Bisogna dare atto a Matteo Salvini di essersela giocata bene e di avere vinto questa mano. Pur guidando un partito che ha ottenuto solo il 17% dei voti è riuscito a mettersi al centro del palcoscenico e soprattutto a darle un carattere. E' stato capace di polarizzare la scena e di dividere il paese - che peraltro è piuttosto incline a farlo - in tifoserie urlanti e non ascoltanti, riuscendo a tirarsi dietro il povero Di Maio, che invece non ha fatto una gran figura, e soprattutto a far cadere in trappola Mattarella e i suoi mandanti.
Pensate che per qualche giorno Salvini ha corso concretamente il rischio di andare al governo, dove avrebbe dovuto, in quattro e quattr'otto, abolire la legge Fornero e rimandare nei loro paesi un numero incalcolabile di migranti, per citare solo due tra le promesse più roboanti e più facilmente verificabili del suo programma. Certo avrebbe dato la colpa all'alleato, avrebbe rassicurato i suoi elettori che la prossima volta sarebbe stato diverso, ma ormai abbiamo visto che in politica è sempre più "buona la prima": o si riesce subito o si muore (vedi alla voce renzi). Invece ha costretto Mattarella a commettere un gesto forse non eversivo, forse non anticostituzionale - anche se su questo io continuo ad avere le mie perplessità - ma certamente un errore, perché l'uomo del Quirinale si è svestito del proprio ruolo istituzionale per diventare uomo di parte, anche perché nessun altro poteva - o voleva - farlo. In televisione Mattarella ha detto, apertis verbis e con una chiarezza che gli fa onore, che non ha voluto far nascere il governo perché non poteva farlo, perché da Francoforte e da Bruxelles gli hanno detto che non doveva farlo. E lui ha obbedito. Soprattutto Salvini è stato capace di dividere le tifoserie su un tema come l'euro, intestandosi l'opzione più popolare, perché molte persone, probabilmente la maggioranza, sono convinte che l'introduzione della moneta unica abbia rappresentato l'elemento scatenante della crisi.
Lo psicodramma che in cui siamo immersi in questi giorni - e che verosimilmente continuerà nei prossimi - è che sembra che abbiamo di fronte solo due scelte. Si diceva che Clint Eastwood avesse solo due espressioni: con il cappello e senza; allo stesso modo sembra che noi abbiamo due opzioni: con l'euro o senza, senza guardare al resto. Da questo punto di vista il "contratto" era assolutamente significativo: pur essendo molto ipocrita sul tema della moneta unica, aveva però una decisa impronta di classe, perché prevedeva una fortissima riduzione delle tasse per le imprese e per i più ricchi, a danno ovviamente dei più poveri. La destra anti-euro - da Boris Johnson a Salvini, passando per il fascistume vario in giro per l'Europa - è una destra liberista, che scarica la responsabilità su altri - le istituzioni europee da un lato e gli immigrati dall'altro - ma che accetta tutte i precetti dell'ultraliberismo trionfante: inasprimento della tassazione indiretta per diminuire quella diretta, allentamento del principio di progressività, privatizzazione dei servizi, riduzione delle tutele del lavoro. E' una destra che, a differenza dei fascismi dell'inizio del Novecento - con cui pure ha molti tratti in comune da un punto di vista propagandistico e culturale - crede che lo stato non possa intromettersi nell'economia, che i mercati debbano continuare a uccidere liberamente i poveri.
L'euro non è il male in sé, è un male perché per la prima volta nella storia non c'è uno stato che batta moneta, l'euro è il simbolo del capitalismo che si è affrancato dalla politica, che non riconosce più di essere sottomesso a una forza diversa da sé. Anzi se proprio devo dire, io, forse perché mi considero un internazionalista, credo che l'Europa potrebbe essere la dimensione politica per ottenere un risultato che piccoli movimenti non potrebbero raggiungere negli stati nazioni che abbiamo conosciuto fino ad ora. Penso che l'Europa potrebbe governare l'economia meglio di quanto lo potrebbero fare i singoli stati, anche perché ormai non esistono più le banche e le industrie dei singoli paesi, ma solo mostri che operano sopra gli stati. E le leggi dei singoli stati - anche quando ci fosse qualcuno che volesse applicarle - sarebbero impotenti contro queste forze. Il capitale si è fatto internazionale, noi non possiamo continuare a giocare negli angusti recinti degli stati.
Ho scritto nella foga di ieri "né con Mattarella né con i fascioleghisti", è una posizione che molti di voi non condividono, che mi ha tirato addosso molte critiche. Premesso che delle vostre critiche non me ne frega nulla - perché sono notoriamente un orso dal pessimo carattere - ribadisco il concetto, perché non ce la faccio a prendere parte tra due opzioni politiche che mi sono ugualmente estranee. Qui si stanno scontrando, anche duramente, per il potere due bande di sostenitori del capitalismo, io che ostinatamente sono un avversario del capitalismo non riesco a parteggiare per nessuna delle due.
Quindi non chiedetemi di firmare appelli a favore di fantomatici fronti unitari antifascisti, di rassemblement repubblicani, di fare girotondi con quelli della società civile, di cedere al meno peggio, di scendere in piazza a fianco di quelli del pd, ma neppure di quei miei antichi compagni che hanno fatto nascere quel partito e in seguito se ne sono un po' pentiti, di votare uno qualsiasi solo perché si dichiara all'opposizione del fascismo risorgente. E' una posizione minoritaria e settaria? Assolutamente sì. E' una posizione destinata alla sconfitta? Siamo già morti e quindi non mi preoccupo. E' una posizione rancorosa? Certo e comunque caldamente ricambiata. Ma è anche una posizione che mi provoca dolore, perché è il segno di una sconfitta mia personale - e questo conterebbe poco in fondo e comunque è una cosa che non vi riguarda - ma soprattutto di una generazione, o meglio di un paio di generazioni, di donne e uomini, di tutti noi che abbiamo dilapidato un patrimonio che altre donne e altri uomini, con più intelligenza e più coraggio, avevano costruito e ci hanno incautamente consegnato. Guardo a quello che succede con estremo pessimismo, perché noi di sinistra siamo culturalmente - prima ancora che politicamente - irrilevanti; e ce lo meritiamo.
E allo stesso modo non voglio partecipare a un dibattito sì o no sull'euro. Il discrimine deve essere sì o no sul capitalismo. E quando il tema sarà questo io sarò da una parte, Mattarella e Salvini saranno insieme dall'altra.
Continueremo a essere sconfitti? Noi certamente sì, noi non vedremo un mondo diverso da quello del finanzcapitalismo e dei suoi servi. Sarebbe già un grande risultato se fossimo capaci di consegnare a una generazione nuova un barlume di luce, non solo la nostra vergogna: ma credo che non faremo neppure questo.
lunedì 28 maggio 2018
venerdì 25 maggio 2018
Verba volant (527): nome...
Nome, sost. m.
Uno dei piaceri puri dell'infanzia è che in quel momento - e solo in quel brevissimo momento - abbiamo il potere di dare il nome alle persone e alle cose. E' un momento che dura poco, è una gioia che presto ci viene tolta, perché i grandi ci insegnano a chiamare le persone e le cose con i nomi corretti, e quando sbagliamo, volontariamente o inconsciamente, e continuiamo a usare quei "nostri" nomi, siamo ripresi, a volte perfino puniti, perché dobbiamo imparare che le persone e le cose hanno un "loro" nome e non sta a noi decidere quale né abbiamo il potere di cambiarlo.
Il racconto del Genesi sulla creazione del mondo non è particolarmente originale: in tante tradizioni antiche c'è un dio che dal nulla crea il cielo e la terra e poi via via ogni altra cosa fino all'uomo. C'è un passo però che ha un tratto decisamente insolito. Lo troviamo in 2,19:
Pensate alla gioia di questo primo uomo che ha deciso di chiamare mucca la mucca e gallina la gallina e a cui nessuno poteva dire "non si dice così". Perché il dio dell'antico testamento, che pure non era un dio di buon carattere e che da subito cominciò a mettere regole piuttosto stringenti, lasciò all'uomo questa assoluta libertà di dare il nome alle altre creature. Una libertà che già i suoi figli non ebbero più e che anche noi non abbiamo più, se non nei primi mesi in cui impariamo a parlare e in cui ci è ancora permesso di inventare e di usare dei nomi che poi dovremo abbandonare.
I poeti mantengono questa libertà, hanno ancora la facoltà di dare il loro nome alle cose, il mondo concede a loro una "licenza poetica", ma certo neppure il più grande dei poeti può chiamare mucca una gallina. Anche noi che non siamo poeti a volte godiamo dell'ebrezza di dare un nostro nome alle cose, ma lo facciamo clandestinamente, di nascosto, ci inventiamo un lessico privato con cui comunicare con la persona che amiamo: e solo per noi due quella cosa ha quel nome speciale, mentre tutti gli altri la chiamano in un altro modo - e anche noi, quando siamo con gli altri, la chiamiamo in quel modo - è un segreto, è qualcosa che ci unisce, è qualcosa che abbiamo in comune con quella persona. Come solo Odisseo e Penelope sapevano che il loro talamo nuziale non poteva essere spostato e chissà quali altri parole segrete - che neppure Omero sapeva - si scambiarono quei due dopo vent'anni, avendo così la gioia di riconoscersi e ritrovarsi. I nomi che noi diamo alle cose servono anche a questo, a creare legami indissolubili.
Per queste confuse ragioni, davvero non capisco perché i miei colleghi dello stato civile di Milano abbiano deciso di segnalare in procura i genitori che hanno voluto registrare la loro figlia con il nome Blu, in forza di una norma che prescrive che il nome debba far capire in maniera inequivoca quale sia il sesso della creatura. Non so neppure quali ragioni abbiano spinto il magistrato competente a non procedere, magari si è trattato solo di pigrizia, della voglia di evitare fastidi su una una causa irrilevante, ma che poteva portare grane.
I genitori di Blu, per sostenere la loro tesi, hanno detto che in questo anno e mezzo - perché intanto la bambina è cresciuta - si sono sempre più convinti della loro scelta perché
Comunque sia, chiunque abbia ragione, Blu continuerà a chiamarsi così. E mi auguro che diventi una donna forte e intelligente, come sperano i suoi genitori, ma lo sarebbe stata anche se si fosse chiamata Maria. Poi, se vorrà, potrà anche cambiare ufficialmente il proprio nome, oppure avrà un nome segreto, che conoscerà solo la persona che amerà. E anche quello, che nessuno di noi saprà mai, sarà il suo nome.
Uno dei piaceri puri dell'infanzia è che in quel momento - e solo in quel brevissimo momento - abbiamo il potere di dare il nome alle persone e alle cose. E' un momento che dura poco, è una gioia che presto ci viene tolta, perché i grandi ci insegnano a chiamare le persone e le cose con i nomi corretti, e quando sbagliamo, volontariamente o inconsciamente, e continuiamo a usare quei "nostri" nomi, siamo ripresi, a volte perfino puniti, perché dobbiamo imparare che le persone e le cose hanno un "loro" nome e non sta a noi decidere quale né abbiamo il potere di cambiarlo.
Il racconto del Genesi sulla creazione del mondo non è particolarmente originale: in tante tradizioni antiche c'è un dio che dal nulla crea il cielo e la terra e poi via via ogni altra cosa fino all'uomo. C'è un passo però che ha un tratto decisamente insolito. Lo troviamo in 2,19:
Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.
Pensate alla gioia di questo primo uomo che ha deciso di chiamare mucca la mucca e gallina la gallina e a cui nessuno poteva dire "non si dice così". Perché il dio dell'antico testamento, che pure non era un dio di buon carattere e che da subito cominciò a mettere regole piuttosto stringenti, lasciò all'uomo questa assoluta libertà di dare il nome alle altre creature. Una libertà che già i suoi figli non ebbero più e che anche noi non abbiamo più, se non nei primi mesi in cui impariamo a parlare e in cui ci è ancora permesso di inventare e di usare dei nomi che poi dovremo abbandonare.
I poeti mantengono questa libertà, hanno ancora la facoltà di dare il loro nome alle cose, il mondo concede a loro una "licenza poetica", ma certo neppure il più grande dei poeti può chiamare mucca una gallina. Anche noi che non siamo poeti a volte godiamo dell'ebrezza di dare un nostro nome alle cose, ma lo facciamo clandestinamente, di nascosto, ci inventiamo un lessico privato con cui comunicare con la persona che amiamo: e solo per noi due quella cosa ha quel nome speciale, mentre tutti gli altri la chiamano in un altro modo - e anche noi, quando siamo con gli altri, la chiamiamo in quel modo - è un segreto, è qualcosa che ci unisce, è qualcosa che abbiamo in comune con quella persona. Come solo Odisseo e Penelope sapevano che il loro talamo nuziale non poteva essere spostato e chissà quali altri parole segrete - che neppure Omero sapeva - si scambiarono quei due dopo vent'anni, avendo così la gioia di riconoscersi e ritrovarsi. I nomi che noi diamo alle cose servono anche a questo, a creare legami indissolubili.
Per queste confuse ragioni, davvero non capisco perché i miei colleghi dello stato civile di Milano abbiano deciso di segnalare in procura i genitori che hanno voluto registrare la loro figlia con il nome Blu, in forza di una norma che prescrive che il nome debba far capire in maniera inequivoca quale sia il sesso della creatura. Non so neppure quali ragioni abbiano spinto il magistrato competente a non procedere, magari si è trattato solo di pigrizia, della voglia di evitare fastidi su una una causa irrilevante, ma che poteva portare grane.
I genitori di Blu, per sostenere la loro tesi, hanno detto che in questo anno e mezzo - perché intanto la bambina è cresciuta - si sono sempre più convinti della loro scelta perché
i suoi occhi e il suo carattere forte rappresentano al meglio il colore che le dà il nome.Curiosa questa posizione. Nel Cratilo, uno dei suoi dialoghi del cosiddetto periodo di mezzo, Platone contrappone due teorie. Ermogene, riprendendo le tesi dei sofisti, sostiene che i nomi siano convenzioni, mentre Cratilo, sostenuto anche da Socrate, pensa che contengano una qualche caratteristica capace di renderli perfetti nell'adattarsi alla persona o alla cosa a cui si riferiscono. Per Platone i nomi sarebbero in qualche modo naturali e Blu, almeno a sentire quello che dice suo padre, non sarebbe potuta che chiamarsi così. Come sapete, io sono un vecchio sofista e credo che anche in questo caso il filosofo ateniese sia in errore: noi chiamiamo gallina la gallina perché un tempo qualcuno ha cominciato a usare quella parola e lentamente quel nome si è affermato e ora non potremmo davvero usarne un altro. Perché il nome, come ci spiega l'etimologia di questa parola, è ciò che ci fa conoscere una persona o una cosa, ma sappiamo anche che le storie dei nomi seguono percorsi spesso contorti, molto più complessi di quello che immagina l'ingenuo autore del Genesi o il dottissimo Platone.
Comunque sia, chiunque abbia ragione, Blu continuerà a chiamarsi così. E mi auguro che diventi una donna forte e intelligente, come sperano i suoi genitori, ma lo sarebbe stata anche se si fosse chiamata Maria. Poi, se vorrà, potrà anche cambiare ufficialmente il proprio nome, oppure avrà un nome segreto, che conoscerà solo la persona che amerà. E anche quello, che nessuno di noi saprà mai, sarà il suo nome.
mercoledì 23 maggio 2018
Verba volant (526): concerto...
Concerto, sost. m.
La decisione - sbagliata - della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Bologna di non autorizzare il concerto degli Stato sociale, organizzato dal Comune in piazza Maggiore per metà giugno, non è solo una notizia di cronaca locale, ma credo permetta di riflettere sull'uso che facciamo delle nostre città e sull'idea di cultura, dal momento che il motivo del diniego è la mancanza dell'"alto valore culturale", il solo che giustificherebbe l'uso di quella piazza storica. Come vedete due temi di una qualche rilevanza, perfino per questo sfortunato paese. Per inciso spero sarete solidali con me perché dover difendere una presa di posizione dell'amministrazione comunale di Bologna mi costa davvero una grandissima fatica.
