggevano e apprezzavano. Quando però chiese che cosa pensassero della sezione letteraria, la risposta che ricevette fu: "Non penserà che leggiamo quella roba, vero? Metà dei libri di cui parlate costano 12 scellini e mezzo! Gente come noi non può spendere questa cifra per un libro". Eppure, mi diceva il mio amico, erano uomini che spendevano senza pensarci parecchie sterline per trascorrere una giornata sulle spiagge di Blackpool.
L' idea che comprare libri, o anche solo leggerli, sia un hobby costoso e fuori della portata della gente comune è così diffusa che merita di essere esaminata più da vicino. Quanto costi esattamente leggere, in termini di pence all'ora è difficile da calcolare, ma ho cercato di farlo cominciando a stendere un elenco dei miei libri e sommandone i prezzi. Ho poi preso in considerazione varie altre spese accessorie e sono giunto a una stima abbastanza precisa del mio esborso negli ultimi quindici anni. I libri che ho conteggiato sono quelli che ho qui nel mio appartamento. Ne ho più o meno altrettanti immagazzinati altrove, perciò per arrivare al totale dovrò raddoppiare la cifra. Non ho contato le pubblicazioni di vario genere, come le bozze, i volumi rovinati, le edizioni economiche non rilegate, gli opuscoli o le riviste, a meno che non fossero legate in volume, e nemmeno i vecchi libri scolastici e simili, accumulati in fondo agli armadi. Ho preso in considerazione solo i libri acquistati volontariamente, o che avrei comunque acquistato volontariamente, e che intendo tenere. Vedo che ne ho 442 rientranti in questa categoria, acquisiti come segue:
Comprati (quasi sempre di seconda mano): 451
Regalati o comprati con dei buoni: 33
Copie da recensire e copie omaggio: 143
Presi in prestito e non restituiti: 10
In prestito temporaneo: 5
Totale: 442
Ora passo al metodo con cui li ho valutati. I libri comprati li ho elencati a prezzo pieno, che ho cercato di determinare con la maggior precisione possibile. Ho considerato il prezzo pieno anche per i libri che mi sono stati regalati e per quelli che ho preso in prestito temporaneamente o preso in prestito e tenuto. Questo perché i libri dati ad altri più o meno compensano quelli presi in prestito e trattenuti. Possiedo libri che, a rigore, non mi appartengono, ma molte altre persone hanno libri miei: perciò i libri che non ho pagato vanno a compensare quelli che ho pagato ma che non possiedo più. I libri recensiti e quelli ricevuti in omaggio li ho registrati a metà prezzo. È quel che avrei speso comprandoli usati e sono per lo più libri che, se mai li avessi comprati, avrei preso usati. A volte ho dovuto attribuire dei prezzi ipotetici, ma le cifre non dovrebbero essere molto lontane dal vero. Ecco i costi:
Comprati: sterline 36, scellini 9, pence 0
Regalati: sterline 10, scellini 10, pence 0
Copie recensite, ecc.: sterline 25, scellini 11, pence 9
Presi in prestito e non restituiti: sterline 4, scellini 16, pence 9
In prestito: sterline 3, scellini 10, pence 0
Scaffali: sterline 2, scellini 0, pence 0
Totale: 82 sterline 17 scellini 6 pence
Aggiungendo gli altri libri che ho altrove, dovrei possedere in tutto circa 900 volumi, per un costo totale di 165 sterline e 15 scellini. Questa è la somma che ho speso in libri in circa quindici anni (in realtà sarebbe un periodo più lungo, visto che alcuni libri risalgono alla mia infanzia: ma diciamo quindici anni). Si tratta di 11 sterline e uno scellino all' anno, ma alla spesa complessiva per la lettura bisogna aggiungere altri costi. I maggiori sono rappresentati da giornali e periodici, per i quali penso che una cifra di 8 sterline all'anno sia attendibile. Otto sterline all'anno coprono i costi di due quotidiani al giorno, un giornale della sera, due della domenica, un settimanale e un paio di riviste mensili. Questo fa salire il totale a 19 sterline e uno scellino, ma per arrivare al totale complessivo bisogna aggiungere altre spese probabili. Spesso infatti spendiamo denaro per i libri senza che ne resti una traccia. Ci sono gli abbonamenti alle biblioteche e ci sono libri, soprattutto i Penguin e le altre edizioni economiche, che si comprano e si perdono o si buttano via. Sulla base delle stime precedenti, mi sembra ragionevole aggiungere 6 sterline all'anno per spese di questo tipo. Negli ultimi quindici anni ho quindi speso per la lettura circa 25 sterline all'anno. Venticinque sterline all' anno può sembrare una somma notevole finché non la si confronta con altri tipi di spese. Sono circa 9 scellini e 9 pence alla settimana, attualmente l' equivalente di circa 83 sigarette (Players): anche prima della guerra con questa cifra si sarebbero comprate meno di 200 