venerdì 30 ottobre 2015

Verba volant (219): semplice...

Semplice, agg.

Quando i Frigi non avevano ancora un re, un antico oracolo predisse che il primo uomo che fosse entrato nella loro città su un carro trainato da dei buoi, sarebbe stato investito di tale potere. Come era prevedibile, fu un contadino il primo a giungere in città su un carro e questi divenne re. Il carro di Gordio - così si chiamava quel contadino - fu legato a un palo, assicurandone la stanga con un intricato nodo di corda in corteccia di corniolo. Tempo dopo, un altro oracolo profetizzò che se qualcuno fosse riuscito a sciogliere quel nodo avrebbe dominato su tutta l'Asia minore. Quando, nella primavera del 333 a.C., Alessandro Magno arrivò in quell'antica città, avendo l'ambizione di dominare sull'intero oriente, presto capì che il nodo non poteva essere sciolto e lo tagliò con la sua spada; la profezia così si compì.
Ho raccontato questa storia perché il potere ha sempre avuto la tentazione di annullare la complessità del mondo, di semplificare - magari con un taglio netto - quello che gli appare troppo difficile da risolvere. Mi è venuto in mente, vedendo che semplice è uno degli aggettivi preferiti e più utilizzati dall'attuale regime.
Alcuni giorni fa il garrulo presidente-segretario, per festeggiare l'approvazione in Senato della riforma costituzionale Gelli-Napolitano, ha scritto uno dei suoi soliti tweet, per dire che grazie a questo provvedimento può continuare "il sogno di un’Italia più semplice e più forte". Mentre era in Sudamerica, per mettere a tacere le polemiche contro l'innalzamento della soglia all'uso del contante, ha detto che il suo governo ha reso più semplice trovare gli evasori, perché "questo è lo stato che funziona solo con un clic". Qualche tempo fa aveva dichiarato, con la solita baldanza, che anche l'Europa dovrebbe essere più semplice.
A me questa affannosa ricerca della semplicità suona un po' sospetta. Come la spada di Alessandro.
Al di là di certi aspetti decisamente naif, l'uomo sceglie con cura le parole e in particolare questo aggettivo rivela il fatto che la filosofia che sta dietro alle riforme istituzionali e più in generale all'azione di governo non è assolutamente di sinistra. Un uomo di sinistra dovrebbe sognare un'Italia più giusta, renzi invece, che di sinistra non è mai stato, sogna un'Italia forte, richiamando una retorica di altri tempi - infelici per il nostro paese - e soprattutto più semplice. Questo è davvero l'aggettivo più rivelatore del pensiero profondo che sta dietro queste riforme e questo modo di fare politica, così profondamente di destra.
E' complesso il governo di una società come la nostra, in cui ci sono tanti interessi, spesso contrapposti. Perfino un manicheo come me, uno che divide il mondo in buoni e cattivi, sa che in mezzo tra questi due poli c'è sostanzialmente di tutto. Per anni abbiamo pensato che creare nuove industrie avrebbe significato creare nuovi posti di lavoro, poi ci siamo accorti che significava anche ridurre le risorse del pianeta e aumentare l'inquinamento. Produrre più cibo potrebbe sfamare il mondo, ma aumentare la produzione di cibo richiede un'energia che il nostro pianeta non può produrre e sopportare. E potremmo fare molti altri esempi. Una società vive inevitabilmente di conflitti, le nostre famiglie vivono di conflitti, noi siamo cresciuti anche contrapponendoci ai nostri genitori, così come loro sono cresciuti contrapponendosi ai loro. Questo è qualcosa che non può essere semplificato, può essere studiato - anzi deve esserlo - e deve essere usato come una risorsa. Non esistono soluzioni semplici, esistono soluzioni più o meno giuste, più o meno democratiche, più o meno condivise.
Un paese democratico è per forza di cose complesso, perché la democrazia è in sé complessa e complessi sono i meccanismi affinché possa funzionare nel miglior modo possibile. Voler ridurre la complessità della democrazia a questa pretesa semplicità significa sostanzialmente ridurre tutto al pensiero unico, significa dire ai cittadini che è meglio che loro non pensino, perché adesso ci penseranno "lor signori".
La tecnologia semplifica la vita in molti campi, ad esempio migliora il nostro modo di lavorare, perfino di noi burocrati della pubblica amministrazione. Certo la burocrazia è stata creata per essere complessa, fumosa, volutamente oscura, perché così poteva essere utilizzata come uno strumento per tenere sottomessi i cittadini. E quindi semplificare la burocrazia è giusto e necessario. Io ovviamente sarei contento se davvero bastasse un clic per scoprire tutti gli evasori fiscali che ci sono nel nostro paese, però credo che sia davvero importante sapere chi è che spinge quel bottone e soprattutto come è stata impostata e programmata quella macchina. E questo non è una questione tecnica, ma tutta politica, tutta democratica, tutta legata alla conoscenza e alla consapevolezza delle persone.
Essere di sinistra credo significhi anche - tra le tante cose - battersi non per annullare la complessità, ma per dare a tutti - o almeno al maggior numero possibile di persone - gli strumenti per capirla, per interpretarla, per fare in modo che questa complessità porti vantaggi e non svantaggi, giustizia e non ingiustizie.
Personalmente non ho mai sognato un'Italia più forte - anche perché quello è un sogno da fascisti - e soprattutto non ho mai sognato un'Italia più semplice, per questo non voglio che questi novelli emuli di Alessandro mettano mano alla Costituzione, che è nata proprio per reazione a un regime che voleva un paese forte e semplice. Per questo, quando finalmente li avremo cacciati, dovremo pensare a come costruire un'Italia più onesta, più intelligente, più giusta, più solidale. E più complessa.

domenica 25 ottobre 2015

Considerazioni libere (406): a proposito di un anno che è passato invano...