Il primo errore - grave errore - di questa vicenda è stato quello di vincolare l'uso di piazza Maggiore - o di qualunque altra piazza storica del nostro paese - alla decisione di una Soprintendenza. Una piazza non può mai diventare un museo, ma è un pezzo della città, e quindi deve spettare ai cittadini - e all'amministrazione che li rappresenta - decidere cosa fare in quella piazza. E se facendo una manifestazione in quella piazza qualcosa si danneggia? Può succedere, anche se si fa molta attenzione: in quel caso la città lo aggiusterà. E se facendo qualcosa quella piazza si sporca? Questo succede sicuramente, bisogna organizzarsi per pulire dopo che quella manifestazione è finita. Secondo me l'unico discrimine è vedere se si tratta di un evento pubblico o privato, perché non puoi chiudere piazza Maggiore, una piazza deve rimanere sempre un luogo pubblico, aperto a tutti, anche se chi organizza un evento è un privato, che ovviamente in questo caso si dovrà far carico degli eventuali danni e della pulizia. Non possono esserci altre regole. La città deve sempre avere il potere di decidere cosa fare in piazza, tranne quello di "vendere" quello spazio pubblico, anche per un solo giorno, a qualcuno che lo voglia chiudere.
La piazza non è un museo, ma un teatro, in cui la città rappresenta se stessa. E' stato fatto di tutto in piazza Maggiore: feste, concerti, incoronazioni, funerali, grandi manifestazioni politiche - qualcuna l'ho organizzata anch'io - sono stati montati palchi, strutture di barocca complessità. Nel 1655, per rendere omaggio alla regina di Svezia, la giostra di quell'anno fu fatta su una grande nave, la cui prua toccava la facciata del palazzo dei Banchi, all'altezza di via Pescherie, e la poppa era appoggiata alla ringhiera sopra la porta di palazzo d'Accursio. Immagino che oggi la Soprintendenza non darebbe il permesso. E piazza Maggiore è ancora lì, in attesa di altri eventi per raccontare la città e i suoi cambiamenti. Poi ci può non piacere come la città si rappresenta, ma forse perché non ci piace neppure quello che la città è diventata.
Per almeno cinque secoli la sera del 24 agosto, la sera di san Bartolomeo, si svolgeva la "festa della porchetta" così chiamata perché "una porcellina arrostita di honesta grandezza" veniva gettata al popolo dal palazzo del Podestà e "quella sera ogn'uno ha del porco, ogn'uno s'unge il muso, ogn'uno sguazza". Così allora la città si raccontava, come oggi vorrebbe raccontarsi con le canzoni: è giusto che sia così. E tra quattro secoli qualcuno in un blog scriverà dei concerti che si facevano in quella piazza, dai Clash agli Stato sociale, passando per Dino Sarti.
Era il 1974, erano gli anni dell'austerity a seguito della crisi petrolifera del '73, e il sindaco Renato Zangheri chiese a Dino Sarti di esibirsi il 14 agosto in piazza Maggiore. L'Estate romana sarebbe cominciata tre anni dopo, allora le città d'agosto sembravano deserte, un cartello dopo l'altro di "chiuso per ferie", eppure quella piazza si riempì, perché erano tante le persone che erano a casa e Zangheri lo aveva capito. Dino Sarti con le sue simpatiche canzoni metà in italiano e metà in dialetto, con le versioni in bolognese di Brel e Bécaud, con le vecchie canzonette di Carlo Musi, sarebbe stato considerato di "alto valore culturale"? Probabilmente no, almeno per chi pensa che solo "certa" musica sia cultura. E il professor Zangheri non era certo persona a cui mancasse gusto musicale, sarebbe stato probabilmente più consono alle sue corde organizzare un concerto lirico o sinfonico, ma scelse Dino Sarti, perché voleva che fosse un appuntamento della città, di tutta la città. E per molti anni Bologna volle raccontare se stessa anche attraverso quel concerto del 14 agosto, che veniva ripetuto, con le stesse rassicuranti canzoni che tutti conoscevano, con le battute di Dino Sarti che tutti ormai si aspettavano. Aveva ragione Zangheri: quella era cultura, perché quello allora univa in qualche modo una comunità, la raccontava. Pare che il soprintendente abbia detto che non conosce gli Stato sociale: può succedere, in fondo non è così grave; è più grave, visto l'incarico che ha, che non conosca il significato di cultura.
Liberiamo le città da questa burocrazia ignorante che le vuole far morire. Liberiamo la musica e ogni altra espressione artistica da chi vuol decidere cosa è cultura e cosa no.
La decisione - sbagliata - della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Bologna di non autorizzare il concerto degli Stato sociale, organizzato dal Comune in piazza Maggiore per metà giugno, non è solo una notizia di cronaca locale, ma credo permetta di riflettere sull'uso che facciamo delle nostre città e sull'idea di cultura, dal momento che il motivo del diniego è la mancanza dell'"alto valore culturale", il solo che giustificherebbe l'uso di quella piazza storica. Come vedete due temi di una qualche rilevanza, perfino per questo sfortunato paese. Per inciso spero sarete solidali con me perché dover difendere una presa di posizione dell'amministrazione comunale di Bologna mi costa davvero una grandissima fatica.
Il primo errore - grave errore - di questa vicenda è stato quello di vincolare l'uso di piazza Maggiore - o di qualunque altra piazza storica del nostro paese - alla decisione di una Soprintendenza. Una piazza non può mai diventare un museo, ma è un pezzo della città, e quindi deve spettare ai cittadini - e all'amministrazione che li rappresenta - decidere cosa fare in quella piazza. E se facendo una manifestazione in quella piazza qualcosa si danneggia? Può succedere, anche se si fa molta attenzione: in quel caso la città lo aggiusterà. E se facendo qualcosa quella piazza si sporca? Questo succede sicuramente, bisogna organizzarsi per pulire dopo che quella manifestazione è finita. Secondo me l'unico discrimine è vedere se si tratta di un evento pubblico o privato, perché non puoi chiudere piazza Maggiore, una piazza deve rimanere sempre un luogo pubblico, aperto a tutti, anche se chi organizza un evento è un privato, che ovviamente in questo caso si dovrà far carico degli eventuali danni e della pulizia. Non possono esserci altre regole. La città deve sempre avere il potere di decidere cosa fare in piazza, tranne quello di "vendere" quello spazio pubblico, anche per un solo giorno, a qualcuno che lo voglia chiudere.
La piazza non è un museo, ma un teatro, in cui la città rappresenta se stessa. E' stato fatto di tutto in piazza Maggiore: feste, concerti, incoronazioni, funerali, grandi manifestazioni politiche - qualcuna l'ho organizzata anch'io - sono stati montati palchi, strutture di barocca complessità. Nel 1655, per rendere omaggio alla regina di Svezia, la giostra di quell'anno fu fatta su una grande nave, la cui prua toccava la facciata del palazzo dei Banchi, all'altezza di via Pescherie, e la poppa era appoggiata alla ringhiera sopra la porta di palazzo d'Accursio. Immagino che oggi la Soprintendenza non darebbe il permesso. E piazza Maggiore è ancora lì, in attesa di altri eventi per raccontare la città e i suoi cambiamenti. Poi ci può non piacere come la città si rappresenta, ma forse perché non ci piace neppure quello che la città è diventata.
Per almeno cinque secoli la sera del 24 agosto, la sera di san Bartolomeo, si svolgeva la "festa della porchetta" così chiamata perché "una porcellina arrostita di honesta grandezza" veniva gettata al popolo dal palazzo del Podestà e "quella sera ogn'uno ha del porco, ogn'uno s'unge il muso, ogn'uno sguazza". Così allora la città si raccontava, come oggi vorrebbe raccontarsi con le canzoni: è giusto che sia così. E tra quattro secoli qualcuno in un blog scriverà dei concerti che si facevano in quella piazza, dai Clash agli Stato sociale, passando per Dino Sarti.
Era il 1974, erano gli anni dell'austerity a seguito della crisi petrolifera del '73, e il sindaco Renato Zangheri chiese a Dino Sarti di esibirsi il 14 agosto in piazza Maggiore. L'Estate romana sarebbe cominciata tre anni dopo, allora le città d'agosto sembravano deserte, un cartello dopo l'altro di "chiuso per ferie", eppure quella piazza si riempì, perché erano tante le persone che erano a casa e Zangheri lo aveva capito. Dino Sarti con le sue simpatiche canzoni metà in italiano e metà in dialetto, con le versioni in bolognese di Brel e Bécaud, con le vecchie canzonette di Carlo Musi, sarebbe stato considerato di "alto valore culturale"? Probabilmente no, almeno per chi pensa che solo "certa" musica sia cultura. E il professor Zangheri non era certo persona a cui mancasse gusto musicale, sarebbe stato probabilmente più consono alle sue corde organizzare un concerto lirico o sinfonico, ma scelse Dino Sarti, perché voleva che fosse un appuntamento della città, di tutta la città. E per molti anni Bologna volle raccontare se stessa anche attraverso quel concerto del 14 agosto, che veniva ripetuto, con le stesse rassicuranti canzoni che tutti conoscevano, con le battute di Dino Sarti che tutti ormai si aspettavano. Aveva ragione Zangheri: quella era cultura, perché quello allora univa in qualche modo una comunità, la raccontava. Pare che il soprintendente abbia detto che non conosce gli Stato sociale: può succedere, in fondo non è così grave; è più grave, visto l'incarico che ha, che non conosca il significato di cultura.
Liberiamo le città da questa burocrazia ignorante che le vuole far morire. Liberiamo la musica e ogni altra espressione artistica da chi vuol decidere cosa è cultura e cosa no.
da "Ho sposato un comunista" di Philip Roth
- La politica è la grande generalizzatrice, - mi diceva Leo, - e la letteratura è la grande particolareggiatrice, e non soltanto esse sono tra loro in relazione inversa, ma hanno addirittura un rapporto antagonistico. Per la politica, la letteratura è decadente, molle, irrilevante, fastidiosa, ostinata, noiosa, una cosa che non ha senso e che non dovrebbe neppure esistere. Perché? Perché la letteratura è l’impulso a entrare nei particolari. Come puoi essere un artista e rinunciare alle sfumature? Ma come puoi essere un politico e permettere le sfumature? Come artista, le sfumature sono il tuo dovere. Il tuo dovere è non semplificare. Anche se tu dovessi scegliere di scrivere nel modo più semplice, alla Hemingway, resta il dovere di dare la sfumatura, spiegare la complicazione, suggerire la contraddizione. Non cancellare la contraddizione, non negare la contraddizione, ma vedere dove, all’interno della contraddizione, si colloca lo straziato essere umano. Tener conto del caos, farlo entrare. Devi farlo entrare. Altrimenti produci propaganda, se non per un partito politico, per un movimento politico, stupida propaganda per la vita stessa, per la vita come essa stessa, forse, vorrebbe essere propagandata.
Nei primi cinque o sei anni della rivoluzione russa i rivoluzionari gridavano: “Amore libero, ci sarà l’amore libero!” Ma, una volta al potere, non potevano permetterlo. Perché l’amore libero cos’è? È il caos. Ed essi non volevano il caos. Non era per questo che avevano fatto la loro gloriosa rivoluzione. Volevano qualcosa di accuratamente disciplinato, organizzato, contenuto, prevedibile scientificamente, se possibile. L’amore libero nuoce all’organizzazione, all’apparato sociale, politico e culturale. Anche l’arte nuoce all’organizzazione. La letteratura nuoce all’organizzazione. Non perché sia apertamente pro o contro, o anche subdolamente pro o contro. Nuoce all’organizzazione perché non è generale. L’intrinseca natura del particolare consiste nella sua particolarità, e l’intrinseca natura della particolarità sta nel non potersi conformare.
Sofferenza generalizzata? Ecco il comunismo. Sofferenza particolareggiata? Ecco la letteratura. L’antagonismo è in questa polarità. Tenere in vita il particolare in un mondo che semplifica e generalizza: ecco dove comincia la lotta. Non devi scrivere per legittimare il comunismo e non devi scrivere per legittimare il capitalismo. Sei estraneo all’uno e all’altro. Se sei uno scrittore, non ti allei né con l’uno né con l’altro. Sì, vedi le differenze, e naturalmente vedi che questa merda è un po’ meglio di quella merda, o che quella merda è un po’ meglio di questa merda. Molto meglio, forse. Ma la merda tu la vedi. Non sei un funzionario governativo. Non sei un militante. Non sei un credente. Sei uno che affronta il mondo, e ciò che vi accade, in un modo assai diverso. Il militante introduce una fede, una grande idea che cambierà il mondo, mentre l’artista introduce un prodotto per il quale, al mondo, non c’è posto. È un prodotto inutile. L’artista, lo scrittore serio, introduce nel mondo una cosa che non c’era neanche all’inizio.
Quando Dio, in sette giorni, creò tutta questa roba, gli uccelli, i fiumi, gli esseri umani, non ebbe dieci minuti per la letteratura. “E poi ci sarà la letteratura. A qualcuno piacerà, altri ne saranno ossessionati, vorranno farla…” No. No. Non disse così. Se allora tu avessi chiesto a Dio: “Ci saranno degli idraulici?” “Sì, ci saranno. Poiché avranno delle case, avranno bisogno di idraulici.” “Ci saranno dei medici?” “Sì. Poiché si ammaleranno, avranno bisogno di medici che diano loro delle pillole.” “E la letteratura?” “La letteratura? Che stai dicendo? A che serve? Dove la mettiamo? Per piacere, sto creando un universo, io, mica un’università. Niente letteratura”.
sabato 19 maggio 2018
Verba volant (525): test...
Test, sost. m.
4 comunisti, perché hanno poca voglia di lavorare, guadagnano al giorno £ 8 e 4 fascisti guadagnano £ 15 al giorno. Chi guadagna di più?
Si tratta di un facile esercizio aritmetico per vedere se i bambini di epoca fascista sapevano fare le moltiplicazioni. Ce ne sono tanti di questo genere che servivano a costruire l'ideologia del regime, a farla vivere nella mente dei bambini.
Pensando al tuo futuro, quanto pensi che siano vere queste frasi?
A. Raggiungerò il titolo di studio che voglio
B. Avrò sempre abbastanza soldi per vivere
C. Nella vita riuscirò a fare ciò che desidero
D. Riuscirò a comprare le cose che voglio
E. Troverò un buon lavoro
Questa invece è la domanda numero dieci del questionario Invalsi per la rilevazione delle informazioni sugli studenti, a cui i bambini delle classi quinte della scuola primaria hanno dovuto rispondere in questi giorni. I bambini dovevano mettere per ogni frase una crocetta su uno dei sei quadrati: per niente; pochissimo; poco; abbastanza; molto; totalmente. Anche in questo caso il bambino diventa il destinatario di un messaggio, ben chiaro: esisti se hai i soldi. E' il pensiero unico del capitalismo trasferito in un test per la scuola elementare.
Sono passati più di ottant'anni tra questi due testi e devo riconoscere che una differenza c'è. E purtroppo quello attuale è perfino peggiore di quello di epoca fascista. Perché in questo il messaggio è esplicito, quell'esercizio era stato scritto da un anonimo redattore di un sussidiario per le scuole elementari con un obiettivo preciso e seguendo chiare direttive. Temo invece che l'anonimo autore del test Invalsi non si sia neppure reso conto di quello che stava scrivendo. Per verificare il grado di maturità del bambino - perché immagino sia questo lo scopo di questa domanda - chi l'ha scritta ha usato l'unico metro di giudizio che egli conosce e che evidentemente considera condiviso da tutti. E che è condiviso da tutti. Ossia il denaro e la capacità di comprare. Tra l'altro è anche significativo l'ordine con cui le frasi sono presentate: il lavoro viene messo alla fine e perde la relazione con i soldi. Il punto focale è "comprare le cose che voglio".
Quando io ero un ragazzino mi dicevano che dovevo studiare e che se avessi studiato avrei trovato un lavoro. I miei genitori, che non avevano studiato e che comunque avevano un lavoro migliore dei loro padri e delle loro madri, ne erano convinti e in qualche modo credo per quelli della mia generazione questo sia stato ancora vero. Probabilmente siamo stati gli ultimi. Adesso, se avessi un figlio, io avrei la certezza che il suo lavoro non dipenderebbe da quanto e come ha studiato. E naturalmente per i miei genitori era chiara la relazione tra lavoro migliore e salario maggiore. Anche in questo caso io non lo potrei più credere per un mio ipotetico figlio. In sostanza per quelli della mia generazione l'idea era: più studi, migliore sarà il tuo lavoro, e quindi migliore sarà il tuo futuro.
Io alla fine della quinta elementare non avrei saputo rispondere a queste cinque domande, e forse neppure alla fine delle medie. Alla fine del liceo avrei saputo rispondere con una certa sicurezza sul fatto che sarei riuscito a laurearmi - che era il mio obiettivo di allora - e probabilmente avrei risposto positivamente anche all'ultima domanda, sull'onda di un giovanile entusiasmo. Solo adesso che ho quasi cinquant'anni credo di poter rispondere in maniera positiva alle domande B. e C. Mentre trovo fuorviante la quarta: perché l'importante è riuscire a comprare le cose di cui io e la mia famiglia abbiamo bisogno, non ciò che voglio.