sigarette. Con i prezzi di ora, spendo assai più per il tabacco che per i libri. Fumo sei once di tabacco alla settimana, a mezza corona l'oncia fanno circa 40 sterline l'anno. Prima della guerra, quando lo stesso tabacco costava 8 pence all'oncia, spendevo circa 10 sterline l'anno: e se conto anche una pinta di birra al giorno, a 6 pence, queste due voci insieme mi costano circa 20 sterline l'anno, una cifra probabilmente non molto superiore alla media nazionale. Nel 1938 la gente di questo Paese spendeva circa 10 sterline all'anno a testa in alcol e tabacco: considerando però che il 20 per cento della popolazione era costituito da bambini sotto i quindici anni e un altro 40 per cento da donne, il fumatore e bevitore medio doveva spendere molto più di 10 sterline. Nel 1944 la spesa annua pro capite per queste voci non era inferiore alle 23 sterline. Togliendo ancora donne e bambini, si arriva a 40 sterline. Quaranta sterline all' anno basterebbero a comprare circa un pacchetto di sigarette Woodbines al giorno e mezza pinta di birra per sei giorni alla settimana - nulla di sontuoso. Naturalmente i prezzi sono ora aumentati per l'inflazione, anche quelli dei libri: sembra però che il costo della lettura, anche quando i libri li compriamo, anziché prenderli in prestito, e quando mettiamo in conto un buon numero di periodici, non superi il costo complessivo di fumo e alcol. È difficile mettere in relazione il prezzo di un libro con il suo valore. Tra i "libri" vi sono romanzi, opere poetiche, testi scolastici, volumi di consultazione, trattati di sociologia e molto altro, e la lunghezza del testo non è in rapporto diretto con il costo, soprattutto se i libri sono comprati usati. Per un poema di 500 versi si potrebbero spendere 10 scellini, per un dizionario, che in un periodo di vent'anni si consulta qualche volta, 6 pence. Ci sono libri che si leggono e si rileggono, libri che contribuiscono a formare il nostro abito mentale e cambiano completamente il nostro atteggiamento verso la vita, altri in cui ci si immerge ma che non si leggono mai fino in fondo, altri ancora che si leggono di un fiato e si dimenticano dopo una settimana; e il costo, in termini monetari, potrebbe essere sempre lo stesso. Se però si considera la lettura semplicemente come un divertimento, come andare al cinema, allora è possibile fare una stima approssimativa di quanto costi. Se leggiamo solo romanzi e letteratura "leggera" e compriamo ogni libro che leggiamo, spenderemo - supponendo che il prezzo di un libro sia di 8 scellini e il tempo passato a leggerlo di quattro ore - 2 scellini l' ora. È il costo di un biglietto del cinema per uno dei posti migliori. Se scegliamo libri più seri e compriamo tutto quel che leggiamo, spenderemo all' incirca lo stesso. I libri costeranno di più, ma occorrerà più tempo per leggerli. In entrambi i casi, inoltre, continueremmo a possedere i libri anche dopo averli letti e potremmo rivenderli a circa un terzo del prezzo di acquisto. Se compriamo solo libri usati, la spesa della lettura sarà, naturalmente, molto inferiore: una stima ragionevole potrebbe essere di 6 pence. Se poi, invece di comprarli, ci limitiamo a prendere i libri in prestito da una biblioteca privata, leggere ci costerà circa mezzo penny all'ora: prendendoli in prestito dalla biblioteca pubblica, quasi nulla. Ho detto abbastanza per dimostrare che leggere è uno dei diversivi più economici: è probabilmente il più economico dopo l'ascolto della radio.
Quanto spendono però i cittadini britannici in libri? Non riesco a trovare delle statistiche, anche se certamente ve ne sono. So però che prima della guerra si pubblicavano in questo Paese circa 15.000 libri all' anno, comprese le ristampe e i libri scolastici. Se si fossero vendute almeno 10.000 copie di ciascuno (una stima probabilmente elevata, anche considerando i libri scolastici) ogni persona avrebbe comprato in media, direttamente o indirettamente, circa tre libri all' anno, per una spesa complessiva di una sterlina o forse meno. Sono cifre ipotetiche e sarei contento che qualcuno si prendesse la briga di correggermi. Se però fossero abbastanza realistiche, non indicherebbero una situazione di cui un Paese possa andare fiero; un Paese in cui quasi il 100 per cento della popolazione è alfabetizzata e in cui l'uomo medio spende in sigarette più di quanto un contadino indiano disponga per vivere. Se il nostro consumo di libri continuerà a essere così basso, ammettiamo almeno che questo avviene perché la lettura è un passatempo meno allettante dell' andare alle corse dei cani, al cinema o al pub e non perché i libri, comprati o presi in prestito, sono troppo cari.