Il 25 ottobre dell'anno scorso abbiamo riempito le strade di Roma. E' stata una bellissima manifestazione: c'eravamo, in tanti, in tantissimi, c'era la Cgil, tutta la Cgil, c'erano le nostre bandiere, c'era l'orgoglio della sinistra italiana e c'era la voglia di costruire un'opposizione, costruttiva, consapevole, entusiasta. Io sono uno di quelli che, grazie a quella manifestazione, è tornato in piazza, dopo tanti anni in cui non mi sentivo più a casa in una piazza. E come me erano tanti, ci siamo ritrovati, provenendo ciascuno da una strada diversa. Pensavamo di esserci ritrovati, finalmente, di aver ripreso un cammino insieme, che per troppo tempo avevamo interrotto. E' passato un anno, ma l'opposizione non è nata, né da quella piazza né da altre parti.
In un anno qualcosa in Europa è successo. Un anno fa non avremmo realisticamente creduto che la sinistra radicale avrebbe vinto le elezioni in Grecia - due volte - che due donne di sinistra sarebbero diventate sindaco di Madrid e di Barcellona, che uno come Jeremy Corbyn sarebbe diventato il leader del Labour, che i partiti della sinistra, uniti dopo quarant'anni, sarebbero stati in grado di offrire un governo diverso al Portogallo, un governo che non è ancora nato perché c'è stato un colpo di stato orchestrato dal presidente della Repubblica di quel paese (evidentemente Napolitano ha fatto scuola nella peggior destra europea).
In Italia non abbiamo neppure cominciato o, quando lo abbiamo fatto, con troppa timidezza. Leggo che tra le forze - per usare un eufemismo - che stanno a sinistra del pd si sta ragionando di dar vita a un soggetto comune, almeno a una sorta di coordinamento parlamentare, ma pare che la discussione sia tutta incentrata - e forse arenata - sull'opportunità o meno di fare delle alleanze locali con il pd nelle prossime elezioni amministrative di primavera. Con tutto il rispetto per le amministrazioni di quelle città, non possiamo pensare che la sinistra possa rinascere così, in un dibattito che coinvolge - quando va bene - soltanto un po' di ceto politico. Di fronte a una crisi che coinvolge la sinistra europea da almeno vent'anni e che riguarda temi fondanti, come l'identità, i valori, l'idea stessa di socialismo, non possiamo perdere tempo su un pugno di assessorati tra Milano, Bologna e Napoli. La nostra agenda, almeno per qualche anno, non può essere dettata dalle scadenze elettorali. Per noi l'unico appuntamento fondamentale nel 2016 dovrà essere il referendum sulla riforma costituzionale Gelli-Napolitano, a cui dovremo rispondere convintamente NO, convincendo la maggioranza degli italiani a bocciare questo vero e proprio attentato alla Costituzione. Per il resto dovremo occuparci di altre questioni, a partire dalla critica radicale al modello economico e politico in cui viviamo, in una prospettiva che io credo debba essere autenticamente rivoluzionaria.
Io sono uno di quelli che - forse ingenuamente - ha sperato che la Cgil saltasse il fosso, decidesse di diventare opposizione a questo governo, a questo regime. Evidentemente c'è una discussione all'interno dell'organizzazione, qualcuno pensa che sia possibile, qualcuno ha anche provato a mettere in fila alcune idee, alcune proposte, in un percorso che avrebbe coinvolto necessariamente lo stesso modo di essere sindacato, ma la maggioranza della Cgil pensa ad altro. Ha pensato ad altro nel corso di tutto questo anno, che abbiamo sostanzialmente perso, ha pensato che la cosiddetta minoranza pd avrebbe avuto il coraggio e ha investito su di loro in un'attesa che ormai rischia di essere vana e inconcludente come quella di Godot. Forse non manca intelligenza in qualcuno di quelli della minoranza - partire da Bersani - ma certamente fa loro difetto il coraggio, e un anno fa era già evidentissimo, dal modo in cui si erano ripetutamente piegati a una serie di atti incostituzionali portati avanti dalle maggiori cariche istituzionali del paese. Da uno come Bersani, che ha accettato, senza fiatare, tutto quello che lui stesso ha subito, quando gli fu impedito di presentarsi alle camere, pur avendo vinto le elezioni, non possiamo adesso sperare nulla. Anche perché loro hanno ormai fatto una scelta di campo e purtroppo non a sinistra, hanno scelto l'altra parte, hanno scelto il liberismo, hanno scelto i padroni, è una scelta legittima, ma non può essere la nostra. E spero non sia neppure quella della Cgil, che però non riesce ad affrancarsi da questa zavorra.
Personalmente in questo anno ho smesso di credere che la Cgil possa essere il motore di questo nuovo inizio. Con tanti compagni della Cgil certamente faremo quel cammino, certamente sosterremo battaglie importanti che il sindacato condurrà, a partire da quella per abolire la controriforma dello Statuto dei lavoratori, ma dobbiamo cominciare un percorso dal basso che purtroppo prescinde dalla Cgil che rischierebbe a questo punto di essere soltanto un elemento di freno.
Evidentemente sarà un percorso diverso da quello fatto dagli inglesi non solo perché non esiste un Corbyn italiano, ma soprattutto perché il pd ormai non è più scalabile, è in mano a renzi e ai suoi complici e con loro morirà. Né possiamo sperare, come è successo in Spagna e in Portogallo, in un'alleanza tra la sinistra radicale e quella moderata. In Italia, proprio perché la sinistra moderata non esiste più, anche il senso della definizione di sinistra radicale ha perso di senso. Personalmente continuo a pensare che per l'Italia l'unico modo di ricostruire la sinistra sia quello di ripartire da zero, da qualcosa di simile alle società di mutuo soccorso, alle leghe dei lavoratori, ovviamente alla luce di come il mondo è cambiato in questo secolo. Nella solidarietà tra gli ultimi, tra gli oppressi, tra i vinti della storia, rinascerà una storia diversa. Qualcuno di noi che era in piazza il 25 ottobre di un anno fa non avrà la fortuna di vedere questa storia nuova, ma non per questo bisogna smettere di lottare.

mercoledì 21 ottobre 2015

Verba volant (218): occupare...

Occupare, v. tr.