Spero che i bambini abbiano messo le crocette in maniera anarchica e casuale in quei trenta quadrati, ma ho paura di un testo del genere e credo abbia contribuito, insieme a quello che vedono in televisione, a quello che ascoltano in casa dalle loro famiglie, a tutto quello che insegniamo loro, più o meno volontariamente, a farli diventare meri consumatori. Quel testo, nella sua burocratica asetticità, ci dice che a noi non importa se i nostri figli e le nostre figlie saranno felici o peggio che crediamo che saranno felici solo con in mano l'ultimo modello di smartphone.
4 comunisti, perché hanno poca voglia di lavorare, guadagnano al giorno £ 8 e 4 fascisti guadagnano £ 15 al giorno. Chi guadagna di più?
Si tratta di un facile esercizio aritmetico per vedere se i bambini di epoca fascista sapevano fare le moltiplicazioni. Ce ne sono tanti di questo genere che servivano a costruire l'ideologia del regime, a farla vivere nella mente dei bambini.
Pensando al tuo futuro, quanto pensi che siano vere queste frasi?
A. Raggiungerò il titolo di studio che voglio
B. Avrò sempre abbastanza soldi per vivere
C. Nella vita riuscirò a fare ciò che desidero
D. Riuscirò a comprare le cose che voglio
E. Troverò un buon lavoro
Questa invece è la domanda numero dieci del questionario Invalsi per la rilevazione delle informazioni sugli studenti, a cui i bambini delle classi quinte della scuola primaria hanno dovuto rispondere in questi giorni. I bambini dovevano mettere per ogni frase una crocetta su uno dei sei quadrati: per niente; pochissimo; poco; abbastanza; molto; totalmente. Anche in questo caso il bambino diventa il destinatario di un messaggio, ben chiaro: esisti se hai i soldi. E' il pensiero unico del capitalismo trasferito in un test per la scuola elementare.
Sono passati più di ottant'anni tra questi due testi e devo riconoscere che una differenza c'è. E purtroppo quello attuale è perfino peggiore di quello di epoca fascista. Perché in questo il messaggio è esplicito, quell'esercizio era stato scritto da un anonimo redattore di un sussidiario per le scuole elementari con un obiettivo preciso e seguendo chiare direttive. Temo invece che l'anonimo autore del test Invalsi non si sia neppure reso conto di quello che stava scrivendo. Per verificare il grado di maturità del bambino - perché immagino sia questo lo scopo di questa domanda - chi l'ha scritta ha usato l'unico metro di giudizio che egli conosce e che evidentemente considera condiviso da tutti. E che è condiviso da tutti. Ossia il denaro e la capacità di comprare. Tra l'altro è anche significativo l'ordine con cui le frasi sono presentate: il lavoro viene messo alla fine e perde la relazione con i soldi. Il punto focale è "comprare le cose che voglio".
Quando io ero un ragazzino mi dicevano che dovevo studiare e che se avessi studiato avrei trovato un lavoro. I miei genitori, che non avevano studiato e che comunque avevano un lavoro migliore dei loro padri e delle loro madri, ne erano convinti e in qualche modo credo per quelli della mia generazione questo sia stato ancora vero. Probabilmente siamo stati gli ultimi. Adesso, se avessi un figlio, io avrei la certezza che il suo lavoro non dipenderebbe da quanto e come ha studiato. E naturalmente per i miei genitori era chiara la relazione tra lavoro migliore e salario maggiore. Anche in questo caso io non lo potrei più credere per un mio ipotetico figlio. In sostanza per quelli della mia generazione l'idea era: più studi, migliore sarà il tuo lavoro, e quindi migliore sarà il tuo futuro.
Io alla fine della quinta elementare non avrei saputo rispondere a queste cinque domande, e forse neppure alla fine delle medie. Alla fine del liceo avrei saputo rispondere con una certa sicurezza sul fatto che sarei riuscito a laurearmi - che era il mio obiettivo di allora - e probabilmente avrei risposto positivamente anche all'ultima domanda, sull'onda di un giovanile entusiasmo. Solo adesso che ho quasi cinquant'anni credo di poter rispondere in maniera positiva alle domande B. e C. Mentre trovo fuorviante la quarta: perché l'importante è riuscire a comprare le cose di cui io e la mia famiglia abbiamo bisogno, non ciò che voglio.
Spero che i bambini abbiano messo le crocette in maniera anarchica e casuale in quei trenta quadrati, ma ho paura di un testo del genere e credo abbia contribuito, insieme a quello che vedono in televisione, a quello che ascoltano in casa dalle loro famiglie, a tutto quello che insegniamo loro, più o meno volontariamente, a farli diventare meri consumatori. Quel testo, nella sua burocratica asetticità, ci dice che a noi non importa se i nostri figli e le nostre figlie saranno felici o peggio che crediamo che saranno felici solo con in mano l'ultimo modello di smartphone.
giovedì 17 maggio 2018
Verba volant (524): fascino...
Fascino, sost. m.
In questi giorni è nei cinema italiani Escobar - Il fascino del male, il cui successo è certo sostenuto dai due protagonisti, Javier Bardem e Penélope Cruz, due bravissimi attori, ma anche due personaggi assolutamente glamour, da copertina. Non ho visto il film, questa definizione non vuole essere una recensione, ma - come quasi sempre mi succede - il pretesto per raccontare qualcos'altro. So che Pablo Escobar è già stato raccontato in un film e soprattutto in una fortunata serie televisiva, Narcos, giunta alla terza stagione. Il trafficante colombiano è un "cattivo" di questi anni, uno dei peggiori probabilmente, è giusto che l'arte lo racconti. Lo ha sempre fatto e lo farà sempre.
Il mondo è terribilmente complicato. Il cattivo non è più quello dei film americani in bianco e nero, in cui ti accorgevi subito chi era il cattivo, perché aveva la "faccia" del cattivo. Anzi lo sapevi dai titoli di testa, perché in quei film spesso il cattivo era Basil Rathbone, che fu anche il più famoso Sherlock Holmes del grande schermo. E per tutto il film il cattivo faceva il cattivo, fino a che non moriva o comunque era messo in condizione di non commettere più del male. Noi sappiamo - anche a nostre spese, talvolta - che quello che ti fa davvero del male è uno che all'inizio non sembra pericoloso. E sappiamo anche che nessuno di noi è sempre uguale, ma che ci sono momenti, occasioni, fasi della vita, in cui siamo migliori - o come vorremmo essere - e altri in cui siamo peggiori - o come non vorremmo essere. E ci sono motivi per cui siamo davvero crudeli, a volte ci serviamo di questi motivi come un alibi, ma talvolta capire perché qualcuno è diventato così è molto utile: magari per non diventare noi allo stesso modo o per impedire che altri lo diventino.
Ma cosa succede quando l'eroe di una storia è un personaggio negativo e magari è interpretato da qualcuno che normalmente ammiriamo? Quanto è pericoloso il fascino che esercita su di noi?
Il significato etimologico di fascino è abbastanza diverso dal valore che noi diamo a questa parola in italiano. Avere fascino è una dote, che invidiamo a chi ce l'ha o che ci illudiamo di avere, e che troppo spesso banalizziamo e riduciamo alla bellezza. In latino fascinum ha invece un significato negativo, richiamando anche un termine greco con la stessa radice: è un influsso malefico, che si esercita per lo più attraverso le parole - la radice infatti è la stessa che ritroviamo nelle lingue antiche in verbi che significano dire, parlare - è una sorta di incantesimo, che può condurre alla rovina, e perfino alla morte. Il fascino quindi è qualcosa da maneggiare con cura, specialmente quando lo racconti, quando lo rappresenti.
Ovviamente non credo che il film di Leòn de Aranoa spinga le persone a diventare narcotrafficanti, così come c'era qualche imbecille che voleva censurare Gomorra perché avrebbe istigato alla violenza camorrista. Ma certamente guardare un film o una serie incentrati su un personaggio negativo, totalmente negativo - come in questo caso, un uomo che ha passato la vita a uccidere e che è diventato uno degli uomini più ricchi del mondo sulla sofferenza di milioni di persone che acquistavano la sua droga - dovrebbe porre delle domande, domande a cui forse non sappiamo più dare risposta. E questo credo sia il problema.
Se avessi un figlio certamente gli permetterei di guardare Narcos, non avrei paura che andasse al cinema a vedere un film su Pablo Escobar. Ma con altrettanta certezza sarei davvero preoccupato per il clima di impunita violenza in cui starebbe crescendo, in cui stanno crescendo i vostri figli, in cui viviamo tutti i giorni. Sarei preoccupato di farlo crescere in una società in cui non esiste più il senso di responsabilità, in cui se uno è più debole deve in qualche modo rassegnarsi e adattarsi, mentre quando è forte può fare quello che vuole, in cui, specialmente se fosse una ragazza, sarebbe più importante il suo aspetto rispetto alla sua intelligenza. Sarei preoccupato perché in questa ignorante meschineria in cui galleggiamo farebbe molta fatica a difendersi dal fascino, specialmente da quello del male, anche perché non mi pare che ci sia il rischio che incontri sulla sua strada quello del bene, dell'impegno, della solidarietà. Rischiamo che Pablo Escobar sia l'unico eroe che incontra, perché non sappiamo offrirne altri.
In questi giorni è nei cinema italiani Escobar - Il fascino del male, il cui successo è certo sostenuto dai due protagonisti, Javier Bardem e Penélope Cruz, due bravissimi attori, ma anche due personaggi assolutamente glamour, da copertina. Non ho visto il film, questa definizione non vuole essere una recensione, ma - come quasi sempre mi succede - il pretesto per raccontare qualcos'altro. So che Pablo Escobar è già stato raccontato in un film e soprattutto in una fortunata serie televisiva, Narcos, giunta alla terza stagione. Il trafficante colombiano è un "cattivo" di questi anni, uno dei peggiori probabilmente, è giusto che l'arte lo racconti. Lo ha sempre fatto e lo farà sempre.
Il mondo è terribilmente complicato. Il cattivo non è più quello dei film americani in bianco e nero, in cui ti accorgevi subito chi era il cattivo, perché aveva la "faccia" del cattivo. Anzi lo sapevi dai titoli di testa, perché in quei film spesso il cattivo era Basil Rathbone, che fu anche il più famoso Sherlock Holmes del grande schermo. E per tutto il film il cattivo faceva il cattivo, fino a che non moriva o comunque era messo in condizione di non commettere più del male. Noi sappiamo - anche a nostre spese, talvolta - che quello che ti fa davvero del male è uno che all'inizio non sembra pericoloso. E sappiamo anche che nessuno di noi è sempre uguale, ma che ci sono momenti, occasioni, fasi della vita, in cui siamo migliori - o come vorremmo essere - e altri in cui siamo peggiori - o come non vorremmo essere. E ci sono motivi per cui siamo davvero crudeli, a volte ci serviamo di questi motivi come un alibi, ma talvolta capire perché qualcuno è diventato così è molto utile: magari per non diventare noi allo stesso modo o per impedire che altri lo diventino.
Ma cosa succede quando l'eroe di una storia è un personaggio negativo e magari è interpretato da qualcuno che normalmente ammiriamo? Quanto è pericoloso il fascino che esercita su di noi?
Il significato etimologico di fascino è abbastanza diverso dal valore che noi diamo a questa parola in italiano. Avere fascino è una dote, che invidiamo a chi ce l'ha o che ci illudiamo di avere, e che troppo spesso banalizziamo e riduciamo alla bellezza. In latino fascinum ha invece un significato negativo, richiamando anche un termine greco con la stessa radice: è un influsso malefico, che si esercita per lo più attraverso le parole - la radice infatti è la stessa che ritroviamo nelle lingue antiche in verbi che significano dire, parlare - è una sorta di incantesimo, che può condurre alla rovina, e perfino alla morte. Il fascino quindi è qualcosa da maneggiare con cura, specialmente quando lo racconti, quando lo rappresenti.
Ovviamente non credo che il film di Leòn de Aranoa spinga le persone a diventare narcotrafficanti, così come c'era qualche imbecille che voleva censurare Gomorra perché avrebbe istigato alla violenza camorrista. Ma certamente guardare un film o una serie incentrati su un personaggio negativo, totalmente negativo - come in questo caso, un uomo che ha passato la vita a uccidere e che è diventato uno degli uomini più ricchi del mondo sulla sofferenza di milioni di persone che acquistavano la sua droga - dovrebbe porre delle domande, domande a cui forse non sappiamo più dare risposta. E questo credo sia il problema.
Se avessi un figlio certamente gli permetterei di guardare Narcos, non avrei paura che andasse al cinema a vedere un film su Pablo Escobar. Ma con altrettanta certezza sarei davvero preoccupato per il clima di impunita violenza in cui starebbe crescendo, in cui stanno crescendo i vostri figli, in cui viviamo tutti i giorni. Sarei preoccupato di farlo crescere in una società in cui non esiste più il senso di responsabilità, in cui se uno è più debole deve in qualche modo rassegnarsi e adattarsi, mentre quando è forte può fare quello che vuole, in cui, specialmente se fosse una ragazza, sarebbe più importante il suo aspetto rispetto alla sua intelligenza. Sarei preoccupato perché in questa ignorante meschineria in cui galleggiamo farebbe molta fatica a difendersi dal fascino, specialmente da quello del male, anche perché non mi pare che ci sia il rischio che incontri sulla sua strada quello del bene, dell'impegno, della solidarietà. Rischiamo che Pablo Escobar sia l'unico eroe che incontra, perché non sappiamo offrirne altri.
martedì 15 maggio 2018
da "Il Maestro e Margherita" di Michail Afanas'evič Bulgakov
Essa aveva in mano orribili fiori gialli inquieti. Non so come si chiamino, ma sono sempre i primi ad apparire a Mosca. Questi fiori si stagliavano nettamente sul suo soprabito nero primaverile. Aveva fiori gialli! Un brutto colore. Dalla Tverskaja svoltò in un vicolo e si voltò. Conosce la Tverskaja, no? Lungo la Tverskaja camminavano migliaia di persone, ma le garantisco che essa vide me solo e mi guardò, non dico preoccupata, ma addirittura in un certo qual modo morboso. Fui colpito non tanto dalla sua bellezza, quanto dalla straordinaria, mai vista solitudine nei suoi occhi! Ubbidendo a quel richiamo giallo, anch'io svoltai nel vicolo e la seguii. Camminavamo in silenzio lungo il vicolo triste e storto, io da un lato, lei dall'altro. E si figuri che non c'era anima viva. Mi tormentavo perché mi sembrava che fosse necessario parlarle, e temevo che non sarei riuscito a pronunciare neppure una parola, e lei se ne sarebbe andata, e non l'avrei mai più rivista. E s'immagini, a un tratto fu lei a parlare:
- Le piacciono i miei fiori?
Mi ricordo chiaramente il suono della sua voce, alquanto bassa, ma con brusche variazioni di tono, e - è sciocco, lo so - parve che un'eco risuonasse nel vicolo e si ripercuotesse nel muro giallo e sporco. Passai in fretta sull'altro marciapiede e, avvicinandomi a lei, risposi:
- No.
Mi guardò sorpresa, e, di colpo, in modo del tutto inatteso, sentii che per tutta la vita avevo amato proprio quella donna! Che storia, eh? Lei dirà, naturalmente, che sono pazzo.
- Non dico niente, - esclamò Ivan, e soggiunse: - La supplico, continui!
L'ospite continuò.
- Si, mi fissò sorpresa, e poi, dopo avermi fissato, chiese:
- Non le piacciono i fiori?
Nella sua voce mi parve sentire dell'ostilità. Le camminavo accanto, cercando di tenere il passo, e, con mio grande stupore, non mi sentivo affatto imbarazzato.
- No, mi piacciono i fiori, ma non questi, - dissi.
- Quali le piacciono?
- Le rose.
Rimpiansi le mie parole, perché lei ebbe un sorriso contrito e gettò i suoi fiori nel rigagnolo. Li raccattai, un po' confuso, e glieli porsi, ma lei, sorridendo, li respinse ed essi mi rimasero in mano.
Camminammo così, silenziosi, per un po', finché lei non mi tolse i fiori di mano e li gettò sul selciato, poi infilò sotto il mio braccio la mano col guanto nero svasato, e proseguimmo vicini.
- E poi? - disse Ivan. - Per favore, non salti niente!