giovedì 17 marzo 2011

"Poema sul terremoto di Lisbona" di Voltaire


Poveri umani! e povera terra nostra!
Terribile coacervo di disastri!
Consolatori ognor d'inutili dolori!
Filosofi che osate gridare tutto è bene,
venite a contemplar queste rovine orrende:
muri a pezzi, carni a brandelli e ceneri.
Donne e infanti ammucchiati uno sull'altro
sotto pezzi di pietre, membra sparse;
centomila feriti che la terra divora,
straziati e insanguinati ma ancor palpitanti,
sepolti dai lor tetti, perdono senza soccorsi,
tra atroci tormenti, le lor misere vite.
Ai lamenti smorzati di voci moribonde,
alla vista pietosa di ceneri fumanti,
direte: è questo l’effetto delle leggi eterne
che a un Dio libero e buono non lasciano la scelta?
Direte, vedendo questi mucchi di vittime:
fu questo il prezzo che Dio fece pagar pei lor peccati?
Quali peccati? Qual colpa han commesso questi infanti
schiacciati e insanguinati sul materno seno?
La Lisbona che fu conobbe maggior vizi
di Parigi e di Londra, immerse nei piaceri?
Lisbona è distrutta e a Parigi si balla.
Tranquilli spettatori, spiriti intrepidi,
dei fratelli morenti assistendo al naufragio
voi ricercate in pace le cause dei disastri;
ma se avvertite i colpi avversi del destino,
divenite più umani e come noi piangete.
Credetemi, allorquando la terra c’inghiotte negli abissi
innocente è il lamento e legittimo il grido:
ovunque avvolti in una crudele sorte,
in furori malvagi e imboscate mortali,
subendo l'attacco di tutti gli Elementi:
compagni dei miei mali, possiamo pur lamentarci.
E' l'orgoglio, direte, il ripugnante orgoglio
che ci fa dir che il mal poteva esser minore.
Interrogate, orsù, le sponde del mio Tago,
frugate, orsù, fra le macerie insanguinate,
chiedete ai moribondi, in preda a gran terrore,
se è l'orgoglio che grida: “aiutami o cielo!
O ciel, pietà per le miserie umane!”
“Tutto è bene, voi dite, e tutto è necessario”.
Senza questo massacro, senza inghiottir Lisbona,
l'universo peggior sarebbe dunque stato?
Siete davvero certi che la causa eterna
che tutto può, che tutto sa, creando per se stessa
non poteva gettarci in questi tristi climi
senza accenderci sotto dei vulcani?
Così limitereste la potenza suprema?
D’esser clemente allor le impedireste?
Non ha forse l’eterno artigian nelle sue mani
mezzi infiniti adatti ai suoi disegni?
Umilmente vorrei, senza offendere il Signore,
che questo abisso infiammato di zolfo e salnitro,
avesse acceso il fuoco in un deserto;
rispetto Dio, ma amo l'universo.
Se l'uomo osa dolersi di un sì terribile flagello
non è perché è orgoglioso, ahimè, ma sofferente.
I poveri abitanti di queste desolate rive,
tra gli orrendi tormenti sarebber consolati
se qualcun gli dicesse: “Sprofondate e morite tranquilli,
le vostre case per il bene del mondo son distrutte;
altre mani costruiranno altri palazzi;
altra gente avrà i muri che qui oggi vedete cader;
il nord si arricchirà delle vostre odierne perdite,
i vostri mali d’oggi sono un ben sul piano generale;
agli occhi di Dio uguali siete ai vili vermicelli
di cui sarete preda nel fondo della fossa”?
Orribile linguaggio per degli infortunati!
Crudeli! Non aggiungete oltraggio al mio dolore!
Non opponete più alla mia angoscia
le immutabili Leggi di Necessità:
questa catena di corpi, di spiriti e di mondi.
O sogni dei sapienti! O abissali chimere!
Dio tiene in man la catena e non è incatenato;
Dalla sua saggia scelta tutto è stabilito:
Egli è libero, giusto e affatto implacabile.
Perché dunque soffriam sotto un Signore equanime?
Ecco il nodo fatal che scioglier si doveva.
Osando negarli guarirete i mali nostri?
Le genti tremebonde sotto una man divina
Del mal che voi negate han cercato il perché.
Se la legge che da sempre governa gli elementi
può far cader le rocce con lo spirar dei venti,
se le querce frondute s'incendian con la folgore,
pur non avvertono i colpi che le atterrano;
ma io vivo, io sento ed il mio cuore oppresso
chiede soccorso al creatore Iddio;
suoi figli, sì, ma nati nel dolore,
tendiam le mani al nostro unico padre.
Il vaso, si sa, non domanda al vasaio:
perchè mi facesti così vil, caduco e grossolano?
Esso non può parlare né pensare:
quest'urna che si forma, che a terra cade in pezzi
dall'artigian non ricevette un cuore
per anelare il bene ed avvertire il male.
Il suo mal, dite voi, è il ben di un altro...
Il mio corpo insanguinato darà vita a mille insetti.
Quando la morte pon fine ai mali che ho sofferto,
un bel conforto è quello di andare in pasto ai vermi!
Squallidi disquisitori delle miserie umane,
anziché consolarmi, le mie pene rendete ancor più amare;
e in voi non vedo che lo sforzo impotente
di indomito ferito che vuol dirsi contento.
Del tutto io non son che un picciol pezzo:
è ver; ma gli animali condannati a vivere,
tutti soggetti ad una stessa legge,
vivono nel dolore e muoion come me.
L'avvoltoio avvinghiata la timida preda
lieto si pasce delle sue carni insanguinate:
tutto sembra andar bene per lui; ma ben presto, a sua volta,
un'aquila dal becco tagliente divora l'avvoltoio.
L'uomo colpisce col piombo micidial l'aquila altera,
finché lui stesso, in battaglia, disteso sulla polvere,
sanguinante e trafitto dai colpi, con altri moribondi,
serve da cibo orrendo agli uccelli rapaci.
Così del Mondo intero tutti i viventi gemono,