Solo qualche anno fa - una vita fa, a essere sincero - pensavo e scrivevo cose diverse su molte questioni. Ad esempio pensavo che occupare fosse un reato. Certo anche allora provavo a capire le ragioni, spesso molto serie e complesse, a volte drammatiche, delle persone che si trovavano a occupare delle case vuote e lavoravo, nei limiti delle mie capacità e di quello che potevo fare per il mio ruolo politico e amministrativo, per risolvere queste situazioni. Nonostante questi distinguo, su questo punto avevo un'idea ferma e precisa: occupare è un reato e quindi è una forma sbagliata di lotta politica e sociale. Adesso non credo più sia un reato - naturalmente lo è per il codice, ma questo non mi interessa più o almeno mi sembra rilevante molto meno di allora - e soprattutto credo che sia un'azione di lotta possibile, certo non l'unica, ma una delle possibili.
Ci pensavo ascoltando alcune notizie che in queste settimane sono passate sugli organi di informazione, su cui c'è stata più o meno attenzione - ma quasi mai sono finite in prima pagina - a seconda del contesto politico e sociale in cui sono avvenute queste occupazioni. Anche se in nessun caso si è affrontato davvero il problema alla sua radice, ossia lo scandalo della povertà di un numero sempre crescente di persone e della disparità nella distribuzione delle risorse.
A Bologna ormai ogni settimana avviene uno sgombero. In un caso l'amministrazione comunale è stata platealmente ignorata, mentre in un altro è stata probabilmente connivente, anche se chiamata soltanto a cose fatte, quando c'era da recuperare i cocci. E' ormai cominciata la campagna elettorale, il partito che governa la città fa di tutto per cancellare il proprio passato di sinistra e cerca di accreditarsi a destra, per costruire una nuova maggioranza, ma soprattutto la magistratura vuole condizionare l'azione amministrativa del sindaco e purtroppo ci sta riuscendo. Quando la politica è debole - e oggi a Bologna è debolissima - è inevitabile che altri poteri, più o meno palesi, più o meno legittimi, più o meno democratici, ne prendano il posto: è un problema che dovrebbe interessare tutti quelli che hanno a cuore la democrazia, dovrebbe interessare perfino a quelli del pd. Mi preoccupa, da persona che ha amato Bologna, che ha un debito di riconoscenza per quello che ha insegnato a tanti di noi e che l'ha conosciuta diversa, l'indifferenza di una città che un tempo si sarebbe mobilitata di fronte a un attacco sistematico della magistratura alla convivenza sociale e alle prerogative politiche e democratiche, che avrebbe espresso maggiore solidarietà a quelle persone in difficoltà e soprattutto che avrebbe provato a costruire soluzioni per risolvere quel problema. Soluzioni politiche, perché da questa crisi si esce con la politica e non con la forza, come temo immagini qualcuno e qualcuno dice esplicitamente in piazza.
Un paio di settimane fa a Parma la magistratura e le forze dell'ordine hanno sgombrato una palazzina che era stata occupata da alcune famiglie, tutte con bambini piccoli. Questo edificio apparteneva a una delle società di Calisto Tanzi - era la sede di una delle agenzie di viaggi del gruppo - e, a causa dei noti dissesti finanziari della Parmalat, è passata da tempo nella disponibilità di una banca creditrice. L'edificio è rimasto vuoto per anni e così alcune famiglie lo hanno occupato, sistemando i danni più gravi e adattandolo alla meglio come abitazione, visto che prima veniva usato come sede di uffici. A un certo punto però la banca si è ricordata di avere quel bene, ne ha chiesto lo sgombero e l'ha ottenuto, perché formalmente ne è la proprietaria e perché evidentemente anche qui c'è qualcuno che vuole usare le "maniere forti". Chi ha commesso il reato più grave? Le famiglie che hanno occupato quell'edificio o la banca che è stata prima complice dei vertici di Parmalat e poi ha arraffato quel che poteva quando l'azienda è fallita? Di chi è quella casa? Di chi l'ha occupata, l'ha sistemata e l'ha ricominciata a utilizzare o di chi la usa come un numero, come un valore per garantire i propri investimenti? Chi ha più diritto su quell'edificio? Le famiglie che l'hanno occupato o la banca che l'ha "rubato"?
Io trovo scandaloso - e questo sì che dovrebbe essere un reato - che nelle nostre città ci siano migliaia e migliaia di case vuote, di proprietà della rendita finanziaria, delle banche a seguito di pignoramenti, delle assicurazioni. E ancora più scandaloso che ce ne siano tantissime di proprietà pubblica; probabilmente non c'è neppure un censimento preciso di tutti questi immobili vuoti o mal utilizzati di proprietà pubblica. Spesso queste case sono nelle aree centrali delle città, mentre in questi anni abbiamo continuato a costruire, troppo e troppo male, abbiamo realizzato case brutte, in brutte periferie. In sessant'anni abbiano cementificato un'area pari all'Emilia-Romagna, concentrandoci quasi sempre sulle aree più fragili dal punto di vista idrogeologico, più delicate da quello ambientale e più belle da quello paesaggistico. Abbiamo rovinato questo paese costruendo male e lasciando andare in malora un patrimonio immobiliare notevole. E il paradosso è che abbiamo costruito tanto, troppo, e tante persone, troppe, sono senza casa. E' qui che la politica ha fallito, che abbiamo fallito anche noi che abbiamo avuto responsabilità nel governo locale.
Diventando vecchio, contrariamente a quello che succede ai più, sono diventato più radicale e, come succede invece un po' a tutti, sono sempre meno paziente. Per questo non sono più disponibile a pensare a piani a lungo termine, a protocolli di intenti, a progetti su larga scala: non abbiamo più tempo per queste c...te. Bisogna cominciare a fare qualcosa. Occupare - al di là del fatto che sia un reato, ma questo ormai non mi importa - è un sistema che ha dei difetti. Quasi mai risolve i problemi di chi ha più bisogno, è una forma di lotta che aiuta i più forti tra i deboli. Però ormai, visto il punto in cui siamo arrivati, è indispensabile e auspicabile. Fa bene chi occupa. Intanto per mettere il potere di fronte alle proprie responsabilità: ti abbiamo scoperto, sappiamo che hai delle case vuote, perché non le metti a disposizione? Per mettere le amministrazioni locali di fronte ai loro errori: perché continuate a far costruire, se ci sono tante case vuote che potrebbero essere recuperate? Per costringere il capitale a cedere una parte dei propri beni: perché non vuoi dare ai più poveri quello che hai ottenuto, spesso togliendolo a loro, con la truffa e con la violenza?
Chi non ha nulla, chi è stato derubato fin della dignità, chi non immagina un futuro per sé e per i propri figli, è una vittima. Se occupa è una reazione legale, un atto di legittima difesa, perché fino ad ora è stato sistematicamente escluso dai diritti dei poteri dominanti. Occupare quello che è vuoto, che è in attesa di speculazioni immobiliari - come la sede dove c'era una volta la Telecom in via Fioravanti a Bologna - che viene lasciato deperire, non deve e non può essere punito. L'unico discrimine deve essere la condanna della violenza, che non è mai accettabile, e il non riconoscere il diritto di un altro povero: così ad esempio è sbagliato occupare una casa popolare che sta per essere assegnata, perché in questo modo si lede quel diritto, assolutamente legittimo, di qualcuno che ha più bisogno. La vera ingiustizia, la vera violenza è quella contro la dignità delle persone e delle famiglie. Ingiustizia è quando le case non sono al servizio dell'uomo, ma del profitto.
In Spagna da questo tema è ripartita la sinistra, la sinistra vera, perché migliaia di persone erano state gettate fuori dalle loro case da quelle banche che avevano concesso loro mutui in maniera disinvolta - per usare un eufemismo - e che quindi si sono ritrovate con un enorme patrimonio immobiliare inutilizzato. Così sono cominciate le occupazioni, gestite da associazioni, gruppi, realtà spontanee. E' stata bandita la violenza e sono state attivate reti di aiuto. Le famiglie che hanno occupato si sono impegnate a pagare un affitto equo, sostenibile, spesso aprendo dei conti in quelle stesse banche che stavano facendo di tutto per cacciarle, proprio per versare ogni mese questo affitto autoimposto. Le nostre città hanno bisogno che noi facciamo nascere realtà simili a queste, che - al di là della politica ufficiale, ormai sempre più incapace di guardare a quello che succede nel corpo vivo del paese - ricostruiscano quel tessuto solidale, di mutuo aiuto che tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento mise in moto il progresso sociale e politico che ha portato tanti risultati nel secolo scorso. E che noi abbiamo colpevolmente gettato alle ortiche, seguendo un sogno neoliberale.
Quelle donne e quegli uomini furono rivoluzionari, perché rispettarono prima le leggi morali che quelle dei codici. Noi dobbiamo riscoprire quello spirito là, se non vogliamo morire servi di un potere che ci concederà soltanto quello che potremo spendere nei loro centri commerciali. Abbiamo bisogno di dire che ci sono leggi ingiuste che non riconosciamo più e che non riconosciamo un'autorità - come quella vista all'opera a Parma, a Bologna, in tante altre realtà - che è solo violenza, sopraffazione, difesa dei più ricchi contro i più poveri.
Spesso in queste occupazioni sono nate forme di solidarietà inedite. Di questo ha bisogno la nostra società, che ne conosce sempre meno. Don Giovanni Nicolini, uno dei pochi a Bologna che ha protestato, ha detto che alcune di queste realtà, benché fuori dalla legalità, danno vita a una legalità superiore. I compagni e gli amici di Coalizione Civica Bologna, altri che hanno protestato, hanno detto che c'è un solo modo per stare dalla parte della giustizia sociale: stare dalla parte dei deboli. Credo che dobbiamo ripartire da qui, dal basso, dall'inizio, anche riprendendoci spazi e parole, anche occupando - o rioccupando - un luogo politico e ideale che era nostro. E rioccupandoci degli altri.

lunedì 19 ottobre 2015

Verba volant (80): treno...

Treno, sost. m.