- E poi? - l'ospite ripeté la domanda. - Quello che successe poi, lo può indovinare lei stesso -. Inaspettatamente si asciugò una lacrima con la manica destra, e prosegui: - L'amore ci si parò dinanzi come un assassino sbuca fuori in un vicolo, quasi uscisse dalla terra, e ci colpi subito entrambi. Così colpisce il fulmine, così colpisce un coltello a serramanico! Del resto, lei affermava in seguito che non era così, che ci amavamo da molto tempo pur senza esserci mai visti, e pur vivendo lei con un altro... e io, allora... con quella, come si chiama...
- Con chi? - chiese Bezdomnyj.
- Con quella, ma si... quella... mm... - rispose l'ospite schioccando le dita.
- Lei era sposato?
- Ma si, perché crede che schiocchi le dita?... Con quella... Varen'ka... Manecka... no, Varen'ka... il vestito a strisce, il Museo... Ma non ricordo.
Ebbene, lei diceva che con quei fiori gialli in mano era uscita, quel giorno, perché io la potessi finalmente incontrare, e che se questo non fosse avvenuto, si sarebbe avvelenata, poiché la sua vita era vuota.
Si, l'amore ci colpì in un baleno. Lo sapevo già, quel giorno, dopo un'ora, mentre eravamo, senza accorgerci dell'esistenza della città, sul lungofiume sotto le mura del Cremlino,
Parlavamo come se ci fossimo lasciati il giorno prima, come se ci conoscessimo da molti anni. Ci accordammo per trovarci l'indomani nello stesso posto, sulla Moscova, e ci incontrammo. Il sole di maggio splendeva per noi. Ben presto, quella donna divenne la mia moglie segreta.
Veniva da me quotidianamente, di giorno, e ad aspettarla io cominciavo sin dal mattino. Questa attesa si manifestava col fatto che spostavo gli oggetti sul tavolo. Dieci minuti prima mi sedevo vicino alla finestra e mi mettevo in ascolto, aspettando che il vecchio cancello sbattesse. È strano: prima che la incontrassi, poca gente veniva nel nostro cortiletto, anzi, non veniva mai nessuno, mentre adesso mi sembrava che tutta la città vi si precipitasse. Sbatteva il cancello, batteva il mio cuore, e, si figuri, dietro il finestrino, al livello del mio viso, appariva immancabilmente un paio di stivali sporchi. L'arrotino. Ma chi aveva bisogno di un arrotino nella nostra casa? Arrotare che cosa? Quali coltelli?
Lei entrava una sola volta dal cancello, ma io avevo provato il batticuore almeno dieci volte, non dico una bugia. Poi, quando giungeva la sua ora e le lancette indicavano mezzogiorno, il batticuore continuava finché senza tacchettio, quasi silenziose, davanti alla finestra non mi passavano le scarpe con un nodo di camoscio nero, stretto da una fibbia d'acciaio.
A volte scherzava, e fermandosi davanti alla seconda finestra, bussava al vetro con la punta della scarpa. Nello stesso istante io mi ritrovavo davanti a quella finestra, ma la scarpa scompariva, scompariva la seta nera che velava la luce, e io correvo ad aprirle.
Nessuno sapeva del nostro legame, glielo garantisco, anche se questo non succede mai. Non lo sapeva suo marito, non lo sapevano i conoscenti. Nella vecchia casetta dove possedevo quello scantinato, naturalmente, sapevano, vedevano che mi veniva a trovare una donna, ma non ne conoscevano il nome.
- E chi è? - chiese Ivan, interessato in sommo grado a quella storia d'amore.
L'ospite fece un gesto a significare che non l'avrebbe mai detto a nessuno, e continuò il suo racconto.
Ivan seppe che il Maestro e la sconosciuta si amavano talmente che divennero assolutamente inseparabili. Ivan ora si immaginava con chiarezza le due camere dello scantinato della casetta, dove regnava sempre il crepuscolo a causa del lillà e della palizzata. I logori mobili di mogano, lo scrittoio con l'orologio che suonava ogni mezz'ora, e libri, libri, che andavano dal pavimento di legno lucido fino al soffitto annerito dal fumo, e la stufa.
Ivan apprese che, sin dai primi giorni della loro relazione, il suo ospite e la moglie segreta erano venuti alla conclusione che a farli incontrare all'angolo della Tverskaja con il vicolo era stato il destino, e che erano stati creati eternamente l'uno per l'altra.
- Le piacciono i miei fiori?
Mi ricordo chiaramente il suono della sua voce, alquanto bassa, ma con brusche variazioni di tono, e - è sciocco, lo so - parve che un'eco risuonasse nel vicolo e si ripercuotesse nel muro giallo e sporco. Passai in fretta sull'altro marciapiede e, avvicinandomi a lei, risposi:
- No.
Mi guardò sorpresa, e, di colpo, in modo del tutto inatteso, sentii che per tutta la vita avevo amato proprio quella donna! Che storia, eh? Lei dirà, naturalmente, che sono pazzo.
- Non dico niente, - esclamò Ivan, e soggiunse: - La supplico, continui!
L'ospite continuò.
- Si, mi fissò sorpresa, e poi, dopo avermi fissato, chiese:
- Non le piacciono i fiori?
Nella sua voce mi parve sentire dell'ostilità. Le camminavo accanto, cercando di tenere il passo, e, con mio grande stupore, non mi sentivo affatto imbarazzato.
- No, mi piacciono i fiori, ma non questi, - dissi.
- Quali le piacciono?
- Le rose.
Rimpiansi le mie parole, perché lei ebbe un sorriso contrito e gettò i suoi fiori nel rigagnolo. Li raccattai, un po' confuso, e glieli porsi, ma lei, sorridendo, li respinse ed essi mi rimasero in mano.
Camminammo così, silenziosi, per un po', finché lei non mi tolse i fiori di mano e li gettò sul selciato, poi infilò sotto il mio braccio la mano col guanto nero svasato, e proseguimmo vicini.
- E poi? - disse Ivan. - Per favore, non salti niente!
- E poi? - l'ospite ripeté la domanda. - Quello che successe poi, lo può indovinare lei stesso -. Inaspettatamente si asciugò una lacrima con la manica destra, e prosegui: - L'amore ci si parò dinanzi come un assassino sbuca fuori in un vicolo, quasi uscisse dalla terra, e ci colpi subito entrambi. Così colpisce il fulmine, così colpisce un coltello a serramanico! Del resto, lei affermava in seguito che non era così, che ci amavamo da molto tempo pur senza esserci mai visti, e pur vivendo lei con un altro... e io, allora... con quella, come si chiama...
- Con chi? - chiese Bezdomnyj.
- Con quella, ma si... quella... mm... - rispose l'ospite schioccando le dita.
- Lei era sposato?
- Ma si, perché crede che schiocchi le dita?... Con quella... Varen'ka... Manecka... no, Varen'ka... il vestito a strisce, il Museo... Ma non ricordo.
Ebbene, lei diceva che con quei fiori gialli in mano era uscita, quel giorno, perché io la potessi finalmente incontrare, e che se questo non fosse avvenuto, si sarebbe avvelenata, poiché la sua vita era vuota.
Si, l'amore ci colpì in un baleno. Lo sapevo già, quel giorno, dopo un'ora, mentre eravamo, senza accorgerci dell'esistenza della città, sul lungofiume sotto le mura del Cremlino,
Parlavamo come se ci fossimo lasciati il giorno prima, come se ci conoscessimo da molti anni. Ci accordammo per trovarci l'indomani nello stesso posto, sulla Moscova, e ci incontrammo. Il sole di maggio splendeva per noi. Ben presto, quella donna divenne la mia moglie segreta.
Veniva da me quotidianamente, di giorno, e ad aspettarla io cominciavo sin dal mattino. Questa attesa si manifestava col fatto che spostavo gli oggetti sul tavolo. Dieci minuti prima mi sedevo vicino alla finestra e mi mettevo in ascolto, aspettando che il vecchio cancello sbattesse. È strano: prima che la incontrassi, poca gente veniva nel nostro cortiletto, anzi, non veniva mai nessuno, mentre adesso mi sembrava che tutta la città vi si precipitasse. Sbatteva il cancello, batteva il mio cuore, e, si figuri, dietro il finestrino, al livello del mio viso, appariva immancabilmente un paio di stivali sporchi. L'arrotino. Ma chi aveva bisogno di un arrotino nella nostra casa? Arrotare che cosa? Quali coltelli?
Lei entrava una sola volta dal cancello, ma io avevo provato il batticuore almeno dieci volte, non dico una bugia. Poi, quando giungeva la sua ora e le lancette indicavano mezzogiorno, il batticuore continuava finché senza tacchettio, quasi silenziose, davanti alla finestra non mi passavano le scarpe con un nodo di camoscio nero, stretto da una fibbia d'acciaio.
A volte scherzava, e fermandosi davanti alla seconda finestra, bussava al vetro con la punta della scarpa. Nello stesso istante io mi ritrovavo davanti a quella finestra, ma la scarpa scompariva, scompariva la seta nera che velava la luce, e io correvo ad aprirle.
Nessuno sapeva del nostro legame, glielo garantisco, anche se questo non succede mai. Non lo sapeva suo marito, non lo sapevano i conoscenti. Nella vecchia casetta dove possedevo quello scantinato, naturalmente, sapevano, vedevano che mi veniva a trovare una donna, ma non ne conoscevano il nome.
- E chi è? - chiese Ivan, interessato in sommo grado a quella storia d'amore.
L'ospite fece un gesto a significare che non l'avrebbe mai detto a nessuno, e continuò il suo racconto.
Ivan seppe che il Maestro e la sconosciuta si amavano talmente che divennero assolutamente inseparabili. Ivan ora si immaginava con chiarezza le due camere dello scantinato della casetta, dove regnava sempre il crepuscolo a causa del lillà e della palizzata. I logori mobili di mogano, lo scrittoio con l'orologio che suonava ogni mezz'ora, e libri, libri, che andavano dal pavimento di legno lucido fino al soffitto annerito dal fumo, e la stufa.
Ivan apprese che, sin dai primi giorni della loro relazione, il suo ospite e la moglie segreta erano venuti alla conclusione che a farli incontrare all'angolo della Tverskaja con il vicolo era stato il destino, e che erano stati creati eternamente l'uno per l'altra.
lunedì 14 maggio 2018
Verba volant (523): metonimia...
Metonimia, sost. f.
Sono cresciuto in un'epoca in cui per indicare il Pci potevi dire anche "Botteghe oscure", e allo stesso modo potevi usare "piazza del Gesù" per parlare della Dc. Si tratta di una figura retorica chiamata metonimia, che consiste nella sostituzione di un termine con un altro che ha con il primo una relazione di vicinanza, attuando una sorta di trasferimento di significato. Perché in via delle Botteghe oscure n. 4 e in piazza del Gesù n. 46 c'erano le sedi di quei due grandi partiti. E a Bologna potevi dire "via Barberia" e tutti capivano che parlavi del Pci, perché in quella via, anche in questo caso al civico 4, aveva la propria sede, in un antico palazzo senatorio, appartenuto un tempo alla famiglia Marescotti-Brazzetti, la federazione comunista più grande dell'Europa occidentale.
Evidentemente si tratta di storie della prima repubblica, perché ora nessuno potrebbe più usare questa figura retorica. Ci ho pensato vedendo la foto dell'incontro tra le delegazioni della Lega e del Movimento Cinque stelle impegnate nella stesura del "contratto" che farà nascere il prossimo governo. Come sapete si è svolto a Milano, nel grattacielo che in quella città è conosciuto come Pirellone, sede della Regione Lombardia. Perché i partiti non hanno più sedi; i partiti in Italia quando devono riunirsi, incontrarsi, fare quella cosa che noi chiamavamo politica, o usano gli spazi istituzionali, ad esempio come in questo recentissimo caso gli uffici dei gruppi, oppure devono affittare una sala in un qualche hotel.
Magari qualcuno di voi pensa che in questo sfortunato paese ci siano problemi ben più gravi di sapere dove abbiano la sede i partiti e che sia una perdita di tempo dolersi della scomparsa di queste antiche metonimie. Forse avete ragione, ma a me sembra un problema, e non è solo nostalgia della prima repubblica. Certo c'è anche una qualche forma di nostalgia, visto che ricordo la prima volta - e l'unica, perché poi lasciammo quella sede - in cui ho varcato, con una qualche emozione, la porta del Bottegone.
Il problema però è che non ci sono più le sedi di partito perché non ci sono più i partiti. Nella seconda repubblica il passaggio è stato graduale, ma inesorabile. Berlusconi fece diventare casa sua una sede di partito, perché il partito era suo. Visto che la metonimia funzionava ancora - perché si poteva dire Arcore per parlare di Forza Italia, visto che quella era la casa "preferita" - ci facemmo meno caso, ma quello fu il passaggio chiave. Intanto i portoni di palazzo Cenci-Bolognetti si chiudevano, noi lasciavamo via delle Botteghe oscure - e anche via Barberia - perché quelle sedi erano troppo grandi e costose e perché ci servivano i soldi per pagare dei debiti, e soprattutto chiudevano le migliaia e migliaia di sezioni che c'erano nel paese. Quando io ero un ragazzino, negli anni Settanta, a Quarto - una frazione di Granarolo, che aveva allora poco più di cinquecento abitanti - c'erano le sezioni del Pci e quella del Psi; la Dc non aveva una sede vera e propria, ma aveva in canonica il posto dove riunirsi. Non dico fosse così in tutti i paesini, ma quelle sedi esistevano, perché esistevano dei partiti che le facevano in qualche modo vivere.
In questa terza repubblica i partiti esistono solo se hanno un qualche potere, se hanno degli eletti, perché in quel caso hanno uffici e anche personale, visto che non ci sono più le sedi, ma non ci sono neppure più le persone che lavorano nei partiti. Se esisti solo se hai potere, se hai parlamentari, se hai rappresentanti nelle istituzione, dovrai fare di tutto per averli, perché altrimenti non esisti, sei destinato inesorabilmente a sparire. E se esisti solo se hai potere, è molto difficile che riesca a nascere qualcosa di nuovo, o nasce solo se che chi ti fa nascere ha molti soldi o comunque le risorse per farlo. Il primo motivo per cui io non potrò mai sostenere il Movimento Cinque stelle è essenzialmente questo: perché per me un partito la cui unica struttura è una società - e come giustamente avviene in una società, se muore il titolare, la proprietà passa agli eredi - non potrà mai essere un partito e questo rivela un fortissimo problema democratico, anche se poi quel partito raccoglie milioni di voti, ha tantissimi eletti e ha tutta la legittimazione per formare un governo.
Io non mi ci trovo in una politica senza partiti - e questo non è un problema, perché nessuno mi obbliga a fare politica, posso fare altre cose - ma soprattutto io ho paura di una politica senza partiti, perché senza partiti - e senza le loro "case" - la democrazia non funziona davvero.
Sono cresciuto in un'epoca in cui per indicare il Pci potevi dire anche "Botteghe oscure", e allo stesso modo potevi usare "piazza del Gesù" per parlare della Dc. Si tratta di una figura retorica chiamata metonimia, che consiste nella sostituzione di un termine con un altro che ha con il primo una relazione di vicinanza, attuando una sorta di trasferimento di significato. Perché in via delle Botteghe oscure n. 4 e in piazza del Gesù n. 46 c'erano le sedi di quei due grandi partiti. E a Bologna potevi dire "via Barberia" e tutti capivano che parlavi del Pci, perché in quella via, anche in questo caso al civico 4, aveva la propria sede, in un antico palazzo senatorio, appartenuto un tempo alla famiglia Marescotti-Brazzetti, la federazione comunista più grande dell'Europa occidentale.
Evidentemente si tratta di storie della prima repubblica, perché ora nessuno potrebbe più usare questa figura retorica. Ci ho pensato vedendo la foto dell'incontro tra le delegazioni della Lega e del Movimento Cinque stelle impegnate nella stesura del "contratto" che farà nascere il prossimo governo. Come sapete si è svolto a Milano, nel grattacielo che in quella città è conosciuto come Pirellone, sede della Regione Lombardia. Perché i partiti non hanno più sedi; i partiti in Italia quando devono riunirsi, incontrarsi, fare quella cosa che noi chiamavamo politica, o usano gli spazi istituzionali, ad esempio come in questo recentissimo caso gli uffici dei gruppi, oppure devono affittare una sala in un qualche hotel.