nati per il dolor, si dan l'un l'altro morte.
E voi ricomponete, da questo caos fatale,
dal male di ogni essere, la gioia generale?
Quale felicità! O debole e misero mortale!
“Tutto è bene” gridate con stridula voce:
l'universo vi smentisce, e il vostro stesso cuore
cento volte ha smentito il vostro errore.
Elementi, animali, umani tutto è in guerra.
Confessiamolo pure, il male è sulla terra:
la ragione profonda è sconosciuta.
Dall’autor d’ogni ben provenne il male?
È forse il nero Tifone, il barbaro Arimanno
che con legge tirannica al male ci condanna?
La mente non ammette questi mostri odiosi,
che il mondo tremebondo degli antichi aveva fatto Dei.
Ma come concepire un Dio, la bontà stessa,
che prodigò i suoi beni alle creature amate,
che poi versò su loro i mali a piene mani?
Qual occhio penetrar può i suoi profondi fini?
Dall’ Essere Perfetto il mal non poté nascere;
non può venir da altri, ché solo Dio è Padrone.
Eppure esiste. O tristi verità!
O strano intreccio di contraddizioni!
Un Dio venne a consolar la nostra razza afflitta,
la terra visitò senza cambiarla.
Un sofista arrogante sostien che nol poté;
lo poteva, afferma un altro, ma non l'ha voluto.
Lo vorrà, senza dubbio; ma mentre ragioniamo,
folgori sotterranee inghiottono Lisbona,
e di trenta città disperdon le rovine,
dal greto insanguinato del Tago a Gibilterra.
O l'uom nacque colpevole e la sua razza Iddio punisce;
o il Padrone assoluto del mondo e dello spazio,
senza collera e senza pietà, tranquillo e indifferente,
contempla del suo primo voler gli eterni effetti;
o la materia informe, ribelle al suo padrone,
porta con sé i difetti, com'essa necessari;
o Dio vuol metterci alla prova, ed il mortal soggiorno
altro non è che un misero passaggio al mondo eterno.
Patiamo qui dolori passeggeri;
la morte è un bene che alle nostre miserie pone fine;
ma quando usciremo da quest’orrendo passaggio
chi di noi potrà dir di meritare la felicità?
Quale che sia la nostra decisione, c'è da tremare infatti:
nulla conosciamo e nulla è senza tema.
Muta è Natura e invan la interroghiamo:
ci occorre un Dio che parli all'uomo;
spetta a lui di spiegar l'opera sua,
di consolare il debole e illuminare il saggio.
Al dubbio abbandonato e all'error, senza il suo aiuto,
l'uomo invan cercherà il sostegno di un bastone.
Leibnitz non spiega con quali oscuri fili
nel più ordinato dei possibili universi,
un disordine eterno, un caos di sventure,
al nostro vano piacer dolor reale intrecci;
né mi spiega perchè, come il colpevole, pur l'innocente
debba subire il male senza scampo;
né capisco perché tutto sia bene:
ahimè! come un dottor io son che non sa niente.
Sostien Platone che l'uomo un dì fu alato
col corpo invulnerabile ai colpi mortali;
il dolore, la morte mai si avvicinavano
al suo stato di grazia, così diverso dall'odierno stato!
Si aggrappa, soffre, muore; ciò che nasce è destinato a perire;
della distruzione la natura è l'impero.
Un debole composto di nervi e di ossa
non può non risentir del turbinìo del mondo;
questo misto di polvere, liquidi e di sangue
fu impastato perché si dissolvesse;
e i pronti sensi di nervi tanto vivi
fur soggetti al dolor che poi gli dà la morte.
È questo che m'insegna la legge di Natura.
Abbandono Platone, respingo Epicuro .
Bayle ne sa più di tutti: lo vado a consultare:
bilancia alla mano, Bayle insegna a dubitare;
saggio e grande abbastanza per non aver sistemi,
li ha tutti distrutti, mettendo in discussione anche se stesso:
in ciò simile al cieco esposto ai Filistei
che cadde sotto i muri abbattuti con sue mani.
Che può dunque lo spirito vedere all’orizzonte?
Nulla: ché il libro del Destin si chiude alla sua vista.
L'uomo, estraneo a se stesso, all’uomo è sconosciuto.
Che sono? dove sono? dove vado? e donde vengo?
Atomi tormentati in questo ammasso di fango,
che la morte inghiotte e la cui sorte è in gioco;
ma atomi pensanti, atomi i cui occhi
guidati dal pensiero han misurato i cieli:
con tutto il nostro essere tendiamo all'infinito,
eppure non riusciamo a conoscere noi stessi.
Questo mondo, teatro dell’orgoglio e dell’errore,
di disgraziati è pieno che credon tutto bene.
Ognun si duole e geme mentre il bene cerca;
nessuno vuol morir, rinascere nemmeno.
Eppur nei giorni destinati al dolore,
le lacrime asciughiamo col piacere;
ma il piacere svanisce e passa come un'ombra,
mentre le pene, le perdite e i rimpianti sono tanti.
Il passato non è che spiacevole ricordo,
oscuro è il presente se non c'è avvenire,
se il nulla sepolcrale distrugge l'io pensante.
Tutto ben sarà un giorno: è questa la speranza;
tutto oggi è bene: è questa l'illusione.
I saggi mi ingannavan, solo Dio ha ragione.
Umile nei miei sospiri, prono nei miei dolori,
non me la prendo con la Provvidenza.
Di men lugubre umor fui visto un tempo
dei dolci piaceri cantar le leggi seducenti.
È cambiato col tempo il mio costume ed in vecchiaia,
partecipe di umana e malintesa debolezza,
cercando un po’ di luce nella notte oscura,
non posso che soffrire senza dir parola.
Una volta un Califfo, alla fin di sua vita,
al Dio che adorava rivolse una preghiera:
“Ti porto, unico Dio, che limiti non hai,
quel che non hai nel tuo potere immenso:
i difetti, i rimpianti, il male e l’ignoranza.”
Ma aggiungere poteva: la speranza.