Nella lingua italiana questa parola ha due significati molto diversi: quasi si può parlare di due parole differenti dal momento che hanno un'etimologia e una storia completamente diverse.
Treno, come calco del greco antico threnos, significa canto funebre. Celebri sono i treni di Simonide - suo quello per i caduti alle Termopili - e quelli di Pindaro. Per estensione sono dette treni anche le Lamentazioni dell'omonimo libro della Bibbia, attribuito al profeta Geremia.
Nel suo secondo - e più consueto - significato questa parola deriva dal francese train, ossia traino, un derivato del verbo traîner che, per etimologia e valore semantico, corrisponde all'italiano trascinare. Il significato di "convoglio ferroviario" si è formato dapprima nella lingua inglese - peraltro il treno lo hanno inventato loro - dove, come in italiano, train è un prestito dal francese.
In queste settimane ci è capitato spesso di parlare di treni, nella seconda accezione del termine, dal momento che l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato ha minacciato addirittura di andare in volontario esilio all’annuncio che il governo avrebbe di poco ridotto il suo faraonico stipendio. Si è trattato della solita tempesta in un bicchier d’acqua, dal momento che il ventilato taglio non c’è stato, lasciando quindi Mauro Moretti nel posto che occupa immeritatamente da cinque governi fa.
E’ notizia degli ultimi giorni che da quest’anno Moretti, invece di tagliare il proprio stipendio, ha deciso di eliminare gli intercity, così che le Ferrovie dello Stato gestiscano di fatto soltanto l’alta velocità, avendo ormai da tempo abbandonato a se stesso il trasporto locale e gli sventurati pendolari costretti ad utilizzarlo. Anzi in questo caso è possibile vedere una singolare sintesi tra i due significati della parola treno, viste le continue lamentazioni, veri e propri canti funebri, che è possibile ascoltare in qualunque stazione italiana, alla partenza e all’arrivo - quando partono e quando arrivano, cosa non sempre scontata - dei sempre più malmessi convogli del trasporto passeggeri di fascia bassa.
Ho deciso di affrontare questa definizione non per parlar male di Moretti, ma perché tra pochi giorni festeggeremo gli ottant’anni della Direttissima Bologna-Firenze: infatti il 22 aprile 1934 fu finalmente inaugurata questa fondamentale linea ferroviaria, i cui lavori - peraltro difficili a causa delle condizioni di lavoro e del terreno - erano iniziati nel 1913 e furono resi molto più complicati dalla Grande Guerra. Quella linea nasceva subito “moderna”, a doppio binario con trazione elettrica, curve ampie e ben raccordate. Rispetto alla Porrettana il percorso si era accorciato da 131 a 97 chilometri; il tempo di percorrenza tra Bologna e Firenze, che dalle cinque ore del 1864 si era ridotto a tre ore nel primo dopoguerra e nel 1927 con l’elettrificazione della Porrettana a due ore e mezza, con la nuova Direttissima si dimezzava di colpo a un’ora e un quarto. Furono almeno un centinaio i caduti della Direttissima, gli operai morti durante la realizzazione dell’opera, in particolare della grande galleria dell’Appennino - 18,507 chilometri, allora la seconda più lunga del mondo, dopo quella del Sempione - senza contare quelli che si ammalarono di silicosi.
Immagino sia stata anche l’influenza dei film western, del mito americano della frontiera, ma per noi emiliani sono stati i più domestici racconti sulla Direttissima a farci considerare da sempre l’espandersi delle ferrovie come un elemento di progresso, come un evento positivo della storia degli uomini.
Non sono uno storico dell’argomento, ma immagino che allora non sia mai sorto qualcosa di lontanamente paragonabile a un movimento no-Direttissima. Magari ci fu qualcuno che avrebbe preferito un diverso tracciato o l’utilizzo di altre soluzioni tecniche, penso che qualche notabile di Porretta si sia arrabbiato per quella scelta, ma nessuno pensava che quella ferrovia non dovesse essere realizzata. Anzi quella ferrovia ha rappresentato un elemento di orgoglio nazionale, e in questo modo fu utilizzata dal regime fascista; non per altro il Duce si vantava di far arrivare i treni sempre in orario. La costruzione di quella linea - che adesso chiameremmo una “grande opera” - ha rappresentato una grande occasione di sviluppo per quel territorio e un’opportunità di lavoro, in Italia, per tantissime persone. La Direttissima in sostanza ha unito l’Italia non solo in senso geografico, avvicinando la pianura padana al resto della penisola, ma ha rappresentato davvero un elemento unificante del paese, come è avvenuto nel secondo dopoguerra con l’Autostrada del sole. In qualche modo eravamo ancora nel tempo delle magnifiche sorti e progressive, nonostante solo cinque anni dopo l’Europa sarebbe stata sprofondata nell’incubo della seconda guerra mondiale. La scienza e la tecnica erano però un elemento di progresso, nonostante tutto.
In fondo ottant’anni non sono molti, eppure il nostro modo di affrontare questi temiè completamente cambiato. Prendiamo la vicenda dell’alta velocità tra Torino e Lione.
In merito alla linea Tav, da cittadino, sarei disposto a subire dei sacrifici - e un così pesante intervento sul territorio adesso lo consideriamo un sacrificio, a differenza di quello che avremmo pensato ottant’anni fa - se ciò significasse un vantaggio per la collettività. Il problema è che in questa vicenda sono ben chiari i sacrifici, ma sono molto più aleatori e vaghi i vantaggi.
Ritengo che, in queste condizioni, la Tav sia un errore e provo a spiegare perché.
Mi pare che in questa vicenda siano state finora prevalenti due opposte visioni ideologiche, quelli che considerano la Tav come un indispensabile elemento di progresso, una necessità strategica per l’Italia e per l’Europa e quelli che la considerano un danno, a prescindere. Fino a quando la discussione rimarrà su questo piano è evidente che nessuno riuscirà a convincere nessuno. La Tav forse non si realizzerà, o forse, più probabilmente, si realizzerà male, all’italiana - un po’ di Tav, per non scontentare nessuno e quindi scontentando tutti - perché gli appetiti sono tanti, più o meno leciti, ma certamente non si riuscirà nemmeno a ragionare sul futuro dei trasporti e della logistica in questo Paese - e questo è un grave problema per tutti, indipendentemente dalla Tav.
In Italia viaggiare e far viaggiare le merci è un’impresa forse paragonabile a quella dei pioneri del selvaggio West: si sa quando si parte, ma non quando si arriverà. In Italia viaggiare è quasi sempre sinonimo di utilizzare l’automobile, far viaggiare le merci significa quasi sempre caricarle su camion. La rete del trasporto ferroviario, al netto della linea ad alta velocità tra Roma e Milano, è nettamente al di sotto degli standard degli altri paesi europei.
In queste condizioni tra le priorità dell’Italia non c’è la linea Torino-Lione. Prima occorre rendere più snello il traffico locale, migliorando le reti di trasporto pubblico;decongestionare il traffico di lungo raggio, potenziando la rete ferroviaria, tutta la rete ferroviaria, da nord a sud; ridurre il traffico dei tir, con una politica di disincentivi, attraverso l’imposizione di pedaggi molto più costosi. Come è evidente si tratta di uno sforzo economico incredibile - molto più gravoso di quello necessario per realizzare la Torino-Lione - che richiederebbe miliardi di investimenti diffusi sul territorio. Tra l’altro è lecito chiedersi che visione dell’Italia c’è dietro un’opera che potenzia il traffico di persone e merci tra ovest ed est dell’Italia settentrionale, mentre i collegamenti tra il nord e il sud dell’Italia, quelli sì veramente strategici alla luce dello sviluppo mediterraneo, sono al livello che conosciamo, basti pensare alla Salerno-Reggio Calabria o alle ferrovie siciliane.
La linea Torino-Lione riuscirà a diminuire in maniera sensibile il traffico di automobili su quella tratta? Probabilmente no, anche perché non è particolarmente significativo dal punto di vista numerico, come ad esempio quello dell’asse nord-sud. L’alta velocità sposterà considerevolmente il traffico merci dalla gomma al ferro? No. Per raggiungere questo scopo non serve l’alta velocità, facendo guadagnare un’ora o due di tempo, basterebbe penalizzare la circolazione dei tir sulla strada e rendere più conveniente e soprattutto certa in termini di orari quella su ferro, mentre in Italia avviene esattamente il contrario. Il problema è che Svizzera e Austria sono impegnate a potenziare la propria rete di trasporto su ferro, mentre in Italia preferiamo “impiccarci” a un progetto che interessa un angolo del paese dove viaggia solo una piccola parte delle merci.
Inoltre preoccupa il fatto che su quanto costerà effettivamente la Torino-Lione ci siano forti divergenze. I comitati della Val di Susa stimano che quest’opera costerà almeno 23 miliardi di euro, a cui si devono aggiungere altre spese difficili da prevedere, ad esempio per la gestione della sicurezza presso i cantieri (per Chiomonte si è arrivati a spendere 90mila euro al giorno). Gli stessi comitati denunciano anche una sproporzione nell’accordo con la Francia per la ripartizione dei costi: l’opera sarà per un terzo sul suolo italiano, ma il nostro paese sosterrà il 57,9% delle spese. Infine ci sono dei dubbi sull’effettiva misura del contributo europeo. Chi sostiene la necessità di realizzare la Tav, dice invece che costerà 2,8 miliardi di euro, e che questa spesa, dilazionata in dieci anni, è sostenibile; dicono inoltre che il contributo europeo è certo e che potranno esserci anche investimenti privati, sul modello di esperienze simili fatte in Europa. La differenza tra i due dati è troppo grande, anche perché, in buona sostanza, il tracciato non è ancora stato stabilito definitivamente e di conseguenza è difficile credere che i costi possano essere individuati in maniera univoca.
Chi sostiene che la Tav, a questo punto, debba essere completata gioca con le parole; i lavori non sono mai cominciati veramente né sul versante italiano né su quello francese. E’ stato impiantato un cantiere dove saranno raccolti i detriti dei primi scavi conoscitivi che serviranno a ottenere informazioni sul tipo di rocce, in modo da stabilire il tracciato definitivo della linea. Forse siamo ancora in tempo a fermarci, magari decidendo di spendere quei soldi in maniera diversa.
E allora?
E allora / io quasi quasi prendo il treno / e vengo, vengo da te, / ma il treno dei desideri / nei miei pensieri all’incontrario va.