Magari qualcuno di voi pensa che in questo sfortunato paese ci siano problemi ben più gravi di sapere dove abbiano la sede i partiti e che sia una perdita di tempo dolersi della scomparsa di queste antiche metonimie. Forse avete ragione, ma a me sembra un problema, e non è solo nostalgia della prima repubblica. Certo c'è anche una qualche forma di nostalgia, visto che ricordo la prima volta - e l'unica, perché poi lasciammo quella sede - in cui ho varcato, con una qualche emozione, la porta del Bottegone.
Il problema però è che non ci sono più le sedi di partito perché non ci sono più i partiti. Nella seconda repubblica il passaggio è stato graduale, ma inesorabile. Berlusconi fece diventare casa sua una sede di partito, perché il partito era suo. Visto che la metonimia funzionava ancora - perché si poteva dire Arcore per parlare di Forza Italia, visto che quella era la casa "preferita" - ci facemmo meno caso, ma quello fu il passaggio chiave. Intanto i portoni di palazzo Cenci-Bolognetti si chiudevano, noi lasciavamo via delle Botteghe oscure - e anche via Barberia - perché quelle sedi erano troppo grandi e costose e perché ci servivano i soldi per pagare dei debiti, e soprattutto chiudevano le migliaia e migliaia di sezioni che c'erano nel paese. Quando io ero un ragazzino, negli anni Settanta, a Quarto - una frazione di Granarolo, che aveva allora poco più di cinquecento abitanti - c'erano le sezioni del Pci e quella del Psi; la Dc non aveva una sede vera e propria, ma aveva in canonica il posto dove riunirsi. Non dico fosse così in tutti i paesini, ma quelle sedi esistevano, perché esistevano dei partiti che le facevano in qualche modo vivere.
In questa terza repubblica i partiti esistono solo se hanno un qualche potere, se hanno degli eletti, perché in quel caso hanno uffici e anche personale, visto che non ci sono più le sedi, ma non ci sono neppure più le persone che lavorano nei partiti. Se esisti solo se hai potere, se hai parlamentari, se hai rappresentanti nelle istituzione, dovrai fare di tutto per averli, perché altrimenti non esisti, sei destinato inesorabilmente a sparire. E se esisti solo se hai potere, è molto difficile che riesca a nascere qualcosa di nuovo, o nasce solo se che chi ti fa nascere ha molti soldi o comunque le risorse per farlo. Il primo motivo per cui io non potrò mai sostenere il Movimento Cinque stelle è essenzialmente questo: perché per me un partito la cui unica struttura è una società - e come giustamente avviene in una società, se muore il titolare, la proprietà passa agli eredi - non potrà mai essere un partito e questo rivela un fortissimo problema democratico, anche se poi quel partito raccoglie milioni di voti, ha tantissimi eletti e ha tutta la legittimazione per formare un governo.
Io non mi ci trovo in una politica senza partiti - e questo non è un problema, perché nessuno mi obbliga a fare politica, posso fare altre cose - ma soprattutto io ho paura di una politica senza partiti, perché senza partiti - e senza le loro "case" - la democrazia non funziona davvero.
domenica 13 maggio 2018
Verba volant (522): pazzo...
Noi che crediamo di essere "sani" abbiamo tante parole per definire i pazzi, ma nonostante questa ricchezza lessicale, preferiamo non parlare troppo di loro e soprattutto non vogliamo parlare con loro. E' una cosa che lasciamo fare ai poeti e agli artisti, perché in fondo siamo convinti che siano anime affini e che anche loro siano un po' matti.
Comunque, nonostante questa nostra ritrosia a trattare la materia, siamo convinti di saper distinguere chi è pazzo da chi non lo è.
Non è sempre stato così. Nell'antica Grecia questa distinzione appare molto sfumata, fino ad annullarsi. Dice Eraclito, nel frammento 45,
E in questo cammino l'uomo può trovare molte cose, compresa la pazzia. Omero ignora la follia, non perché i suoi personaggi non compiano gesti che potremmo considerare pazzi, ma perché la follia permeava tutto il suo mondo, e non sarebbe riuscito a distinguerla da una cosiddetta normalità. Anzi in qualche modo la follia era uno degli strumenti attraverso cui era possibile agli uomini capire se stessi e gli altri, percorrere quel lungo cammino di cui parla Eraclito. E di cui non siamo destinati a vedere la fine.Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell'anima.
Il pazzo nell'antica Grecia non è solo colui che soffre - questo è il significato etimologico di questa parola - per una qualche forma di malattia della mente, che pure i medici, a partire da Ippocrate, avevano cominciato a studiare, nella sue varietà e nelle sue complessità, ma la pazzia è anche qualcosa che in qualche modo potenzia l'uomo. Il poeta che scopre in sé improvvise energie creative, che inventa storie e parole, prendendole da chissà dove, è un pazzo, il profeta a cui Dioniso dona l'estasi, rendendolo capace di conoscere l'inconoscibile, è un pazzo, colui che ama è un pazzo, perché l'amore porta l'uomo alla sua vera natura.
La prima parola dell'Iliade è μηνις, menis, in caso accusativo, che, per l'autorità di Vincenzo Monti, traduciamo con ira; e l'Iliade infatti è il poema dell'ira di Achille. Ma questa parola ha la stessa radice che ritroviamo in μανια, mania, e quindi il tema del testo che ha fondato la letteratura greca e quindi quella occidentale è una forma di pazzia. Ma Achille è l'eroe, è il "buono" della storia, e infatti la sua ira non è un sentimento che lo acceca e gli fa compiere gesti folli, non è crudeltà fine a se stessa, anche se vedremo che Achille sa anche essere crudele, quando infierisce contro il corpo di Ettore. Quell'ira, nel corso del poema, è il sentimento che trasforma Achille, che lo fa diventare uomo, che lo porta alla morte. Se Achille non si fosse ritirato dallo scontro con i Troiani, Patroclo non avrebbe indossato le sue armi e non sarebbe sceso in battaglia per aiutare le truppe greche che stavano per essere sconfitte; se Patroclo non avesse deciso di combattere, non sarebbe stato ucciso da Ettore; se Patroclo non fosse stato ucciso, Achille non sarebbe tornato a combattere, non avrebbe affrontato Ettore, uccidendolo; ma all'uccisione di Ettore deve necessariamente seguire quella di Achille ed egli ne è consapevole, nel momento in cui affonda la lama nel corpo del nemico, sa che lui sarà la prossima vittima. E lo sa Omero e lo sanno i suoi ascoltatori, tanto che non è neppure necessario raccontarlo e l'Iliade si conclude non con la morte di Achille, ma con Priamo che va nella tenda dell'eroe greco, solo e inerme, chiedendo il corpo del figlio. Il grande poema della guerra si conclude con un gesto di pietà, perché l'Iliade non è una storia di combattimenti, ma è proprio il racconto di come questa follia, che è l'amore, porta Achille, il figlio di una dea, l'eroe invincibile, a diventare un uomo, a realizzarsi completamente come uomo, fino a morire come un uomo.
Nella cultura della Grecia antica, quella che una tradizione successiva ci ha fatto credere fosse la quintessenza della razionalità, scorre invece la pazzia, che è uno dei mezzi con cui gli uomini possono conoscere le manifestazioni estreme e più inquietanti della loro natura. Ed è naturalmente la tragedia lo spazio in cui si rappresenta ciò che di oscuro si agita negli uomini: Eracle - la tragedia euripidea si intitolava originariamente Heraklès mainòmenos, ossia Eracle impazzito - che uccide la propria famiglia, Medea che dilania i propri figli, Aiace che impazzisce e si suicida, Oreste che è accecato dalle allucinazioni dopo che ha ucciso la madre. Chi assisteva a questi drammi era messo di fronte alle proprie paure, alla propria follia. In tutte queste opere non si riesce mai a distinguere nettamente ragione e follia, ma i due elementi si intrecciano, fino a confondersi. Per questo nella Grecia antica i folli non venivano rinchiusi, ma si cercava il modo di convivere con loro, si elaboravano forme di controllo dell'alienazione, nella consapevolezza che i "sani" potevano diventare a loro volta pazzi o che i veri malati erano quelli a cui non era toccato il dono della follia.
p.s. A quarant'anni dall'entrata in vigore della Legge n. 180 credo dovremo ringraziare persone come Franco Basaglia e Mario Tommasini, che hanno costretto questo paese a parlare dei matti e a parlare con i matti.
venerdì 11 maggio 2018
Verba volant (521): fantasia...
Fantasia, sost. f.
La fantasia al potere è uno degli slogan più citati e fortunati del Sessantotto. A dire il vero Herbert Marcuse non aveva usato questa parola, ma bisogna riconoscere che la traduzione italiana ha una forza maggiore di imagination au pouvoir, come dicevano gli studenti del Maggio francese. E devo ammettere che in cinquant'anni quella frase non ha perso la sua essenza poetica, la sua capacità di attrarre senza dir nulla. Perché - diciamoci la verità - quella frase così bella non vuol dir molto. E forse proprio in questo sta l'essenza del Sessantotto: una bella scatola, vuota.
Per ragioni anagrafiche, geografiche e politiche, io mi sono sempre sentito estraneo al Sessantotto, benché abbia vissuto in anni in cui l'influenza culturale e artistica di quel movimento ha fortemente condizionato la cultura di massa, e quindi la mia. Sono nato in campagna, nel 1970, da due genitori non giovanissimi, che ovviamente non avevano fatto il Sessantotto, ma che avevano combattuto molto prima le loro battaglie, vincendone qualcuna e perdendone molte altre, e che probabilmente guardavano a quelle tensioni sociali con un qualche sospetto. Peraltro ricambiato perché comunque anche loro appartenevano al "vecchio" mondo, quello uscito dalla guerra, che il Sessantotto voleva spazzare via; e ci riuscì. E probabilmente i miei e quelli della loro generazione intuivano - senza capirlo - che quel movimento avrebbe cambiato il mondo in un modo che a loro non piaceva.
Quei fortunati slogan - pensate a un altro celebre come è vietato vietare - non avevano un valore politico, neppure nel senso di lottare contro leggi repressive. Avevano esclusivamente un valore privato: erano pubbliche proclamazioni di sentimenti privati, perché - come dice un altro fortunato slogan - il personale è politico. La soggettività e l'individualismo hanno preso il sopravvento nel Settantotto e hanno occupato un posto da cui non si sarebbero più tolti. A scapito della società e delle sue classi. Il Quarto stato non è un'icona del Sessantotto, perché in quell'immagine i personaggi non si distinguono, avanzano uniti e anche cromaticamente sono un unicum. Invece era un'icona il Che, l'uomo solo che combatte contro il mondo.
Il Sessantotto racconta un'altra storia rispetto a quella del movimento comunista, ossia quella della liberazione dell'individuo, di ciascun individuo, dai legami imposti dalla società, dalla famiglia, dallo stato; si tratta naturalmente di una storia importante, che ha inciso positivamente sulla vita di tanti e tante, perché le donne in quel movimento ebbero un ruolo nuovo. La rivoluzione di quegli anni rappresentò il trionfo dell'individuo sulla società, senza peraltro portare all'anarchismo di Bakunin, che credeva che l'azione individuale avrebbe portato alla creazione di una società nuova, giusta e senza stato. Il Sessantotto fu una rivoluzione a suo modo conservatrice, perché la libertà dell'individuo si doveva esplicare nelle condizioni date. E credo sia per questa ragione profonda che il Sessantotto è stato assimilato dal capitalismo, anzi è diventato, con la sua arte, la sua musica, la sua moda, la cultura del capitalismo, perché il capitalismo vuole che gli individui esprimano la propria individualità - e ne tollera anche le richieste di libertà, ad esempio dal punto di vista sessuale - a patto di accettare il sistema e di svolgere tutta la propria azione all'interno di esso. L'individualismo esasperato ed egoista in cui oggi siamo immersi, con i suoi esiti perversi e violenti, è nato in quegli anni.
La generazione dei miei genitori, la generazione delle donne e degli uomini cresciuti dopo la fine del secondo conflitto mondiale, credevano invece che quello che importava fosse la massa e che gli uomini si sarebbero salvati insieme, e pensavano che per far questo occorresse sovvertire il sistema dato, cambiarlo dalle fondamenta. Per questo capirono che il Sessantotto era, nonostante gli slogan, uno strumento della reazione. E visto che io sono stato educato con le idee di quel "vecchio" mondo, anche se ho sempre sentito il fascino degli slogan del Maggio, delle sue canzoni, delle sue lotte, sono anche sempre stato convinto che al potere non debba andare la fantasia, ma la politica; e che la realizzazione dell'individuo sia meno importante della lotta di classe; e che i diritti sociali ed economici siano più importanti dei diritti civili e che comunque questi possano esprimersi davvero solo in una società giusta; e soprattutto che una rivoluzione non possa accettare lo stato di fatto nei rapporti di produzione, ma che debba porsi l'obiettivo di sovvertirli. Altrimenti ci rimangono solo dei bei slogan e delle belle bandiere.
La fantasia al potere è uno degli slogan più citati e fortunati del Sessantotto. A dire il vero Herbert Marcuse non aveva usato questa parola, ma bisogna riconoscere che la traduzione italiana ha una forza maggiore di imagination au pouvoir, come dicevano gli studenti del Maggio francese. E devo ammettere che in cinquant'anni quella frase non ha perso la sua essenza poetica, la sua capacità di attrarre senza dir nulla. Perché - diciamoci la verità - quella frase così bella non vuol dir molto. E forse proprio in questo sta l'essenza del Sessantotto: una bella scatola, vuota.
Per ragioni anagrafiche, geografiche e politiche, io mi sono sempre sentito estraneo al Sessantotto, benché abbia vissuto in anni in cui l'influenza culturale e artistica di quel movimento ha fortemente condizionato la cultura di massa, e quindi la mia. Sono nato in campagna, nel 1970, da due genitori non giovanissimi, che ovviamente non avevano fatto il Sessantotto, ma che avevano combattuto molto prima le loro battaglie, vincendone qualcuna e perdendone molte altre, e che probabilmente guardavano a quelle tensioni sociali con un qualche sospetto. Peraltro ricambiato perché comunque anche loro appartenevano al "vecchio" mondo, quello uscito dalla guerra, che il Sessantotto voleva spazzare via; e ci riuscì. E probabilmente i miei e quelli della loro generazione intuivano - senza capirlo - che quel movimento avrebbe cambiato il mondo in un modo che a loro non piaceva.
Quei fortunati slogan - pensate a un altro celebre come è vietato vietare - non avevano un valore politico, neppure nel senso di lottare contro leggi repressive. Avevano esclusivamente un valore privato: erano pubbliche proclamazioni di sentimenti privati, perché - come dice un altro fortunato slogan - il personale è politico. La soggettività e l'individualismo hanno preso il sopravvento nel Settantotto e hanno occupato un posto da cui non si sarebbero più tolti. A scapito della società e delle sue classi. Il Quarto stato non è un'icona del Sessantotto, perché in quell'immagine i personaggi non si distinguono, avanzano uniti e anche cromaticamente sono un unicum. Invece era un'icona il Che, l'uomo solo che combatte contro il mondo.
Il Sessantotto racconta un'altra storia rispetto a quella del movimento comunista, ossia quella della liberazione dell'individuo, di ciascun individuo, dai legami imposti dalla società, dalla famiglia, dallo stato; si tratta naturalmente di una storia importante, che ha inciso positivamente sulla vita di tanti e tante, perché le donne in quel movimento ebbero un ruolo nuovo. La rivoluzione di quegli anni rappresentò il trionfo dell'individuo sulla società, senza peraltro portare all'anarchismo di Bakunin, che credeva che l'azione individuale avrebbe portato alla creazione di una società nuova, giusta e senza stato. Il Sessantotto fu una rivoluzione a suo modo conservatrice, perché la libertà dell'individuo si doveva esplicare nelle condizioni date. E credo sia per questa ragione profonda che il Sessantotto è stato assimilato dal capitalismo, anzi è diventato, con la sua arte, la sua musica, la sua moda, la cultura del capitalismo, perché il capitalismo vuole che gli individui esprimano la propria individualità - e ne tollera anche le richieste di libertà, ad esempio dal punto di vista sessuale - a patto di accettare il sistema e di svolgere tutta la propria azione all'interno di esso. L'individualismo esasperato ed egoista in cui oggi siamo immersi, con i suoi esiti perversi e violenti, è nato in quegli anni.