mercoledì 16 marzo 2011

Considerazioni libere (214): a proposito di ragazze e di ragazzi...

Ho letto in questi giorni due articoli interessanti, uno dedicato al costo degli affitti a Bologna e l'altro sulle condizioni di salute degli adolescenti nell'Etiopia meridionale. Nulla di più differente, penserete voi; e invece non è difficile trovare qualcosa che li lega. Vediamolo insieme.
Il Corriere di Bologna, mentre anche nella nostra città si teme una qualche forma di "affittopoli" - perdonate l'orrenda parola - ossia appartamenti di enti pubblici affittati a prezzi di favore ai soliti noti o ai loro parenti, ha provato a capire che opportunità ha chi vuole vivere in affitto, senza essere parente di nessuno. Il quotidiano ha fatto tre casi: un giovane tra i 25 e i 29 anni che lavora e vuole andare a vivere da solo, una coppia tra i 30 e i 34 anni, entrambi lavoratori, che decide di metter su casa insieme, la stessa coppia, dopo un paio d'anni, che decide di avere un figlio. L'indagine è rigorosa e ben fatta, il dato che emerge immediatamente è chiarissimo: per il giovane solo e per la famiglia con un bambino la situazione è dura e in entrambi i casi l'affitto incide oltre il 30% sul reddito familiare, la soglia che la Banca d'Italia ha individuato come quella del cosiddetto "disagio abitativo". Sono dati che dovrebbero far riflettere sia i politici nazionali che gli amministratori locali. C'è però un altro dato che emerge dall'inchiesta. Per calcolare i redditi dei vari casi ipotizzati sono stati utilizzati i dati dell'ufficio statistica del Comune di Bologna: un ragazzo tra i 25 e i 29 anni guadagna in media 13.608 euro all’anno, una ragazza della stessa età 11.655 euro, l'uomo tra i 30 e i 34 anni ha un reddito di 18.969 euro e la donna di 15.896 euro, dopo un paio d'anni la differenza sale a 9.364, naturalmente a vantaggio dell'uomo. Mi rendo conto che questa può sembrare un'ovvietà, la classica scoperta dell'acqua calda, eppure pensate che programma rivoluzionario sarebbe per la sinistra lavorare per raggiungere la parità di reddito tra uomini e donne.
La seconda notizia l'ho trovata in un articolo uscito su Le Monde, tradotto da Internazionale. Per cinque anni un'equipe dell'università etiope di Jimma ha studiato le abitudini alimentari e le conseguenti condizioni di salute di oltre duemila adolescenti tra i 13 e i 17 anni nell'Etiopia meridionale. Fino a quando non ci sono particolari problemi di accesso al cibo - che comunque in quella regione dell'Africa è ben lontano dagli standard occidentali - le condizioni di salute di ragazze e ragazzi tendono a essere uguali, come è naturale. Quando però per una carestia o per altri fattori si riduce la disponibilità dei generi alimentari a soffrirne di più sono le ragazze. Il 25% delle ragazze ha attraversato periodi di insicurezza alimentare, contro il 16% dei coetanei maschi, con ovvie conseguenze sulla salute: le ragazze denutrite hanno avuto il triplo delle malattie rispetto ai ragazzi che vivevano sotto lo stesso tetto. I bambini e gli adolescenti sono nutriti per primi e con cibo migliori rispetto alle femmine. Purtroppo molte famiglie delle campagne dell'Etiopia - e non solo lì - credono ancora che il maschio sia una "risorsa" più preziosa, che sarà più produttivo e sarà in grado di aiutare maggiormente la famiglia. Non è così. Già ora le donne costituiscono il 45% della manodopera impiegata in agricoltura e sono le figlie femmine che rimangono più a lungo ad aiutare le loro famiglie; le donne in genere non si ubriacano, non spendono soldi nelle prostituzione e sono più capaci di risparmiare. Sono loro la vera risorsa per i paesi in via di sviluppo, come spiegano i maggiori economisti.
I miei attenti lettori - e le mie attente lettrici - avranno già capito il legame tra i due articoli e la morale di questa breve "considerazione".

p.s. a proposito, anche se con un po' di ritardo, buon 8 marzo...

domenica 13 marzo 2011

"Tattica e strategia" di Mario Benedetti


per Zaira

La mia tattica è
guardarti
imparare come sei
amarti come sei
la mia tattica è
parlarti
e ascoltarti
costruire con parole
un ponte indistruttibile
la mia tattica è rimanere nel tuo ricordo
non so come
né con quale pretesto
ma rimanere in te
la mia tattica è
essere franco
e sapere che tu sei franca
e che non ci vendiamo simulacri
affinché tra noi due
non ci siano sipario
né abissi
la mia strategia è
invece
più profonda
e più semplice
la mia strategia è
che un giorno qualsiasi
non so come
né con che pretesto
finalmente tu abbia bisogno di me.

venerdì 11 marzo 2011

"Ci prendono per navi e siamo isole" di Juan Vicente Piqueras


ci prendono per navi e siamo isole.
intricate, deserte, che tesori
possiamo offrire a quelli che non giungono?
la nostra costa è dura. il nostro faro
di voce anzichè luce
non attira, spaventa
e nessun marinaio perduto nella notte
toccherà le spiagge nostre dove ancora
fanno male le orme di quel naufrago
che sapeva del nostro deserto.
la notte, ogni notte, ci promette e ci nega
la strada del ritorno, il tornaviaggio,
l’amore che ci salvi da noi stessi
e la parola che sia detta per sempre.
ci sono in noi alberi senza nome
stanchi di far ombra e crescere da soli.
coloro che non partono ma soffrono
di sete di scogliera, amano i porti,
salpano nel sonno, cercano un’altra sete
per appagare la prima, ci osservano,
ci vedono come navi, felici.
siamo isole.

mercoledì 9 marzo 2011

Considerazioni libere (213): a proposito di petrolio...