articolo pubblicato la prima volta il 6 aprile 2014 

sabato 17 ottobre 2015

Verba volant (217): goal...

Goal, sost. m.

Lo so che goal è una parola inglese e che dovrei usare rete, però il football, come disse una volta il presidente Pertini raccontando la propria emozione per il penalty sbagliato da Cabrini nella finale dell'82, deve essere raccontato in inglese.
Qualche giorno fa, in un paese vicino a Bologna, si è svolta una partita di calcio del campionato provinciale giovanissimi, che è finita 31 a 0. Anche chi non si intende di sport sa che è un risultato praticamente impossibile, che indica un'incredibile disparità tra le due squadre in campo.
Poco prima della fine dell'incontro l'arbitro, poco più che ventenne, ha consultato gli allenatori e ha deciso, d'accordo con loro, di interrompere la partita, il cui esito era chiaramente segnato. Qualche giorno dopo l'arbitro è stato sospeso perché non ha rispettato il regolamento, che non prevede la fine della partita per manifesta superiorità di una delle due squadre. Qualcuno ha già sottolineato che il vero errore dell'arbitro non sia stato tanto sospendere la partita quanto scrivere questa sua decisione nel referto arbitrale; se non avesse scritto nulla, l'Aia non lo avrebbe mai saputo, perché nessuna delle squadre avrebbe protestato e oggi potrebbe arbitrare ancora, dimostrando quel buon senso che evidentemente non hanno usato i suoi superiori di Bologna. Comunque sia una piccola lezione di vita si evince anche da questo episodio: l'ipocrisia nel calcio - come nella vita - paga sempre più dell'onestà.
Se mio figlio avesse giocato quella partita e avesse segnato il trentunesimo gol - ma anche il ventunesimo o l'undicesimo - lo avrei punito. E lo avrei tolto da quella squadra, perché evidentemente gli allenatori e i dirigenti di quella società non sono stati capaci di svolgere il loro ruolo educativo. Lo sport è uno strumento formativo importante, per alcuni ragazzi più importante anche della scuola, perché trasmette valori e può contribuire alla crescita di una persona. Infierire su un avversario in difficoltà non è un valore, pensare che sia fondamentale vincere, a qualsiasi costo e a qualsiasi prezzo, non è un valore, preferire la propria personale soddisfazione alla giustizia e al rispetto verso gli altri non è un valore. Evidentemente nessuno ha insegnato questi valori a quei ragazzini, che si sono trovati davanti una squadra così platealmente più debole, o, se qualcuno lo ha fatto, non è stato particolarmente efficace. E purtroppo, leggendo un qualsiasi giornale, vedendo quello che succede ogni giorno nel nostro paese, ci accorgiamo che noi stiamo insegnando ai nostri figli proprio questo, a pensare a se stessi prima che agli altri, a essere servili con chi è più forte di loro e arroganti con chi è più debole e spieghiamo loro che vincere è la cosa più importante di tutte, e che quindi si possono anche violare le regole, pur di farlo.
Continuare a fare goal, farne trentuno mentre gli altri ragazzini annaspavano, magari gioire per quelle reti così chiaramente immeritate, è stata una cosa decisamente stupida. Sono stato un ragazzino stupido anch'io e so che a quell'età si fanno cose stupide, ma ricordo anche che ci sono quasi sempre stati degli adulti che mi hanno fermato e mi hanno punito. Mi rendo conto che non è facile giudicare non avendo visto le cose, non avendo partecipato a quei fatti, ma penso che i dirigenti della squadra che ha vinto avrebbero dovuto chiedere loro di fermare la partita, avrebbero dovuto ritirare la squadra, anche se questo avrebbe comportato dare la vittoria a tavolino agli altri, anzi proprio perché questo avrebbe fatto vincere quelli che sul campo non avrebbero mai vinto. E forse, se ben spiegata, quella sconfitta sarebbe stata più utile di quella vittoria che sarà ricordata solo come una storia da bar.

giovedì 15 ottobre 2015

Verba volant (216): vaccino...

Vaccino, sost. m.