La generazione dei miei genitori, la generazione delle donne e degli uomini cresciuti dopo la fine del secondo conflitto mondiale, credevano invece che quello che importava fosse la massa e che gli uomini si sarebbero salvati insieme, e pensavano che per far questo occorresse sovvertire il sistema dato, cambiarlo dalle fondamenta. Per questo capirono che il Sessantotto era, nonostante gli slogan, uno strumento della reazione. E visto che io sono stato educato con le idee di quel "vecchio" mondo, anche se ho sempre sentito il fascino degli slogan del Maggio, delle sue canzoni, delle sue lotte, sono anche sempre stato convinto che al potere non debba andare la fantasia, ma la politica; e che la realizzazione dell'individuo sia meno importante della lotta di classe; e che i diritti sociali ed economici siano più importanti dei diritti civili e che comunque questi possano esprimersi davvero solo in una società giusta; e soprattutto che una rivoluzione non possa accettare lo stato di fatto nei rapporti di produzione, ma che debba porsi l'obiettivo di sovvertirli. Altrimenti ci rimangono solo dei bei slogan e delle belle bandiere.
mercoledì 9 maggio 2018
Considerazioni libere (425): a proposito di due uomini uccisi...
Difficile immaginare due persone più diverse nell'Italia del 1978: Aldo Moro era l'uomo del potere, Peppino Impastato era l'uomo che combatteva quel potere. La differenza tra loro era non solo politica - avevano idee molto diverse e si consideravano avversari - e anche intellettuale - leggevano libri diversi, ascoltavano dischi diversi, guardavano film diversi - ma soprattutto era antropologica. La estenuante volontà di Moro di mediare, il suo argomentare complesso, la sua impenetrabilità erano l'opposto delle accuse dirette di Impastato, della sua capacità di arrivare diritto al punto, con sarcastica precisione. Quando Peppino Impastato diceva
E' un caso che questi due uomini così diversi, questi due avversari politici, questi rappresentati di due Italie contrapposte, siano stati uccisi entrambi lo stesso giorno, il 9 maggio 1978. Non ci fu un disegno, capitò e basta, perché ovviamente gli esecutori dei due delitti non erano in contatto e non sarebbe loro interessato quel parallelo. E non interessò neppure a chi decise quelle due uccisioni, che invece fu lo stesso potere. Naturalmente furono persone diverse a decidere materialmente che Moro e Impastato sarebbero dovuti morire, ma questi uomini - importa poco sapere i loro nomi a questo punto - che magari si conoscevano, per quanto agissero con obiettivi diversi e spinti da ragioni diverse, volevano la stessa cosa.
Aldo Moro e Peppino Impastato furono uccisi perché entrambi, seppure in maniera molto differente l'uno dall'altro - e non poteva essere altrimenti - erano diventati pericolosi per un potere che aveva paura dei cambiamenti, che non voleva perdere i propri privilegi, le proprie ricchezze. Con quei due cadaveri quel potere volle dirci che era più forte di noi, che lo dovevamo temere e che gli dovevamo obbedire.
Quel potere è ancora lì, apparentemente meno violento perché ha smesso di uccidere le persone per strada, ma ha vinto, perché ci ha comprati. E noi ci siamo lasciati comprare, quando non ci siamo direttamente venduti. Per questo il 9 maggio non è solo un giorno da dedicare al ricordo, ma l'anniversario di una sconfitta.
voglio scrivere che la mafia è una montagna di merdapensava anche a Moro, alle complicità e alle collusioni tra la Democrazia cristiana e la mafia. Aldo Moro probabilmente soffriva quelle complicità, ma le riteneva un male necessario, era capace di spiegarne l'origine e le cause, e forse anche il modo per sconfiggerla, ma certamente non avrebbe neppure saputo immaginare una frase del genere, figurarsi pronunciarla.
E' un caso che questi due uomini così diversi, questi due avversari politici, questi rappresentati di due Italie contrapposte, siano stati uccisi entrambi lo stesso giorno, il 9 maggio 1978. Non ci fu un disegno, capitò e basta, perché ovviamente gli esecutori dei due delitti non erano in contatto e non sarebbe loro interessato quel parallelo. E non interessò neppure a chi decise quelle due uccisioni, che invece fu lo stesso potere. Naturalmente furono persone diverse a decidere materialmente che Moro e Impastato sarebbero dovuti morire, ma questi uomini - importa poco sapere i loro nomi a questo punto - che magari si conoscevano, per quanto agissero con obiettivi diversi e spinti da ragioni diverse, volevano la stessa cosa.
Aldo Moro e Peppino Impastato furono uccisi perché entrambi, seppure in maniera molto differente l'uno dall'altro - e non poteva essere altrimenti - erano diventati pericolosi per un potere che aveva paura dei cambiamenti, che non voleva perdere i propri privilegi, le proprie ricchezze. Con quei due cadaveri quel potere volle dirci che era più forte di noi, che lo dovevamo temere e che gli dovevamo obbedire.
Quel potere è ancora lì, apparentemente meno violento perché ha smesso di uccidere le persone per strada, ma ha vinto, perché ci ha comprati. E noi ci siamo lasciati comprare, quando non ci siamo direttamente venduti. Per questo il 9 maggio non è solo un giorno da dedicare al ricordo, ma l'anniversario di una sconfitta.
lunedì 7 maggio 2018
Verba volant (520): fustino...
Fustino, sost. m.
Quarant'anni fa: nei primi giorni di maggio le famiglie italiane guardavano con crescente angoscia il telegiornale, aspettando una notizia che tutti sapevano che sarebbe arrivata, ma che non avrebbero voluto ascoltare. In quelle stesse sere, prima o dopo il telegiornale, potevamo vedere sul piccolo schermo una scena ormai diventata consueta. Paolo Ferrari, elegante in giacca e cravatta, i capelli brizzolati, avvicina una signora che è appena uscita da un negozio, dove ha acquistato un fustino di una nota marca di detersivo per la lavatrice; con la sua bella voce - la voce con cui Humphrey Bogart seduce Lauren Bacall - propone alla signora di scambiare quel fustino con due fustini bianchi, di marca ignota, ma lei non cede alla lusinga, perché "più bianco non si può".
Mi dispiace ricordare un grande attore come Paolo Ferrari, che ha fatto davvero tante cose in teatro, al cinema e in televisione, solo per questa pubblicità, ma certamente quegli spot - anche se non li chiamavamo ancora così - hanno raccontato quel decennio. Sono anni della storia di questo paese di cui non si può avere nostalgia: mentre Paolo Ferrari proponeva questo scambio di fustini, venivano uccisi Aldo Moro e Peppino Impastato, venivano messe le bombe nelle piazze e sui treni, veniva picchiato a morte Pier Paolo Pasolini, veniva introdotta la legge Reale, venivano uccisi dalla polizia Franco Serantini, Francesco Lorusso e Giorgiana Masi. Era una brutta Italia, carica di violenza. Ed era un'Italia democristiana, moralista e ipocrita maschilista e conservatrice.
E anche quella pubblicità, apparentemente innocente, ci raccontava un'Italia stereotipata, in cui solo le donne andavano a fare la spesa e solo a loro spettava il compito di lavare i panni, anche se "aiutate" dalla lavatrice e dai detersivi che "più bianco non si può". I creativi di oggi sarebbero politicamente e ipocriticamente corretti: Paolo Ferrari dovrebbe rivolgere la sua domanda anche a un uomo, a una donna di colore, a una lesbica, per non urtare le sensibilità della "nuova" Italia.
La cosa drammatica però è che, se non possiamo avere nostalgia di quello che eravamo, non possiamo neppure essere contenti per quello che siamo diventati. L'Italia di oggi non è migliore di quella di quarant'anni fa. A partire dalla violenza con cui la pubblicità ha dilagato nelle nostre vite. Ai tempi di Paolo Ferrari la pubblicità aveva i suoi spazi, in televisione, sui giornali, in strada, ora è ovunque e non ha limiti. La televisione è di fatto un contenitore di pubblicità, con in mezzo brandelli di informazione e pezzi di film.
E poi questa invadente pubblicità è fatta così male. Paolo Ferrari sapeva quando in una parola la lettera e era aperta o chiusa e la pronunciava come doveva essere fatto, perché aveva studiato per recitare e poi aveva imparato da chi lo sapeva fare, e recitava quelle piccole scene come fosse uno degli sceneggiati di cui era protagonista. Ora c'è ovunque, dai telegiornali alle informazioni di servizio, questa indistinta calata dialettale, che è diventata una sorta di "nuova" lingua. Per lo scambio di fustini non verrebbe più scritturato un attore, ma uno del Grande fratello, uno sconosciuto baciato casualmente dal successo. Perché per fare l'attore non serve più aver studiato, basta andare in televisione. E così per fare qualunque altro mestiere. Questo è il tempo di un'incompetenza arrogante, perché più non sai fare, più vieni pagato per quello che non sai fare. Oppure per quegli spot verrebbe utilizzata una di queste giovani donne, gambe lunghe, seni generosi, vita stretta, occhi grandi, che riempiono i nostri schermi, offrendo loro sì un'immagine stereotipata della donna, molto più delle casalinghe fedeli al loro detersivo e segretamente infatuate di Paolo Ferrari, che parlava loro con la voce di Humphrey Bogart.
Dopo quarant'anni è un'Italia apparentemente meno violenta: è vero, perché non vengono messe più le bombe nelle stazioni e non si uccide più per strada. Ma certamente è un'Italia più volgare, più ignorante, più cattiva. E anche se non è più democristiana - rischiamo di rimpiangere perfino questo -è ancora più moralista e ipocrita, più maschilista e conservatrice. E, a suo modo, anche più violenta, perché esisti solo se compri quel fustino e, se non ti puoi comprare quel fustino, allora puoi anche morire.
Quarant'anni fa: nei primi giorni di maggio le famiglie italiane guardavano con crescente angoscia il telegiornale, aspettando una notizia che tutti sapevano che sarebbe arrivata, ma che non avrebbero voluto ascoltare. In quelle stesse sere, prima o dopo il telegiornale, potevamo vedere sul piccolo schermo una scena ormai diventata consueta. Paolo Ferrari, elegante in giacca e cravatta, i capelli brizzolati, avvicina una signora che è appena uscita da un negozio, dove ha acquistato un fustino di una nota marca di detersivo per la lavatrice; con la sua bella voce - la voce con cui Humphrey Bogart seduce Lauren Bacall - propone alla signora di scambiare quel fustino con due fustini bianchi, di marca ignota, ma lei non cede alla lusinga, perché "più bianco non si può".
Mi dispiace ricordare un grande attore come Paolo Ferrari, che ha fatto davvero tante cose in teatro, al cinema e in televisione, solo per questa pubblicità, ma certamente quegli spot - anche se non li chiamavamo ancora così - hanno raccontato quel decennio. Sono anni della storia di questo paese di cui non si può avere nostalgia: mentre Paolo Ferrari proponeva questo scambio di fustini, venivano uccisi Aldo Moro e Peppino Impastato, venivano messe le bombe nelle piazze e sui treni, veniva picchiato a morte Pier Paolo Pasolini, veniva introdotta la legge Reale, venivano uccisi dalla polizia Franco Serantini, Francesco Lorusso e Giorgiana Masi. Era una brutta Italia, carica di violenza. Ed era un'Italia democristiana, moralista e ipocrita maschilista e conservatrice.
E anche quella pubblicità, apparentemente innocente, ci raccontava un'Italia stereotipata, in cui solo le donne andavano a fare la spesa e solo a loro spettava il compito di lavare i panni, anche se "aiutate" dalla lavatrice e dai detersivi che "più bianco non si può". I creativi di oggi sarebbero politicamente e ipocriticamente corretti: Paolo Ferrari dovrebbe rivolgere la sua domanda anche a un uomo, a una donna di colore, a una lesbica, per non urtare le sensibilità della "nuova" Italia.
La cosa drammatica però è che, se non possiamo avere nostalgia di quello che eravamo, non possiamo neppure essere contenti per quello che siamo diventati. L'Italia di oggi non è migliore di quella di quarant'anni fa. A partire dalla violenza con cui la pubblicità ha dilagato nelle nostre vite. Ai tempi di Paolo Ferrari la pubblicità aveva i suoi spazi, in televisione, sui giornali, in strada, ora è ovunque e non ha limiti. La televisione è di fatto un contenitore di pubblicità, con in mezzo brandelli di informazione e pezzi di film.
E poi questa invadente pubblicità è fatta così male. Paolo Ferrari sapeva quando in una parola la lettera e era aperta o chiusa e la pronunciava come doveva essere fatto, perché aveva studiato per recitare e poi aveva imparato da chi lo sapeva fare, e recitava quelle piccole scene come fosse uno degli sceneggiati di cui era protagonista. Ora c'è ovunque, dai telegiornali alle informazioni di servizio, questa indistinta calata dialettale, che è diventata una sorta di "nuova" lingua. Per lo scambio di fustini non verrebbe più scritturato un attore, ma uno del Grande fratello, uno sconosciuto baciato casualmente dal successo. Perché per fare l'attore non serve più aver studiato, basta andare in televisione. E così per fare qualunque altro mestiere. Questo è il tempo di un'incompetenza arrogante, perché più non sai fare, più vieni pagato per quello che non sai fare. Oppure per quegli spot verrebbe utilizzata una di queste giovani donne, gambe lunghe, seni generosi, vita stretta, occhi grandi, che riempiono i nostri schermi, offrendo loro sì un'immagine stereotipata della donna, molto più delle casalinghe fedeli al loro detersivo e segretamente infatuate di Paolo Ferrari, che parlava loro con la voce di Humphrey Bogart.
Dopo quarant'anni è un'Italia apparentemente meno violenta: è vero, perché non vengono messe più le bombe nelle stazioni e non si uccide più per strada. Ma certamente è un'Italia più volgare, più ignorante, più cattiva. E anche se non è più democristiana - rischiamo di rimpiangere perfino questo -è ancora più moralista e ipocrita, più maschilista e conservatrice. E, a suo modo, anche più violenta, perché esisti solo se compri quel fustino e, se non ti puoi comprare quel fustino, allora puoi anche morire.
domenica 6 maggio 2018
Verba volant (519): disabile...
Disabile, sost. m.
Alcuni giorni fa il presidente di una grande regione italiana, spiegando di fronte al consiglio le difficoltà che ha incontrato nella quadratura del bilancio, ha detto che se non ci fossero stati i disabili gravissimi, la regione avrebbe potuto disporre di qualche decina di milioni in più da destinare ad altri capitoli dove sono stati fatti dei tagli. Una frase sfortunata? Probabilmente sì, e immagino che oggi quel presidente farebbe più attenzione. A quella frase sono seguite alcune reazioni, specialmente delle associazioni delle famiglie di persone disabili, ma più per dire che quella cifra è probabilmente sovrastimata, visto che pare non siano così tante le risorse destinate ai gravissimi ogni anno.
Alcuni giorni fa il presidente di una grande regione italiana, spiegando di fronte al consiglio le difficoltà che ha incontrato nella quadratura del bilancio, ha detto che se non ci fossero stati i disabili gravissimi, la regione avrebbe potuto disporre di qualche decina di milioni in più da destinare ad altri capitoli dove sono stati fatti dei tagli. Una frase sfortunata? Probabilmente sì, e immagino che oggi quel presidente farebbe più attenzione. A quella frase sono seguite alcune reazioni, specialmente delle associazioni delle famiglie di persone disabili, ma più per dire che quella cifra è probabilmente sovrastimata, visto che pare non siano così tante le risorse destinate ai gravissimi ogni anno.
Quando abbiamo sentito la notizia, Zaira mi ha ricordato uno spettacolo che abbiamo visto in televisione, Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute, di Marco Paolini; vi consiglio di vederlo o rivederlo.
Paolini, nel suo caratteristico modo di fare teatro, racconta di un aspetto molto meno conosciuto della politica della Germania nazista, ossia della sterilizzazione e poi dell'uccisione, eseguite in maniera sistematica, delle persone che per qualche motivo, fisico o psichico, non erano ritenute normali. L'aspetto interessante è che questa campagna inizia poche settimane dopo che Hitler prende il potere, quindi ben prima che vengano organizzati i campi contro ebrei, zingari, omosessuali, comunisti, e continua per alcuni mesi dopo la fine del regime, perché questa campagna eugenetica non era affidata ai militari, ma ai medici, veniva condotta non nei campi di concentramento, ma negli ospedali psichiatrici, e quindi, come altre attività amministrative non venne sospesa. Solo alcune settimane dopo la fine del conflitto i comandanti delle truppe alleate si resero conto di cosa avveniva in quei manicomi e sospesero le uccisioni, tra l'incredulità dei medici e delle infermiere, che non pensavano di far parte della cosiddetta "soluzione finale", ma semplicemente di fare il proprio lavoro, cosa che continuarono a fare, caduto il regime, come i medici e le infermiere degli ospedali dei "sani". Furono trecentomila le persone uccise durante Aktion T4, come era chiamata questa campagna nel linguaggio amministrativo della burocrazia tedesca.