In questi giorni in cui assistiamo impotenti al rincaro del prezzo della benzina e del gasolio, credo sia un utile esercizio leggere una tabella sulle esportazioni di petrolio nel mondo.
C'è un dato che balza immediatamente agli occhi. Tra i paesi che esportano più di un milione di barili al giorno soltanto due, la Norvegia (1,8 milioni) e il Canada (1,5) sono stati con un sistema democratico maturo. Si può forse aggiungere a questi due il Messico (1,3), che però ha una struttura molto fragile, come dimostra l'incapacità delle istituzioni di quel paese di combattere i grandi trafficanti di droga. Tolti questi tre paesi i maggiori produttori ed esportatori di petrolio sono stati con governi più o meno autoritari, comunque lontani dai canoni delle democrazie occidentali: Arabia Saudita (6,4), Russia (5,4), Iran (2,2), Nigeria (2,1), Emirati Arabi Uniti (2,0), Iraq (1,9), Angola (1,8), Kuwait (1,4), Kazakistan (1,4), Algeria (1,3), Venezuela (1,3), Libia (1,2).
Di fronte a questi dati deve stupire fino a un certo punto la crisi di queste settimane, legate alle rivolte in atto in Tunisia, in Egitto e in Libia e a quelle temute in altri paesi, forse la stessa Arabia Saudita. Rispetto alla prima grande crisi del petrolio, l'embargo del 1973 - che costrinse gli italiani a rinunciare alle auto nelle domeniche dell'austerity - il mercato del cosiddetto oro nero è molto più globalizzato e non è rimasto concentrato nei soli paesi arabi, riuniti nel cartello dell'Opec. Ma quella crisi e quelle successive, che si sono succedute sempre più frequentemente, non ci sono servite a usare meno petrolio, hanno soltanto spinto gli investitori internazionali a comprarlo in un maggior numero di paesi. Secondo i dati dell'Agenzia internazionale per l'energia nel 2010 la domanda di petrolio è aumentata di 2,7 milioni di barili al giorno e nel 2011 è destinata a crescere di altri 1,7 milioni. La globalizzazione del mercato non ha portato maggior sicurezza perché da un lato i venditori, come ho detto prima, sono comunque paesi senza un controllo democratico e con un altissimo livello di corruzione e dall'altro i compratori sono grandi multinazionali sempre più slegate dagli interessi dei governi a cui solo teoricamente dovrebbero rispondere. Per dirla in un altro modo: da una parte i corruttori e dall'altra quelli disposti a farsi corrompere.
Provo allora a fare un ragionamento puramente e strettamente utilitaristico, da cultore della realpolitik, come fossi un sergioromano qualsiasi; non voglio che qualcuno mi accusi di essere un utopista - è successo e probabilmente succederà ancora - e voglio evitare tesi del tipo che è immorale finanziare regimi che negano i diritti umani dei loro cittadini. Questi sono discorsi da "anime belle", da gente che non capisce niente della politica. Lasciando da parte la morale, vorrei che qualcuno di quelli furbi e intelligenti, di quelli che capiscono tutto insomma, ci spiegasse che convenienza c'è a continuare a dipendere per la nostra energia da personaggi equivoci - e forse comunisti - come Chavez, da ex-agenti del Kgb come Putin, da folclorici capi tribali come Gheddafi o da un vecchissimo satrapo come re Abdullah. E' davvero conveniente continuare a investire sul petrolio dal momento che questa risorsa non solo è destinata a finire, ma da qui al momento in cui l'ultima goccia sarà estratta e le scorte planetarie si esauriranno, è gestita da simili governi, magari con il rischio che questi siano persino rovesciati da giovani rivoluzionari, nonostante l'appoggio incondizionato delle multinazionali occidentali e dei governi quali loro mosche cocchiere? Non sarebbe più utile - lo ripeto più utile, non più giusto - provare a investire su un diverso modello di sviluppo, basato su fonti di energie rinnovabili? Aspetto qualche risposta, anche se suppongo che nessuno di quelli che capiscono legga il mio piccolo blog. Personalmente penso che cominciare a pensare a un mondo che faccia a meno del petrolio sarebbe più utile, più economicamente vantaggioso; e sarebbe perfino più giusto, ma questo non ditelo troppo forte.

domenica 6 marzo 2011

"Crepe" di Mario Benedetti


La verità
è che le crepe
non mancano

così passando
ricordo quelle che
separano i mancini e i destrorsi
i pechinesi e i moscoviti
i presbiti e i miopi
i gendarmi e le prostitute
gli ottimisti e gli astemi
i sacerdoti e i doganieri
gli esorcisti e le checche
i facili e gli incorruttibili
i figliol prodighi e gli investigatori
borges e sabato
le maiuscole e le minuscole
gli artificieri e i pompieri
le donne e le femministe
gli acquariani e i taurini
i profilattici e i rivoluzionari
le vergini e gli impotenti
gli agnostici e i chierichetti
gli immortali e i suicidi
i francesi e i non-francesi
il breve o il lunghissimo periodo
tutte però sono sanabili
c’è una sola crepa decisamente profonda
ed è quella che sta a metà tra
la meraviglia dell’uomo e i disillusionatori
è ancora possibile saltare
da un bordo all’altro
ma attenzione qui ci siamo tutti
voi e noi
per affondarla
signore e signori
a scegliere a scegliere
da che parte poggiate il piede.

sabato 5 marzo 2011

Considerazioni libere (212): a proposito di una strana lotta di classe...