Non ho figli - e non ne avrò - e quindi tratto questo tema con qualche pudore. Sono già troppi quelli che non hanno figli e che vogliono spiegare a chi li ha in che modo devono fare i genitori; come dice l'antico adagio, chi sa fa e chi non sa insegna. Credo che essere padre - e tanto più essere madre - sia una cosa terribilmente complicata; tanto più in questi tempi così difficili. Non vi invidio, anzi ammiro il vostro coraggio, al limite della temerarietà, per aver fatto la scelta di diventare genitori.
Da non-padre mi ha colpito molto la discussione che in questi giorni si sta facendo sulla vaccinazione dei bambini. Ho letto che cresce il numero di famiglie che decidono consapevolmente di non vaccinare i propri figli e che di conseguenza c'è una reazione delle autorità sanitarie e soprattutto della maggioranza delle famiglie che sono preoccupate che queste mancate vaccinazioni possano causare malattie che si pensavano debellate. Ho letto, come credo abbiate fatto anche voi, che a Bologna è morta una bambina per la pertosse, una malattia che i nostri genitori chiamavano "tosse cattiva"; e la cosa ha generato un comprensibile allarme sociale.
Credo che i miei genitori non si siano neppure posti il tema se vaccinarmi o meno. Per quelli della loro generazione il vaccino non era solo un obbligo sanitario, ma in qualche modo una conquista sociale, il segno che il mondo stava cambiando, in meglio. La possibilità che tutti i bambini venissero vaccinati rappresentava una conquista, perché questo avrebbe significato debellare una serie di malattie, per cui molti, troppi, bambini loro coetanei erano morti. C'era probabilmente un'ingenuità eccessiva in questo affidarsi alla magnifiche sorti e progressive della scienza, così come era a volte mal riposta la fiducia che avevano comunque per il medico, che era uno che aveva studiato e quindi aveva più ragione più di loro, che invece non avevano studiato. E infatti uno dei loro principali obiettivi era che noi studiassimo, che diventassimo anche noi dottori.
E in qualche modo lo siamo diventati. Siamo diventati più attenti, più critici, più disincantati. Abbiamo imparato a fidarci meno dei dottori e ancor meno delle autorità sanitarie. Spesso con ragione. Io, lo sapete, ho questo vizio antico di essere socialista e anticapitalista e quindi penso tutto il male possibile delle grandi multinazionali del farmaco; credo che, al là della retorica, la loro mission non sia affatto quella di curare le persone, ma solo quella di ingrassare gli azionisti. Per questo mi batto affinché la sanità non sia privatizzata, soprattutto la ricerca non sia privatizzata, perché le industrie farmaceutiche lavorano soltanto per il loro profitto, mentre la ricerca scientifica deve essere libera. Troppe volte non lo è, troppe volte i laboratori universitari indirizzano le loro ricerche solo verso determinati settori, perché ricevono finanziamenti privati, indispensabili per sopravvivere, dal momento che lo stato le sostiene sempre meno, troppe volte le riviste scientifiche mentono perché i loro editori sono gli stessi che controllano le industrie farmaceutiche, troppe volte i medici non sono credibili, perché ricevono tangenti per dire quello che le industrie vogliono che loro dicano. Se tutto questo è vero - e purtroppo lo è - perché allora dovremmo far vaccinare i nostri figli?
Io credo che farei vaccinare i miei figli, perché la possibilità che tutti i bambini lo siano è ancora una conquista sociale. Sconfiggere le malattie, così come il curare tutte le persone allo stesso modo, è un obiettivo socialista e quindi è un mio obiettivo. E' più di un anno che in Africa nessun bambino muore a causa della poliomielite e per me questa è una buona notizia. Poi in Africa i bambini continuano a morire, a causa di altre malattie, ma soprattutto a causa nostra, perché finanziamo le guerre in quel paese, perché per mantenere il nostro stile di vita sfruttiamo le loro risorse, perché consideriamo quel popolo una merce. Però i bambini dell'Africa - e di tutto il mondo - non muoiono più di polio. Il vaccino si chiama così perché questa parola indicava sia il vaiolo che colpiva i bovini - il vaiolo vaccino appunto - sia il pus ricavato dalle pustole del vaiolo bovino, usato per l'immunizzazione attiva contro il vaiolo umano. Il vaiolo non esiste più da almeno trentacinque anni, è rimasta solo questa parola, con la sua storia etimologica, a ricordarlo. E questa è una vittoria del progresso.
Sono ingenuo anch'io come i miei genitori? Forse sì, ma sicuramente anch'io vaccinerei i miei figli, accettando il rischio che un vaccino comporta - che ogni vaccino comporta - perché il costo sociale di non vaccinarsi credo sia ancora più grave e coinvolga tutti, non solo la mia famiglia, non solo i miei figli. Però dobbiamo fare in modo che la ricerca vada avanti, che sia pubblica, libera e indipendente, dobbiamo togliere potere alle industrie e alle multinazionali del farmaco, dobbiamo punire i medici che si fanno comprare e che in questo modo tradiscono la loro missione. Dobbiamo lottare affinché le bambine e i bambini salvati dalle malattie non vengano uccisi dai conflitti o nel tentativo disperato di attraversare il Mediterraneo. Dobbiamo cambiare il mondo, una cosa che abbiamo visto essere piuttosto difficile, ma da questa malattia non riusciamo proprio a guarire.

mercoledì 14 ottobre 2015

"Biglietto di viaggio" di Samih al-Qasim


Quando sarò ucciso, uno di questi giorni
l'assassino troverà nella mia tasca i biglietti di viaggio
uno verso la pace
uno per i campi di pioggia
uno
verso la conoscenza dell'umanità

(ti prego di non sprecare i biglietti mio caro assassino
ti prego di partire…)

sabato 10 ottobre 2015

Considerazioni libere: (405): a proposito di un omicidio politico...