Soprattutto l'autore spiega come eliminare queste persone fosse considerato da tanti una cosa normale. Il paese era uscito prostrato dalla prima guerra mondiale, quasi due milioni e mezzo di persone "sane" erano rimaste uccise nei combattimenti, milioni di famiglie conoscevano la disperazione della povertà e della fame: era per tanti incomprensibile che la collettività dovesse gravarsi dell'onere di mantenere i pazzi, i malati, i disabili, quelli che erano solo un costo per la società. Paolini ci spiega con una chiarezza crudele che non è stato il nazismo a diffondere queste idee, ma sono state queste idee a far nascere il nazismo.
Per questo le parole di Nello Musumeci sono così gravi, per questo è ancora più grave che contro queste parole non ci sia stata una reazione, perché per tanti "normali", per tanti che si barcamenano tra un lavoro precario e un altro, che sopravvivono grazie alla pensione dei genitori, risulta incomprensibile che tante risorse siano destinate a qualcuno per cui si può anche provare pietà, ma che non ha alcuna possibilità di farcela. La storia della Germania e dell'Europa uscita dalla prima guerra mondiale ci racconta che per uno che è disperato è facile credere che il responsabile della propria condizione sia qualcun altro - un malato, uno straniero, un diverso - uno che riceve quello di cui lui avrebbe bisogno; e che può diventare capace di tutto pur di non dividere il poco che riceve con quest'altro. Le parole incaute di quel politico sono la spia di un'angoscia che c'è nella nostra società e che si può trasformare nel peggiore dei nostri incubi.
sabato 5 maggio 2018
da "Il Manifesto del partito comunista" di Karl Marx e Friedrich Engels
I comunisti non costituiscono un partito a sé di fronte agli altri partiti operai. Essi non hanno interessi propri, distinti da quelli del proletariato nel suo insieme. Non stabiliscono dei principi a parte, sui quali vogliono poi modellare il movimento proletario.
I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che essi, da un lato, date le differenti lotte nazionali dei proletari, mettono in rilievo e fanno valere i comuni interessi del proletariato nel suo insieme, interessi che sono appunto indipendenti dalla nazionalità; e dall’altro lato, nelle diverse fasi di sviluppo che la lotta fra il proletariato e la borghesia attraversa, essi rappresentano costantemente l’interesse del movimento complessivo.
I comunisti sono dunque, in pratica, la parte più decisa, e che più spinge innanzi, di tutti i partiti operai di tutti i paesi; essi si avvantaggiano poi dal punto di vista teorico sulla rimanente massa del proletariato per il fatto che conoscono le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario.
L’intento immediato dei comunisti è lo stesso di tutti gli altri partiti proletari: formazione del proletariato in classe, rovina del dominio borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato. Gli enunciati teorici dei comunisti non poggiano affatto sopra idee o principi escogitati o scoperti da questo o quell’altro fra i rinnovatori del mondo. Quegli enunciati sono soltanto l’espressione generalizzata delle condizioni di fatto di una lotta di classe che realmente esiste, ossia di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi.
L’abolizione dei rapporti di proprietà finora esistiti non è la nota veramente caratteristica del comunismo. Tutti i rapporti di proprietà sono sempre andati soggetti a storiche vicende e ad una continua trasformazione. La rivoluzione francese, ad esempio, abolì la proprietà feudale a favore della proprietà borghese. Ciò che caratterizza il comunismo non è l’abolizione della proprietà in genere, ma è l’abolizione della proprietà borghese. Ma la moderna proprietà privata borghese è l’ultima e la più perfetta espressione di quella forma di produzione e di appropriazione che poggia sugli antagonismi di classe e sullo sfruttamento degli uni ad opera degli altri.
In questo senso i comunisti possono riassumere la loro dottrina in questa unica espressione: abolizione della proprietà privata. È stato rimproverato a noi comunisti di voler abolire la proprietà personalmente acquisita attraverso il penoso lavoro: quella proprietà che si dice costituisca il fondamento di ogni libertà, di ogni attività e dell’indipendenza dell’individuo. Proprietà acquistata col penoso lavoro, e individualmente meritata! Parlate voi forse della proprietà del piccolo borghese, o del piccolo possidente contadino, anteriore alla proprietà borghese? Quella non abbiamo bisogno di abolirla; perché lo sviluppo dell’industria l’ha già tolta di mezzo, o è sulla via di distruggerla. O parlate voi, invece, della moderna proprietà privata borghese? Ma il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea forse proprietà per il proletario stesso? In nessun modo. Quel lavoro salariato non genera che capitale, ossia genera la proprietà che sfrutta il lavoro salariato stesso e che può accrescersi solo a patto di generare nuovo lavoro salariato da sfruttare nuovamente.
La proprietà, nella sua forma presente, si muove entro l’opposizione fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di tale antinomia. Essere capitalista non vuol dire soltanto occupare una semplice posizione privata, ma occupare una posizione sociale all’interno del sistema della produzione. Il capitale è un prodotto collettivo e può essere messo in moto solo grazie all’attività concorrente di molti membri della società, anzi, in ultima istanza, solo per mezzo dell’attività combinata di tutti i membri della società stessa. Il capitale non è una potenza personale: è una potenza sociale. Se il capitale, dunque, viene trasformato in proprietà comune, appartenente a tutti i membri della società, non avviene con questo che una proprietà personale si trasformi in una proprietà sociale. È solo il carattere sociale della proprietà che si cambia. Essa perde il carattere di proprietà di classe.
Veniamo al lavoro salariato. Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario, ossia la somma dei mezzi di sussistenza necessari per mantenere in vita l’operaio in quanto è operaio. Ciò, dunque, di cui si appropria l’operaio salariato, mediante la sua attività, basta solo a mantenere e a riprodurre la sua magra esistenza. Questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro, che è indispensabile alla conservazione e riproduzione della vita, noi non vogliamo affatto abolirla; essa non porta alcun profitto netto che dia potere sul lavoro altrui.
Noi vogliamo soltanto abolire il tristo e misero modo di questa appropriazione, per cui l’operaio vive solo per aumentare il capitale e quel tanto che è richiesto dall’interesse della classe dominante. Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per aumentare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per rendere più largo, più ricco, più progredito il modo di esistenza dei lavoratori. Nella società borghese il passato domina sul presente, nella società comunista il presente sarà signore del passato. Nella società borghese il capitale è personale ed indipendente mentre l’individuo operante è privo d’indipendenza e di personalità.
Ora l’abolizione di tale stato di cose viene definita dalla borghesia abolizione della personalità e della libertà. E a ragione. Prima si tratta certamente di abolire la personalità, l’indipendenza e la libertà del borghese. Per libertà, entro gli attuali rapporti borghesi di produzione, s’intende ora il libero commercio, e la libera compravendita. Scomparso il commercio, scompare anche la libertà del commercio. Le frasi risonanti del libero trafficare e mercanteggiare, come tutte le altre vanterie liberalesche della nostra borghesia, hanno in genere un qualche senso solo rispetto - e in contrapposizione - al traffico ed alla cittadinanza del Medioevo, entrambi vincolati, ma non ne hanno nessuno rispetto all’abolizione comunista del commercio, delle forme borghesi di produzione e della borghesia stessa.
Voi raccapricciate all’idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà fu già abolita per nove decimi dei suoi membri: e la proprietà esiste solo in quanto non esiste per quei nove decimi. Voi dunque ci rimproverate che noi vogliamo abolire una forma di proprietà che presuppone come sua indispensabile condizione il privare il gran numero dei membri della società di ogni proprietà.
Voi ci rimproverate, insomma, di voler abolire la vostra proprietà. Senza dubbio, e certamente, noi vogliamo questo. Dal momento in cui il lavoro non si presti più ad essere trasformato in capitale, in denaro, in rendita fondiaria, ossia, a farla breve, non si presti più ad essere trasformato in una forza sociale monopolizzabile, cioè dal momento in cui la proprietà personale non può esser più trasformata in proprietà borghese, da quel momento voi dichiarate che la persona rimane soppressa. Voi, dunque, confessate che sotto il nome di persona non sia da intendere se non il borghese, ossia il proprietario borghese. E questa persona deve essere, non c’è dubbio, soppressa.
Il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie solo la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire il lavoro altrui. È stato obiettato che, abolita la proprietà privata, cesserebbe ogni impulso di attività e nel mondo si diffonderebbe una generale inerzia. Se questo ragionamento reggesse, la società borghese già da un pezzo avrebbe dovuto andare in rovina per effetto dell’indolenza, poiché quelli che in essa lavorano non guadagnano, e quelli che in essa guadagnano non lavorano. Tutta la grave obiezione si riduce a questa tautologia: non c’è più lavoro salariato là dove non c’è più il capitale. Tutte le obiezioni che sono state rivolte alla forma comunistica di produzione e appropriazione dei prodotti materiali, sono state estese anche alla produzione e appropriazione dei prodotti intellettuali.
Quello stesso borghese che ritiene che, eliminando la proprietà di classe, cessi la produzione, afferma allo stesso tempo che, eliminando la cultura di classe, muoia la cultura nel suo insieme. La cultura, di cui si rimpiange la perdita, non è altro per la maggior parte degli uomini che l’avviamento a diventare delle macchine belle e buone. Ma non discutete con noi applicando i vostri criteri borghesi di libertà, cultura, diritto e così via all’abolizione della proprietà borghese. Le vostre idee sono anch’esse un prodotto dei rapporti borghesi di proprietà e di produzione, come il vostro diritto è il volere della vostra classe elevato a legge, un volere il cui contenuto è già dato dalle condizioni materiali d’esistenza della vostra stessa classe.
Questa concezione interessata, che vi fa elevare al grado di leggi eterne della natura e della ragione i vostri rapporti di proprietà e di produzione, che in verità sono nati storicamente nel corso della produzione stessa, voi la condividete con tutte le classi dominanti che sono scomparse. Ciò che voi intendete ed ammettete per proprietà antica, ciò che voi riconoscete per proprietà feudale, non siete più in grado d’intenderlo e di riconoscerlo quando si tratti della proprietà borghese!
Ma voler abolire la famiglia! Perfino i più avanzati fra i radicali si indignano per tale obbrobrioso proposito dei comunisti. Su che cosa si fonda l’attuale famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno personale. Essa esiste nel suo pieno sviluppo solo per la borghesia; ma essa trova il suo complemento nella mancanza forzata della vita di famiglia presso i proletari, e nella prostituzione pubblica. La famiglia del borghese cadrà naturalmente col venir meno di tale complemento ed entrambe spariranno con lo sparire del capitale.
Voi ci rimproverate di voler abolire lo sfruttamento dei fanciulli da parte dei genitori? Noi questo delitto lo confessiamo volentieri. Ma voi dite che noi infrangiamo i più sacri legami perché all’educazione domestica sostituiamo quella sociale. Ma la vostra educazione non è anch’essa determinata dalla società e cioè dalle condizioni sociali all’interno delle quali voi educate, e dall’intervento più o meno diretto od indiretto della società stessa, per mezzo della scuola? Non sono i comunisti che inventano l’azione della società sull’educazione: essi ne mutano soltanto il carattere, sottraendo l’educazione all’influsso della classe dominante. Le dichiarazioni borghesi sulla famiglia, sull’educazione e sui dolci legami che uniscono i figli ai genitori diventano sempre più nauseanti quanto più, per effetto della grande industria, i legami di famiglia si perdono del tutto tra i proletari, e i fanciulli si trasformano in articoli di commercio e in strumenti di lavoro.
Ma voi comunisti, così grida in coro la borghesia tutta intera, voi volete introdurre la comunanza delle donne. II borghese vede nella moglie un semplice strumento di produzione. Ora, nel sentire che gli strumenti di produzione saranno sfruttati in comune, esso non può fare a meno di pensare che la stessa sorte dell’uso in comune debba toccare anche alle donne. E non capisce affatto che si tratta precisamente di togliere alla donna il carattere di uno strumento di produzione. Del resto non c’è nulla di così grottesco quanto l’orrore da moralisti raffinati col quale i nostri borghesi guardano la pretesa comunanza delle donne, che avrebbe presso i comunisti un carattere ufficiale. I comunisti non hanno assolutamente bisogno di introdurre la comunione delle donne, perché questa è quasi sempre esistita. I nostri borghesi, non contenti di avere a loro disposizione le mogli e le figlie dei loro proletari - per non parlare della prostituzione ufficiale - hanno come divertimento principale quello della reciproca seduzione delle loro consorti. II matrimonio borghese è, in realtà, la comunanza delle donne. Tutt’al più si potrebbe rimproverare ai comunisti di voler sostituire alla comunione delle donne dissimulata con ipocrisia, una ufficiale e sincera. Ma si capisce poi del resto che, aboliti gli attuali rapporti di produzione, sparirebbe allo stesso tempo la presente comunanza delle donne, che da quei rapporti deriva, quindi la prostituzione ufficiale e la non ufficiale.
I comunisti vengono inoltre accusati di voler distruggere la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno. Ma come il proletariato d’ogni paese deve innanzitutto conquistare il potere politico, deve elevarsi a classe nazionale e costituirsi in nazione, così esso è e rimane ancora nazionale, sebbene sia tale in un senso del tutto diverso da quello della borghesia.
Le separazioni e gli antagonismi dei popoli vanno via via sparendo con lo sviluppo della borghesia, la libertà del commercio, l’azione del mercato mondiale, l’uniformità della produzione industriale e le condizioni di esistenza che da essa derivano. Quelle differenze e quegli antagonismi spariranno ancor di più per effetto della supremazia del proletariato. L’azione combinata, per lo meno dei proletari dei paesi civili, è una delle prime condizioni dell’emancipazione del proletariato. Nella misura in cui verrà abolito lo sfruttamento dell’individuo, verrà anche meno lo sfruttamento di una nazione ad opera di un’altra. Caduto il contrasto delle classi all’interno delle nazioni, finirà anche l’antagonismo fra le nazioni stesse.
Le accuse contro il comunismo, che partono da considerazioni religiose, filosofiche o ideologiche, non meritano d’essere discusse più accuratamente. Occorre forse una grande profondità di mente per comprendere che, cambiando le condizioni di vita degli uomini, i loro rapporti sociali e il modo d’essere della società, cambiano anche le visioni, le nozioni e le concezioni, il che significa che muta anche la coscienza degli uomini ? Che cos’altro mai dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale si trasforma quando la produzione materiale si rivoluziona?
Le idee dominanti in una determinata epoca sono le idee della classe dominante. Si sente parlare di idee che rivoluzionano un’intera società. Ebbene con ciò si dice semplicemente che in seno alla società preesistente si sono già sviluppati gli elementi di una società nuova, e che la dissoluzione degli antichi rapporti di vita va di pari passo con la dissoluzione delle antiche idee. Quando il mondo antico stava per tramontare, le antiche religioni furono tutte vinte dalla religione cristiana. Quando nel secolo diciottesimo alle idee cristiane si oppose la corrente dei lumi, la società feudale sosteneva l’estrema lotta contro la borghesia, allora rivoluzionaria. Le idee di libertà di coscienza e di libertà religiosa servirono a proclamare il principio della libera concorrenza nel campo del sapere. «Ma - si dirà - non c’è dubbio che le idee religiose, morali, filosofiche, politiche e giuridiche si modificano nel corso degli svolgimenti storici; eppure la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto si sono sempre mantenuti attraverso tutti questi mutamenti. Ci sono inoltre delle verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc. che sono comuni a tutte le forme sociali. Il comunismo, invece, abolisce le verità eterne: abolisce la religione e la morale anziché rinnovarle, e così facendo contraddice tutto lo svolgimento storico verificatosi fin qui.» A che cosa si riduce questa accusa? Tutta la storia della società si è mossa fin qui attraverso i contrasti delle classi che hanno assunto nelle diverse epoche forme diverse. Ma qualunque sia stata la forma assunta da tali contrasti, lo sfruttamento di una parte della società ad opera di un’altra è il fatto costante dei secoli passati. Non bisogna perciò meravigliarsi se in tutti questi secoli, malgrado le diversità e le variazioni mostrate, la coscienza sociale si sia mossa sempre secondo certe forme comuni, forme che si dissolveranno solo con la completa scomparsa dell’antagonismo delle classi.
La rivoluzione comunista è la più radicale rottura con tutti i tradizionali rapporti di proprietà; non bisogna quindi meravigliarsi se nel corso del suo sviluppo essa rompa nel modo più radicale con le idee tradizionali. Ma lasciamo ora da parte le obiezioni della borghesia contro il comunismo. Abbiamo visto sopra che la prima tappa della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato si elevi a classe dominante, ossia nel raggiungere vittoriosamente la democrazia.