E' doveroso riconoscerlo, prima di ogni altra riflessione: sono un dipendente pubblico e sono un privilegiato. Non c'è crisi che tenga: il mio posto di lavoro e il mio salario sono garantiti. Non dobbiamo mai dimenticarlo, noi dipendenti pubblici, soprattutto quando ci confrontiamo con le persone che lavorano nel settore privato.
Fatta questa necessaria premessa, credo sia giusto commentare quello che sta avvenendo negli Stati Uniti. Il governatore del Wisconsin, il repubblicano Scott Walker, ha proposto una legge per tagliare i salari ed eliminare i diritti alla contrattazione collettiva dei lavoratori del pubblico impiego. Il primo obiettivo, quello sbandierato nei comunicati e nelle conferenze stampa, è quello di risanare il deficit in uno stato duramente colpito dalla crisi economica. Ma l'obiettivo inconfessabile, benché sia sfuggito allo stesso Walker in un fuori-onda, è quello di completare il disegno di Reagan: indebolire i sindacati del settore pubblico, così come negli anni ottanta è avvenuto con quelli del settore privato. E il governatore Walker sta già trovando emuli in un partito repubblicano che si prepara alla campagna presidenziale del 2012.
Nonostante le proteste dei lavoratori del Wisconsin, in particolare degli insegnati che sono i più tenaci negli scioperi di questi giorni, il progetto va avanti, perché è visto con favore da molti cittadini, da molti lavoratori che subiscono ogni giorno gli effetti della crisi economica mondiale. Chi si è visto, mese dopo mese, diminuire lo stipendio, chi ha perso il lavoro, chi ha visto svanire i propri risparmi nei fallimenti delle grandi banche d'affari, chi non è riuscito a riscattare l'ipoteca sulla propria casa, tutti loro - e sono purtroppo milioni - non sopportano più che ci siano altri lavoratori, per di più pagati con i soldi delle loro tasse, che hanno pagato molto di meno il conto della crisi. E' una particolare forma di lotta di classe, che si combatte completamente all'interno di un'unica classe: una sorta di "guerra civile di classe", se mi permettete l'espressione o una "guerra tra poveri".
Passo dal globale al locale. Alcuni giorni fa noi lavoratori del Comune di Salsomaggiore abbiamo deciso di proclamare lo stato di agitazione, con il blocco degli straordinari., contro la decisione dell'Amministrazione comunale di non prevedere nel bilancio del 2011 la quota prevista per retribuire la realizzazione di determinati progetti oltre l'orario di lavoro. La protesta è poco più che simbolica: non facciamo più gli straordinari, che comunque non ci sarebbero stati pagati. Io ho partecipato all'assemblea e ho votato con convinzione la proposta dello stato di agitazione, anche perché il nocciolo della questione non è soltanto lo stanziamento di questo fondo da destinare a salario supplementare, ma soprattutto il fatto che in queste settimane i sindacati - e quindi i lavoratori - non sono stati coinvolti in una fase di decisioni complesse, che prevedevano necessariamente dei sacrifici, anche dolorosi. Il nostro Comune, come quasi ogni Comune d'Italia, è stato colpito da una serie di tagli e da una politica che, pur professandosi federalista, diventa ogni giorno di più centralista.
Pur riconoscendo giusti i motivi della nostra protesta, faccio un po' fatica a spiegarli agli altri. Ad esempio a mia moglie, che in questi due anni è passata da un lavoro precario all'altro, con salari al limite della decenza e nessun riconoscimento di diritti, con in più il fallimento di una società di veri e propri truffatori - ne ho parlato diffusamente in altre "considerazioni", ad esempio la nr. 26 e la nr. 36, che vi consiglio di leggere - in cui gli unici a pagare sono stati i lavoratori. Faccio fatica a raccontare le nostre rivendicazioni alle tante persone che nella provincia in cui vivo, fino a poco tempo fa ricca di lavoro e opportunità, subiscono la cassa integrazione.
In Italia, come negli Stati Uniti, si registra un continuo attacco contro i dipendenti pubblici. In Italia c'è un ministro che sulla lotta contro i "fannulloni" basa la propria carriera politica. C'è una crescente percentuale di lavoratori che, soffrendo duramente a causa della crisi, pensa che i nostri privilegi siano ingiusti, o almeno ingiustificabili.
Non è mia intenzione difendere i dipendenti pubblici, tout court. So bene che i fannulloni ci sono e il sindacato sbaglia quando difende persone che sono indifendibili. Non è questa neppure la sede per fare una storia del pubblico impiego in Italia, che, specialmente in alcune regioni, ha rappresentato una forma di welfare per tante famiglie. Voglio però difendere la funzione del dipendente pubblico, e credo che su questo si dovrebbe aprire una riflessione seria, specialmente a sinistra, senza appunto nascondersi i problemi che ci sono e su cui bisogna intervenire. Una società ha bisogno di persone che lavorino per la collettività, per gli altri, ha bisogno della scuola pubblica, della sanità pubblica, delle forze dell'ordine, ha perfino bisogno di una burocrazia, che naturalmente deve essere onesta e efficiente. Anni e anni in cui ci è stato insegnato che "lo Stato non è la soluzione, ma il problema" hanno lasciato il segno e pesano nella coscienza collettiva. Lo Stato serve e serve tanto più a chi è più debole, serve di più nei momenti di crisi, serve ai lavoratori, a tutti i lavoratori, pubblici e privati.
Per questo dobbiamo ristabilire un patto tra lavoratori, riuscendo a sconfiggere l'idea che tende a posizionarci su opposte barricate, in una logorante guerra di posizione. A un mio collega che lavora nel settore privato vorrei spiegare che quando lotto per fare meglio il lavoro di dipendente pubblico, lotto anche per lui, rendere efficaci i servizi di cui ha bisogno la sua famiglia. Gli vorrei spiegare che non sto difendendo un privilegio, ma difendo la dignità del mio lavoro e allo stesso tempo difendo l'idea che lo stato è utile, che la pubblica amministrazione serve a tutti. Gli chiederei rispetto, consapevole naturalmente che questo rispetto me lo devo meritare, facendo bene quel lavoro per il quale anche lui, con le sue tasse, mi paga lo stipendio. Spero che sarà possibile continuare a lottare insieme perché, come si dice in latino, simul stabunt simul cadent.