Temo ricorderemo a lungo, e con sgomento, quello che è avvenuto in questi giorni nel nostro paese. Se non sapremo reagire - e sinceramente non vedo alcun segno di reazione, capace di mobilitare una nuova resistenza - probabilmente diremo ai nostri figli e ai nostri nipoti che abbiamo assistito al momento in cui il regime si è reso palese, manifesto, al momento in cui il regime ha gettato la maschera, non nascondendo più la propria capacità di violenza.
Saranno tante le meschinità di cui dovremo ricordarci. Io segnalo, ora per allora, l'articolo che Lorenzo D'Albergo - dobbiamo cominciare a fare i nomi dei congiurati e dei loro servi, a futura memoria - ha scritto per Repubblica il 7 ottobre scorso; lo cito non solo perché è un articolo fazioso - ce ne sono stati tantissimi su quel giornale, contro o a favore di molte persone, non sarebbe neppure questo il problema - ma perché volgarmente fazioso, orgogliosamente di propaganda. A D'Albergo hanno detto "parla male di Marino" e D'Albergo esegue, con furia cieca, sfidando il ridicolo, mettendo in fila banalità, mezze verità, discorsi da bar, senza fare alcun riscontro, ma evidentemente né a lui né a chi gli ha ordinato di scrivere quell'articolo importa. Anzi, nel suo pressapochismo, nella sua ostentata volgarità, questo articolo è stato per me il segno che Marino aveva perso: se erano disposti a tanto, significava che ormai il sindaco era condannato. Ce ne sono stati tanti di articoli così, sul Corriere, in Rai, nelle televisioni commerciali e tutti con lo stesso bersaglio, tutti con lo stesso mandante. In questi giorni gli organi di informazione, tutti gli organi di informazione, hanno contribuito a far dimettere Ignazio Marino, tutti hanno partecipato a questo attacco squadrista. Non si sono sottratti neppure autorevoli prelati che, fingendo di non sapere di essere registrati, in una finta trasmissione di intrattenimento, che molte volte si è già prestata a queste operazioni di killeraggio politico, hanno sfogato la loro rabbia contro il bersaglio che doveva essere politicamente ucciso.
Le dimissioni di Marino non sono un episodio di lotta politica, certo meschina, ma in qualche modo riconducibile a precisi e circoscritti obiettivi politici e affaristici. Certo sono state anche questo, ma soprattutto sono state la prova generale del regime: una prova perfettamente riuscita. Da adesso, se non ci sarà una reazione - e temo che non ci sarà - tutto sarà possibile, come, dopo il delitto Matteotti, tutto è stato possibile.
Non so se il mandate di questo omicidio sieda, ora come allora, a Palazzo Chigi. Certo il presidente-segretario è il vincitore di questo scontro, ma sinceramente fatico a immaginarlo così potente. Certo è smodatamente ambizioso, certo è pronto a mentire e a tradire pur di continuare a governare, certo è un esecutore instancabile e tenace, e molto meno stupido di quanto voglia farci credere con il suo improbabile inglese, ma credo che anche lui sia una pedina di altri, che muovono davvero i fili di questa triste vicenda. Gli stessi che stanno riscrivendo la Costituzione in senso autoritario, togliendo ruolo alle assemblee legislative e agli enti locali, gli stessi che hanno abolito una parte importante dello Statuto dei lavoratori, gli stessi che sono pronti a diventare ancora più ricchi con le privatizzazioni dei servizi e dei beni pubblici.
Sicuramente Ignazio Marino è stato la vittima, ma - vi prego - non facciamone un eroe. Marino si è trovato soltanto dalla parte sbagliata della rivoltella. Il dottore è uno che ha provato a giocare e che ha perso, perché aveva carte peggiori o perché era meno bravo a barare, quindi non facciamone un santo o, peggio ancora, una bandiera della sinistra. Sarebbe deleterio, perché proprio la storia politica di Marino è emblematica della crisi democratica di questo paese. Non è che io ce l'abbia particolarmente con lui, solo mi ricordo, mi ricordo tutto. Marino è uno che è entrato in politica per fare il ministro, il segretario del pd o il sindaco di Roma, niente di meno. Solo in una fase di crisi così acuta della politica uno come Marino, venuto dal nulla, poteva sperare di arrivare così in alto, senza dimostrare in fondo nessuna qualità. Per fare il medico occorre aver studiato a lungo, per diventare un bravo chirurgo bisogna lavorare anni, in Italia invece crediamo che per fare politica non occorra studiare, anzi pensiamo che chi ha fatto politica sia il meno adatto per governare. E quindi siamo disposti a votare chi non ha mai fatto politica; perfino uno come Marino.
Stendiamo poi un velo sui mariniani, ossia su quei dirigenti locali del pd che hanno sostenuto Marino quando si candidò a segretario, nella consapevolezza che la sua sconfitta avrebbe comunque assicurato a qualcuno di loro un qualche posto di sottogoverno, in nome di un pluralismo spartitorio che funzionava ancora in quel partito, prima che renzi prendesse tutto. E così i mariniani - non costringetemi a fare i nomi, spulciate un po' e li troverete da soli - sono diventati consiglieri comunali, regionali, deputati; se hanno ancora le loro cariche immagino siano diventati renziani.
Gli apologeti di Marino dicono che è onesto. Se anche lo fosse - e personalmente non lo metto assolutamente in dubbio - cosa significherebbe? Dobbiamo scegliere qualcuno solo perché è onesto? Tutti dovrebbero esserlo. Eppure tanti in Italia hanno fatto carriera politica, in particolare a sinistra, solo perché erano - e sono - onesti. Ma l'onestà non può essere un programma politico, e Marino un programma non l'ha mai avuto, o meglio non ha mai avuto un programma di sinistra, perché non è uno di sinistra, ma solo uno che aveva l'ambizione di fare il ministro, il segretario del pd o il sindaco di Roma, niente di meno.
Si è espresso, da cattolico, a favore delle unioni civili e dei diritti delle persone omosessuali; questo significa essere di sinistra? No. Ha pedonalizzato i Fori imperiali e ha tolto gli ambulanti attorno ai monumenti; questo significa essere di sinistra? Non so, ma francamente non mi pare rilevantissimo. Ha fatto davvero qualcosa per migliorare la vita delle migliaia di persone che vivono malissimo nelle periferie di Roma? Ecco questa sarebbe stata una cosa di sinistra, magari impopolare, perché avrebbe toccato rendite, poteri costituiti, privilegi piccoli e grandi. Ha denunciato l'enorme patrimonio immobiliare, pubblico e privato, che c'è a Roma, spesso vuoto, a volte "affittato" ai soliti noti, mentre tante persone sono senza casa o vivono in case che dovrebbero essere abbattute? Espropriare le case sfitte delle banche sarebbe un atto da comunista e certo Marino non voleva essere considerato tale. Ha messo insieme alcuni slogan, gli stessi che ha messo insieme renzi, che ha messo insieme Civati, che ha messo insieme Barca, che hanno messo insieme tanti altri, miscelandoli in maniera diversa, ma sostanzialmente dicendo - o non dicendo - tutti le stesse cose, usando tutti la stessa vuota retorica, infarcita di nuovismo e di riforme. Tutti costoro non rappresentano altri che se stessi, quando va bene; quando va male rappresentano i "poteri" economici e affaristici che li sostengono, li finanziano, li "votano". Nel cocktail politico di Marino c'era - rispetto a quelli degli altri - un po' più di antipolitica. Ma poi, quando passi dall'antipolitica alla politica, c'è sempre uno più "antipolitico" di te; e Marino alla fine ha pagato anche questo.
Ovviamente non è questo il nodo, non hanno dimesso il sindaco per le buche, per la metro che non funziona, per il degrado, per gli scontrini. Marino ha pagato un prezzo così alto, anche dal punto di vista umano, per non aver offerto la propria disponibilità ai potenti di turno, a quelli che vogliono fare affari con il Giubileo della misericordia, a quelli che da sempre mungono la vacca e che naturalmente vogliono continuare a farlo. Poco importa a questo punto se non l'ha fatto perché è davvero onesto o perché anche lui aveva i suoi amici da beneficare con i soldi "santi" in arrivo, insieme ai pellegrini, nella Città eterna. Questo ormai importa solo a Marino e alla sua coscienza. Quel capitolo è chiuso. Adesso tornano a sedersi a tavola i convitati famelici che abbiamo già visto all'opera. E poco importa che vincano gli uni o gli altri, la cosiddetta destra o la cosiddetta sinistra, sappiamo che sono soliti frequentare gli stessi ristoranti, quelli preferiti anche dai Casamonica e dagli amici degli amici.
Da qualche tempo il partito di regime a Roma è commissariato, ma quanti iscritti sono stati espulsi? Quanti circoli sono stati chiusi? Il "commissario" Orfini non poteva e non voleva cambiare nulla, anzi doveva cambiare il sindaco, e proprio sotto il Giubileo, perché in nome della fretta, dell'emergenza, della necessità di non fare una brutta figura con il resto del mondo, tutto diventa lecito, così come è accaduto a Milano con Expo. Il sogno di renzi e dei suoi pupari è di non andare più al voto, di sostituire i sindaci con podestà nominati dal governo. Ma siccome sanno che non possono farlo, svuotano i poteri degli enti locali, rendono i sindaci sempre più deboli. La riforma della Costituzione sta andando tutta in questa direzione e l'attacco a Marino è figlio della stessa idea: se hanno potuto sbarazzarsi così facilmente del sindaco della capitale, quale altro amministratore può sentirsi al sicuro? L'omicidio politico di Marino è anche un avvertimento, in stile mafioso, a tutti gli altri: o vi adeguate o vi distruggeremo.
A Roma, nonostante i giochi di regime, potrebbe questa volta vincere il candidato del Movimento Cinque stelle; personalmente penso sia auspicabile, piuttosto che vinca un uomo della premiata ditta renzi-verdini. Se fossi romano probabilmente voterei per loro, perfino per uno dal passato discutibile come Alessandro Di Battista o per una antipatica come Roberta Lombardi. Francamente non ho molta fiducia che un'amministrazione grillina possa ribaltare una situazione così incancrenita, possa ripulire tutto il marcio incrostato in questi decenni. Sarebbe perfino ingiusto chiedere a loro un impegno così improbo, caricarli di aspettative impossibili da mantenere, tanto più che avrebbero contro il regime, con tutta la sua potenza di fuoco. Ma è giusto che ne abbiano l'opportunità e, ripeto, se servisse, avrebbero perfino il mio sostegno. Di fronte a un regime occorre rinunciare a qualcuna delle nostre posizioni, pur di fermare - o almeno rallentare - la sua affermazione.
Non può essere questa però la nostra prospettiva. Bisogna cominciare davvero a costruire qualcosa di diverso, bisogna tornare a un'idea di rappresentanza politica, basata su comuni valori, sulla condivisione di interessi di classe, bisogna tornare a costruire un'idea socialista attorno a cui riunire le persone che sono colpite ogni giorno dall'affermazione violenta del finanzcapitalismo, bisogna costruire una difesa per le classi più povere, per i lavoratori con sempre meno diritti, per i giovani che non hanno un futuro. E insieme tornare ad attaccare; prima che sia troppo tardi. 

venerdì 9 ottobre 2015

"Diga" di Erri De Luca


Chiasso di acque nei cieli, «hamòn màim bashamàim».
Così un profeta intese la voce che grondava su di lui
da un acquario di stelle.
Ascolta un altro chiasso,
una montagna intera che sfracella sopra l'invaso di una diga.
Era di notte, aggredite dal crollo
esplosero le acque verso l'alto a strappare le case di Erto e Casso
dai pendii a meridione e poi di nuovo in giù, acque su acque,
oltre la muraglia-sgabello a sradicare a valle Longarone,
lago, fiume e tempesta di Vajont, duemila nostri spenti.

Ascolta il tutto del sangue quando l'amore stringe:
moltiplicalo per il quadrato delle stelle fisse,
per il grido del capretto sgozzato ogni Pasquanatale,
per la sega del fulmine e il piccole del tuono,
aggiungilo agli schianti del bosco cancellato,
larici, abeti, càrpini, betulle, cervi, gufi, lepri, martore,
uova, ali, zampe, artigli stritolati: e poi dividi
per il silenzio di un minuto dopo. Non giocare con l'acqua,
non chiuderla, frenarla, è lei che scherza
dentro grondaie, turbine, ponti, risaie, mulini e vasche di saline.
È alleata col cielo e il sottosuolo,
ha catapulte, macchine d'assedio, ha la pazienza e il tempo:
passerai pure tu, specie di viceré del mondo,
bipede senza ali, spaventato a morte dalla morte
fino a metterle fretta.

mercoledì 7 ottobre 2015

Verba volant (215): famiglia...