Il proletariato si servirà del suo dominio politico per togliere via via alla borghesia tutto il capitale, per concentrare nelle mani dello stato tutti gli strumenti della produzione, ossia nelle mani del proletariato organizzato come classe dominante, e per aumentare con la massima velocità possibile le forze produttive. Naturalmente tutto ciò non può accadere se non attraverso misure dispotiche contro il diritto di proprietà e violazioni dei rapporti borghesi di produzione, ossia con misure che appariranno economicamente insufficienti e insostenibili, che nel corso del movimento supereranno se stesse verso nuove misure, ma che nel frattempo sono i mezzi indispensabili per rivoluzionare l’intero modo di produzione.
Com’è ovvio, tali misure saranno diverse da paese a paese. Ma per i paesi più progrediti, potranno essere generalmente applicate le misure che qui di seguito indichiamo:
1. Espropriazione della proprietà fondiaria e impiego della rendita fondiaria per le spese dello stato.
2. Imposta fortemente progressiva.
3. Abolizione del diritto di eredità.
4. Confisca dei beni degli emigrati e dei ribelli.
5. Accentramento del credito nelle mani dello stato attraverso una banca nazionale con capitale di Stato e con monopolio esclusivo.
6. Accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello stato.
7. Aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano generale.
8. Uguale obbligo di lavoro per tutti, organizzazione di eserciti industriali specialmente per l’agricoltura.
9. Unificazione dell’esercizio dell’agricoltura e dell’industria e misure atte a preparare la progressiva eliminazione della differenza fra città e campagna.
10. Educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell’educazione con la produzione materiale.
Quando nel corso degli eventi le differenze di classe saranno sparite e tutti i mezzi di produzione saranno concentrati nelle mani degli individui associati, il potere pubblico avrà naturalmente perso ogni carattere politico. Il potere politico, nel senso vero e proprio della parola, non è se non il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra. Ora, se il proletariato nella lotta contro la borghesia è spinto a costituirsi in classe, e se attraverso la rivoluzione diventa classe dominante, distruggendo violentemente gli antichi rapporti di produzione, in questo modo esso, abolendo tali rapporti, abolisce le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, e cioè abolisce le classi in generale e il suo proprio dominio di classe. Al posto della società borghese, con le sue classi ed i suoi antagonismi di classe, subentrerà un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti.
venerdì 4 maggio 2018
Verba volant (518): percentuale...
Percentuale, sost. f.
Noi che siamo cresciuti e ci siamo appassionati alla politica durante la "prima repubblica", il lunedì pomeriggio delle elezioni, quando alle 14.00 chiudevano i seggi, sapevamo che poco dopo - mezz'ora o poco più - sarebbero arrivate le prime proiezioni della Doxa. Erano utili quelle percentuali, ma negli anni successivi mi hanno insegnato che a volte possono ingannare e che è sempre più utile contare i voti, una pratica che cerco ancora di coltivare.
Allora guardavamo a quei risultati con trepida attesa, ma anche con la consapevolezza che non sarebbe successo nulla di sconvolgente. E infatti avevamo imparato a leggere gli spostamenti minimi, anche quelli "raccontati" dai decimali. Uno zero virgola qualcosa in più - o in meno - rappresentava comunque un dato da analizzare, ai tempi della Dc e del Pci.
Non è che allora le persone non cambiassero idea da una votazione all'altra - facevamo le campagne elettorali per quello, per convincere gli altri a votare per noi - ma certamente gli spostamenti di voti da un partito all'altro non erano così numericamente consistenti come oggi e comunque erano parte di un processo, che aveva tempi anche lunghi per rendersi evidente e per segnare un passaggio di fase.
Il Pci alle europee del 1984 ebbe 11.714.428 voti: si trattò di un risultato eclatante, perché anche se alle politiche del 1976 aveva ottenuto più voti, quella fu la prima volta in cui, in un'elezione a base nazionale, ci fu il "sorpasso" ai danni della Dc. Certo pesò in quella tornata elettorale l'emozione profonda per la morte, pochi giorni prima del voto, di Enrico Berlinguer, quell'episodio drammatico, vissuto in diretta dagli italiani, incise e spostò molti voti, ma comunque alle politiche dell'anno precedente il Pci aveva 11.032.318 voti: si tratta di una differenza notevole, ma comunque inferiore a 700mila voti.
E anche quando cominciò la "seconda repubblica" - quella in cui io ho esercitato la mia attività politica - anche se gli attori erano cambiati, non lo erano poi così tanto gli elettori. Quando guardammo la cartina delle prime elezioni politiche fatte con il sistema maggioritario vedemmo l'Italia che sostanzialmente conoscevamo già: rossa in Emilia (a esclusione della "lombarda" Piacenza e includendo la campagna mantovana delle lotte bracciantili), in Romagna e nelle regioni del centro Italia, blu al nord e al sud. E anche nelle dinamiche locali vedevamo quello che già conoscevamo. Ad esempio il democristianissimo comune di Castel d'Argile, da sempre isola bianca nella rossa pianura bolognese, divenne l'unica roccaforte del centrodestra in mezzo a comuni dove la maggioranza era saldamente in mano al centrosinistra. E allo stesso modo all'interno delle regioni colorate di blu riconoscemmo le enclaves rosse, là dove dovevano essere. E così potrei continuare, perché comunque i "nuovi" erano gli eredi dei "vecchi" e ne avevano assunto insediamenti territoriali e gruppi dirigenti, oltre che i blocchi sociali a cui facevano riferimento.
Nel corso degli anni vedevamo che qualcosa stava rapidamente cambiando: io sono uno di quelli che ha "perso" Bologna nel '99, anche se poi dopo cinque anni l'abbiamo ripresa. Comunque vedevamo che i collegamenti si allentavano, che stavano cambiando le cose, ma allora non capimmo cosa fare. E non lo capiamo neppure ora.
Adesso - non so se possiamo dire nella "terza repubblica", come dice qualcuno, ma certo ci siamo vicini - quella razionalità politica non funziona più o almeno quelle nostre categorie interpretative sono del tutto inutili. Mi ha colpito il risultato del Friuli-Venezia Giulia, i cui elettori sono stati chiamati al voto, per le politiche e per le regionali, a meno di due mesi di distanza. Il 4 marzo il M5s ha avuto 169.299 voti, mentre il 29 aprile lo stesso partito ha preso 62.775 voti: come si fa a perdere centomila voti in due mesi? Non basta dire che si tratta di elezioni diverse - tanto più che le regionali sono da sempre le più "politiche" tra le amministrative, perché si tratta comunque di un livello di governo piuttosto lontano dai cittadini: per uno di Manzano, nel distretto delle sedie sul Natisone, Trieste e Roma sono più o meno equidistanti. Non basta dire che in queste otto settimane quell'elettorato non si è ritrovato nelle scelte fatte da Di Maio per la formazione del governo. Certo quel partito non esiste sui territori, non ha sedi, non ha gruppi dirigenti locali, esiste solo in televisione, è una grande testa senza corpo, ma anche questo da solo non basta. Perché anche un partito che esiste, come il pd, ha un andamento di voti assolutamente schizofrenico: a livello nazionale nel 2008 aveva 12.095.306 voti, che l'anno dopo scendono a 8.007.854 e così più o meno, pur crescendo di mezzo milione, rimangono fino al 2013, poi nel 2014 arrivano a 11.203.231 e infine crollano a 6.134.727 nel 2018. In dieci anni il pd ha perso sei milioni di voti. La Dc morì perché passò dai 13.241.188 voti del 1987 agli 11.640.265 del 1992: praticamente perse un milione e mezzo, ma quel partito chiuse.
E mi pare che non sia qualcosa che avviene solo in Italia, visto che in Francia Emmanuel Macron in un anno è riuscito a raccogliere, contro i partiti tradizionali, più di venti milioni di voti, un fenomeno inspiegabile nel mondo in cui noi facevamo politica.
Quando guardo a tutti questi numeri ho come l'impressione che siamo arrivati a un punto in cui ogni elezione costituisca un caso a sé e quindi sia sottoposta a un grado imponderabile di irrazionalità. Io non sono di quelli che dicono che gli elettori sbagliano: in una democrazia l'unica regola è avere rispetto delle scelte degli elettori e accettarne le conseguenze. Però siamo di fronte a un problema, e non mi riferisco al dramma di noi che, professionalmente o per puro diletto, pretendiamo di divinar responsi sulla politica e regolarmente li scazziamo.
E' un problema. Dobbiamo riconoscere che nessun corpo intermedio ha ormai più la capacità di influenzare e determinare il voto: non hanno questa forza i partiti, che non esistono più - almeno come noi li abbiamo conosciuti - non ce l'ha la chiesa, né il sindacato né tutti i soggetti che l'hanno avuta per qualche periodo. Quando io ho cominciato a fare politica, nella piccola realtà in cui vivevo, ci conoscevamo tutti e praticamente di tutti sapevamo come votavano, perché la dimensione politica era pubblica e importante per tutti. Oggi non è così, neppure in una realtà piccola, perché le persone non si conoscono, perché nessuno le conosce e la dimensione politica, quando c'è, è assolutamente privata. E riflette una irrazionalità che può cambiare nel giro di qualche settimana. Al di là di chi ne ha beneficiato ieri e di chi ne godrà domani, credo che questo sia un problema per la democrazia, come stiamo vedendo anche in queste settimane, perché prima o poi questo vuoto qualcuno lo riempirà. E allora ci sarà poco da contare.
Noi che siamo cresciuti e ci siamo appassionati alla politica durante la "prima repubblica", il lunedì pomeriggio delle elezioni, quando alle 14.00 chiudevano i seggi, sapevamo che poco dopo - mezz'ora o poco più - sarebbero arrivate le prime proiezioni della Doxa. Erano utili quelle percentuali, ma negli anni successivi mi hanno insegnato che a volte possono ingannare e che è sempre più utile contare i voti, una pratica che cerco ancora di coltivare.
Allora guardavamo a quei risultati con trepida attesa, ma anche con la consapevolezza che non sarebbe successo nulla di sconvolgente. E infatti avevamo imparato a leggere gli spostamenti minimi, anche quelli "raccontati" dai decimali. Uno zero virgola qualcosa in più - o in meno - rappresentava comunque un dato da analizzare, ai tempi della Dc e del Pci.
Non è che allora le persone non cambiassero idea da una votazione all'altra - facevamo le campagne elettorali per quello, per convincere gli altri a votare per noi - ma certamente gli spostamenti di voti da un partito all'altro non erano così numericamente consistenti come oggi e comunque erano parte di un processo, che aveva tempi anche lunghi per rendersi evidente e per segnare un passaggio di fase.
Il Pci alle europee del 1984 ebbe 11.714.428 voti: si trattò di un risultato eclatante, perché anche se alle politiche del 1976 aveva ottenuto più voti, quella fu la prima volta in cui, in un'elezione a base nazionale, ci fu il "sorpasso" ai danni della Dc. Certo pesò in quella tornata elettorale l'emozione profonda per la morte, pochi giorni prima del voto, di Enrico Berlinguer, quell'episodio drammatico, vissuto in diretta dagli italiani, incise e spostò molti voti, ma comunque alle politiche dell'anno precedente il Pci aveva 11.032.318 voti: si tratta di una differenza notevole, ma comunque inferiore a 700mila voti.
E anche quando cominciò la "seconda repubblica" - quella in cui io ho esercitato la mia attività politica - anche se gli attori erano cambiati, non lo erano poi così tanto gli elettori. Quando guardammo la cartina delle prime elezioni politiche fatte con il sistema maggioritario vedemmo l'Italia che sostanzialmente conoscevamo già: rossa in Emilia (a esclusione della "lombarda" Piacenza e includendo la campagna mantovana delle lotte bracciantili), in Romagna e nelle regioni del centro Italia, blu al nord e al sud. E anche nelle dinamiche locali vedevamo quello che già conoscevamo. Ad esempio il democristianissimo comune di Castel d'Argile, da sempre isola bianca nella rossa pianura bolognese, divenne l'unica roccaforte del centrodestra in mezzo a comuni dove la maggioranza era saldamente in mano al centrosinistra. E allo stesso modo all'interno delle regioni colorate di blu riconoscemmo le enclaves rosse, là dove dovevano essere. E così potrei continuare, perché comunque i "nuovi" erano gli eredi dei "vecchi" e ne avevano assunto insediamenti territoriali e gruppi dirigenti, oltre che i blocchi sociali a cui facevano riferimento.
Nel corso degli anni vedevamo che qualcosa stava rapidamente cambiando: io sono uno di quelli che ha "perso" Bologna nel '99, anche se poi dopo cinque anni l'abbiamo ripresa. Comunque vedevamo che i collegamenti si allentavano, che stavano cambiando le cose, ma allora non capimmo cosa fare. E non lo capiamo neppure ora.
Adesso - non so se possiamo dire nella "terza repubblica", come dice qualcuno, ma certo ci siamo vicini - quella razionalità politica non funziona più o almeno quelle nostre categorie interpretative sono del tutto inutili. Mi ha colpito il risultato del Friuli-Venezia Giulia, i cui elettori sono stati chiamati al voto, per le politiche e per le regionali, a meno di due mesi di distanza. Il 4 marzo il M5s ha avuto 169.299 voti, mentre il 29 aprile lo stesso partito ha preso 62.775 voti: come si fa a perdere centomila voti in due mesi? Non basta dire che si tratta di elezioni diverse - tanto più che le regionali sono da sempre le più "politiche" tra le amministrative, perché si tratta comunque di un livello di governo piuttosto lontano dai cittadini: per uno di Manzano, nel distretto delle sedie sul Natisone, Trieste e Roma sono più o meno equidistanti. Non basta dire che in queste otto settimane quell'elettorato non si è ritrovato nelle scelte fatte da Di Maio per la formazione del governo. Certo quel partito non esiste sui territori, non ha sedi, non ha gruppi dirigenti locali, esiste solo in televisione, è una grande testa senza corpo, ma anche questo da solo non basta. Perché anche un partito che esiste, come il pd, ha un andamento di voti assolutamente schizofrenico: a livello nazionale nel 2008 aveva 12.095.306 voti, che l'anno dopo scendono a 8.007.854 e così più o meno, pur crescendo di mezzo milione, rimangono fino al 2013, poi nel 2014 arrivano a 11.203.231 e infine crollano a 6.134.727 nel 2018. In dieci anni il pd ha perso sei milioni di voti. La Dc morì perché passò dai 13.241.188 voti del 1987 agli 11.640.265 del 1992: praticamente perse un milione e mezzo, ma quel partito chiuse.
E mi pare che non sia qualcosa che avviene solo in Italia, visto che in Francia Emmanuel Macron in un anno è riuscito a raccogliere, contro i partiti tradizionali, più di venti milioni di voti, un fenomeno inspiegabile nel mondo in cui noi facevamo politica.
Quando guardo a tutti questi numeri ho come l'impressione che siamo arrivati a un punto in cui ogni elezione costituisca un caso a sé e quindi sia sottoposta a un grado imponderabile di irrazionalità. Io non sono di quelli che dicono che gli elettori sbagliano: in una democrazia l'unica regola è avere rispetto delle scelte degli elettori e accettarne le conseguenze. Però siamo di fronte a un problema, e non mi riferisco al dramma di noi che, professionalmente o per puro diletto, pretendiamo di divinar responsi sulla politica e regolarmente li scazziamo.
E' un problema. Dobbiamo riconoscere che nessun corpo intermedio ha ormai più la capacità di influenzare e determinare il voto: non hanno questa forza i partiti, che non esistono più - almeno come noi li abbiamo conosciuti - non ce l'ha la chiesa, né il sindacato né tutti i soggetti che l'hanno avuta per qualche periodo. Quando io ho cominciato a fare politica, nella piccola realtà in cui vivevo, ci conoscevamo tutti e praticamente di tutti sapevamo come votavano, perché la dimensione politica era pubblica e importante per tutti. Oggi non è così, neppure in una realtà piccola, perché le persone non si conoscono, perché nessuno le conosce e la dimensione politica, quando c'è, è assolutamente privata. E riflette una irrazionalità che può cambiare nel giro di qualche settimana. Al di là di chi ne ha beneficiato ieri e di chi ne godrà domani, credo che questo sia un problema per la democrazia, come stiamo vedendo anche in queste settimane, perché prima o poi questo vuoto qualcuno lo riempirà. E allora ci sarà poco da contare.
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