venerdì 4 marzo 2011

"Mi serve e non mi serve" di Mario Benedetti


La speranza così dolce
così pulita così triste
la promessa così lieve
non mi serve

non mi serve così mite
la speranza

la rabbia così docile
così debole così umile
l’ira così prudente
non mi serve

non mi serve così saggia
tanta rabbia

il grido così giusto
se il tempo lo permette
l’urlo accurato
non mi serve

non mi serve così buono
un gran tuono

il coraggio così docile
la bravura così inconsistente
la sfrontatezza così lenta
non mi serve

non mi serve così fredda
l’audacia

mi serve, sì, la vita
che è vita fino a morirne
il cuore allerta
sì, mi serve

mi serve quando avanza
la fiducia

mi serve il tuo sguardo
che è generoso e deciso
e il tuo silenzio schietto
sì mi serve

mi serve la misura
della tua vita

mi serve il tuo futuro
che è un presente libero
e la tua lotta di sempre
sì, mi serve

mi serve la tua battaglia
senza medaglia

mi serve la modestia
del tuo orgoglio possibile
e la tua mano sicura
sì, mi serve

mi serve il tuo sentiero
compañero.

mercoledì 2 marzo 2011

da "Il domani e il millennio" di José Saramago

Quanto alle visioni del futuro, credo sarebbe preferibile che cominciassimo col preoccuparci del giorno di domani, quando si suppone che saremo ancora quasi tutti vivi. Per la verità, se nel remoto 999, in qualche parte d'Europa, quei pochi saggi e quei tanti teologi che allora c'erano si fossero lanciati a pronosticare come sarebbe stato il mondo di lì a mille anni, scommetto che avrebbero sbagliato in toto. Tuttavia, in qualcosa penso che ci avrebbero più o meno azzeccato: che non ci sarebbe stata nessuna differenza fondamentale tra il confuso essere umano di oggi, che non sa e non vuole domandare dove lo portino, e la gente terrorizzata che, in quei giorni, era convinta di essere prossima alla fine del mondo. A paragone, sarà già prevedibile un numero ben maggiore di differenze d'ogni tipo tra le persone che siamo oggi e quelle che ci succederanno, non fra mille, non fra cento anni. In altre parole: forse abbiamo molto di più in comune con quelli che sono vissuti un millennio fa che non con quegli altri che da qui a un secolo abiteranno il pianeta... E' adesso he il mondo sta finendo, è al tramonto ciò che mille anni fa stava appena albeggiando.
Orbene, mentre il mondo si avvia lentamente alla fine, mentre il sole si avvia lentamente a tramontare, perché non dedicarci a pensare un po' al giorno di domani, a quel famoso domani in cui saremo quasi tutti felicemente vivi? Invece di un certo numero di proposte temerariamente gratuite su e a uso del terzo millennio, che lui stesso, molto probabilmente, s'incaricherà subito di mandare in fumo, perché non ci decidiamo a realizzare delle idee semplici e dei progetti che siano alla portata di qualsiasi comprensione? Questi, ad esempio, se di meglio non si trova: a) sviluppare partendo dalla retroguardia, e cioè far avvicinare alle prime file del benessere le masse crescenti di popolazione lasciate indietro dai modelli di sviluppo in uso; b) promuovere un significato nuovo dei doveri umani, rendendolo correlato all'esercizio pieno dei propri diritti; c) vivere come sopravvissuti, perché i beni, le ricchezze e i prodotti del pianeta non sono inesauribili; d) risolvere la contraddizione tra l'affermazione che siamo sempre più vicini gli uni agli altri e l'evidenza che ci troviamo sempre più isolati; e) ridurre la differenza, che aumenta giorno dopo giorno, tra coloro che sanno molto e coloro che sanno poco.
Credo sia dalle risposte che daremo a questioni come queste che dipenderanno il nostro domani e il nostro dopodomani. Che dipenderà il prossimo secolo. E tutto il millennio. A proposito, torniamo alla Filosofia.

martedì 1 marzo 2011

"Pensa agli altri" di Mahmoud Darwish


Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.
Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.
Mentre paghi la bolletta dell'acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.
Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.
Mentre dormi contando i pianeti, pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.