Famiglia, sost. f.

Ecco una parola dalla storia molto antica, e particolarmente curiosa, perché si tratta di uno dei casi, non molto frequenti, in cui una parola della lingua dei vinti si è imposta in quella dei vincitori. Nel latino familia si trova infatti la radice della parola osca che indica la casa. Tra la fine del IV secolo e l'inizio del III a.C. i tre conflitti tra romani e sanniti - che parlavano appunto osco - che fino ad allora sostanzialmente si equivalevano, segnarono il definitivo predominio di Roma sull'Italia centro-meridionale; eppure qualcosa di quel popolo rimase e significativamente proprio il nome che indicava uno degli istituti più importanti e sacri per i romani, la familia appunto, che comprendeva non soltanto le persone legate al pater familias con legami di sangue, ma anche i famuli, i servi della casa, che, appunto perché legati alla casa, facevano parte a tutti gli effetti di quella famiglia.
Perché la famiglia cambia, come cambia la società. E cambiamo tutti noi che inevitabilmente in una famiglia ci siamo nati e che, non così inevitabilmente, una famiglia abbiamo provato - o proviamo - a costruirla.
Una cosa che mi disturba è che ormai famiglia sia una parola - e un concetto - di cui si sono impossessati manu militari gli altri; e pare che noi non ne possiamo parlare, se non per criticare quello che gli altri dicono o impongono. Come sapete in questi giorni gli altri hanno addirittura convocato una seduta solenne dei loro dignitari sparsi per il mondo per spiegare come dovrà essere la famiglia nei prossimi anni, cosa potranno o non potranno fare le persone che hanno una famiglia. E noi incredibilmente ci appassioniamo a temi di cui non dovremmo neppure occuparci. A me sinceramente importa poco se un divorziato possa o meno partecipare a un rito rispettabile e antico come l'eucarestia, ma che appunto riguarda solo loro. Cominciamo a dire, da laici, che le loro regole, quelle che impongono al loro fan club sono affar loro, e naturalmente di quelle persone che vogliono seguirle. Sono persone che rispetto naturalmente, e per questo non mi voglio immischiare nelle loro questioni. Noi non possiamo star qui a discuterle. Non vogliamo che loro impongano a tutti le loro regole? Giustissimo. Smettiamo però noi per primi di occuparci di qualcosa che non ci riguarda.
Laicamente proviamo a partire dall'idea che la famiglia non è qualcosa che appartiene a loro, di cui loro hanno l'esclusiva, ma qualcosa di cui dovremmo occuparci tutti. Anche perché la famiglia non è solo quel complesso di regole sessuali a cui loro sembrano ridurla, in un'ossessione figlia forse del fatto che non lo fanno, o non lo dovrebbero fare. Certamente ci sono anche le questioni legate al sesso all'interno della famiglia, ma non sono così predominanti come sembra immaginare il cardinal Caffarra.
E la famiglia non è neppure quella che ci raccontano i pubblicitari che, per quanto un po' più complessa e composita di quella immaginata dai vescovi - perché ammette anche le coppie omosessuali - è sempre così armoniosamente felice, visto che gli unici problemi che paiono avere quelle famiglie siano che tipo di surgelati acquistare o che contratto di telefonia sottoscrivere. La famiglia del Mulino bianco è ben più pericolosa di quella pensata dai padri sinodali.
La famiglia, o meglio, le famiglie sono invece una realtà sociale un po' più complessa da quella immaginata da santa romana chiesa e dalla pubblicità, intanto sono luoghi del conflitto, perché non è facile stare in famiglia, a volte è addirittura impossibile ed è meglio prenderne atto. Altre volte invece il conflitto è fecondo, spesso quello tra generazioni lo è, quello tra genitori e figli serve a far crescere gli uni e gli altri, come quello all'interno delle coppie. Sinceramente fatico a immaginare una famiglia senza conflitto, poi bisogna avere l'intelligenza di volgerlo in positivo, di fermarsi prima che sia distruttivo, ma evitiamo di pensare che non ci sia.
Per fortuna le famiglie - come le società - sono cambiate e sono migliorate. Credo che una famiglia di oggi sia migliore di una famiglia di cent'anni fa, perché anche questa realtà è diventata in qualche modo più democratica, più attenta ai bisogni di tutti i suoi componenti, più capace di mettersi in relazione, dentro e fuori di essa. Poi non siamo mai contenti - noi progressisti, noi di sinistra non possiamo mai esserlo, per definizione - e vorremmo una società ancora più democratica, ancora più giusta, ancora più solidale, e di conseguenza una famiglia con le stesse caratteristiche. So bene che questi piani non sono sempre andati di pari passo: mio nonno era un sincero socialista, uno di quelli che pensava che gli uomini fossero tutti uguali, ma non era altrettanto "socialista" con sua moglie e con sua figlia. Era ipocrita? Forse, ma quelli erano i tempi, tanto che i "bravi" comunisti mal tolleravano la famiglia "non regolare" di Togliatti, che pure consideravano il Migliore, e i progressisti leggevano e apprezzavano Pasolini, anche se lo giudicavano, con una carta dose di moralismo, un busone.
Molto è stato fatto, ma non pensiamo che quel tempo sia passato. Una società cresce e migliora anche nel modo in cui crescono e migliorano le famiglie, anzi dovremmo essere consapevoli che tanto ciascuno di noi lavora per costruire la propria famiglia, di qualunque tipo sia, secondo certi valori, quanto contribuisce in questo modo a costruire una società con quelle stesse caratteristiche positive. Credo sia importante capire che la relazione con il nostro partner - chiunque esso sia e ovviamente qualunque sia il suo generecome quella con i nostri figli influisce, nel bene e nel male, sulla società in cui quella famiglia agisce. E dobbiamo essere altrettanto consapevoli che una famiglia non è qualcosa di dato, qualcosa che troviamo, ma appunto una realtà che dobbiamo costruire. E costruire è sempre faticoso, intanto perché implica un progetto, una capacità di immaginare qualcosa che non c'è ancora e la consapevolezza che quel qualcosa sarà inevitabilmente diverso da come l'abbiamo progettato, sia perché le condizioni mutano e sia soprattutto perché la costruzione avviene, almeno in una prima fase, in due - a cui dopo possono aggiungersi altre persone - e ciascuno ha le proprie idee, le proprie aspirazioni, i propri desideri. E' anche la parte più bella - sapete, eminenze, perfino più del sesso - vedere alla fine questa costruzione complessa, che è necessariamente diversa dai disegni di partenza. E che, come ogni costruzione, richiede pazienza e tenacia e fantasia.
Se ci pensate questo discorso riguarda anche la politica, anzi è la politica, perché è lo stesso percorso attraverso cui si costruisce una comunità, la si rende capace di aprirsi alle nuove persone che parteciperanno a quel percorso. Per questo la famiglia è qualcosa che ci riguarda tutti, non solo perché tutti ne abbiamo una - anche se qualcuno non vorrebbe averla o gli va stretta - ma perché fa parte di quella realtà più grande, a cui tutti dobbiamo partecipare. Con amore.

venerdì 2 ottobre 2015

"Cronache" di Pietro Ingrao


Non sapevamo dov'era la sponda,
non trovammo i segni, ma torri, orme
talune sommerse, pensieri
testimoni lasciati dagli inermi, dove
solchi sembravano slargarsi
in vento di passione comunitaria:
sporgetevi sui volti, i libri
contestati, le deflagrazioni della sconfitta:
là trascorse, avvampò
la nostra vita.