sabato 31 dicembre 2016

Verba volant (335): innocenza...

Innocenza, sost. f.

Ha suscitato clamore - e polemica - la frase pronunciata da un direttore di orchestra al termine di un concerto che, essendo dedicato alle musiche dei film Disney, aveva un pubblico composto in gran parte da bambine e bambini; invece dei soliti auguri, il maestro ha annunciato, in maniera solenne e dall'alto del suo podio, che Babbo Natale non esiste. Pare che i genitori degli innocenti presenti in sala - che evidentemente credevano ancora alla storia del vecchio con la barba bianca, vestito di rosso, che porta i regali a tutti i bambini del mondo - intendano condurre una class action contro l'incauto e troppo cinico musicista.
Ma qual è l'età giusta per dire ai nostri figli che Babbo Natale non esiste? E che anzi quel vestito rosso è stato creato da un pubblicitario di un secolo fa, per ricordare il colore dell'etichetta di una famosa bevanda gassata? E che quel vecchio è l'immagine moderna di un santo che viene dalla Licia, le cui reliquie sono state una delle cause delle crociate? E noi, quando abbiamo saputo che Babbo Natale - o la Befana o santa Lucia o sant'Antonio o chiunque porti i regali nella festa che da sempre si celebra intorno al solstizio d'inverno - non esiste?
E qual è l'età giusta per dire ai nostri figli che esistono la guerra, la povertà, lo sfruttamento? Qual è l'età giusta per far perdere loro l'innocenza? Magari suona un po' retorico, ma è inevitabile pensare a quelle bambine e a quei bambini che, all'età in cui i nostri figli - fortunatamente - credono ancora a Babbo Natale, hanno già combattuto o sono state violentate o hanno conosciuto un dolore che speriamo che i nostri figli non conoscano mai.
Sapete che non ho figli, ma immagino che se ne avessi, spererei potesse credere il più a lungo possibile alla storia di quel simpatico vecchio che la notte di Natale solca i cieli con la sua slitta trainata dalle renne, ma credo che poi gli - o le - vorrei insegnare quali mali, quali ipocrisie, quali interessi inconfessati ci sono dietro una crociata, che pericoli nasconde una campagna pubblicitaria e che sfruttamento c'è dietro quelle bollicine così seducenti, come sono complesse, varie, ma anche simili, le tradizioni dei popoli della terra e come tutti siamo spaventati quando le giornate di accorciano e come poi festeggiamo quando vediamo che ricominciano ad allungarsi. E soprattutto gli - o le - dovrei insegnare cosa sono la guerra, la povertà, lo sfruttamento, affinché quando sarà adulto - o adulta - continui a essere innocente, ma soprattutto lotti affinché questi mali diminuiscano.
Se ci voltiamo dall'altra parte, se facciamo finta di niente, non siamo innocenti, solo perché non facciamo male a qualcun altro. Perché essere innocenti non significa essere ignari di quello che succede nel mondo e neppure smettere di fare del male, ma combattere contro chi continua a farlo e difendere chi lo subisce. Quindi, quando avranno saputo che Babbo Natale non esiste, insegniamo ai nostri figli e alle nostre figlie che saranno davvero innocenti quando avranno combattuto per questo ideale.

giovedì 29 dicembre 2016

Verba volant (334): principessa...

Principessa, sost. f.

Carrie Fisher era una donna capace di ironia e spesso diceva che a diventare famosa non era stata lei, ma la principessa Leila, che il caso aveva fatto somigliare a Carrie Fisher. Credo abbia ragione; e infatti noi non sappiamo chi sia la donna che è morta a causa di un infarto due giorni dopo Natale, non la conosciamo, per noi è una perfetta estranea, e di conseguenza risuonano vuote e inutilmente retoriche molte frasi di cordoglio lette in questi giorni. Se non conoscevamo la signora Fisher non abbiamo ragione di essere così addolorati.
Però noi conoscevamo la principessa Leila, ci ha turbato da ragazzi per quel suo bikini di metallo - che peraltro oggi ci sembra castissimo, pensando a cosa vedono i nostri figli al cinema - è stata l'eroina di una bella storia, in cui era facile sapere chi erano i buoni e chi i cattivi. Anche perché poi abbiamo imparato, spesso a nostre spese, che nella vita non è così facile fare questa distinzione.
Proprio perché conoscevamo bene Leila, i nostri ricordi sono legittimi, ed è perfino ammessa - anche se sarebbe opportuno non esagerare - la nostra tristezza. E' che le storie hanno un potere che noi a volte sottovalutiamo. Anche noi abbiamo viaggiato sul Millenium Falcon, così come abbiamo girato per le strade di Chicago sulla bluesmobile con Jake ed Elwood. E abbiamo combattuto con la banda di Robin Hood nella foresta di Sherwood, abbiamo partecipato alle grandi feste di Gatsby, abbiamo mangiato i falafel a Belleville con qualcuno dei Malaussène, abbiamo seguito Lawrence d'Arabia nell'assedio di Aqaba, abbiamo incontrato Sherlock Holmes in un treno diretto nel Devon. E ne abbiamo fatte davvero più di Carlo in Francia; già perché siamo andati anche con Astolfo sulla luna.
Poi lo sappiamo fin troppo bene che queste sono storie, che la nostra vita - di cui pure siamo contenti e di cui ogni giorno ringraziamo per quel suo tranquillo e monotono tran tran - è diversa da quelle storie. E sappiamo che non abbiamo mai fatto - e non faremo mai - nessuna di quelle cose. Ma certo, quando abbiamo saputo che è morta la principessa Leila, allora abbiamo avuto la certezza che non saremmo mai andati a combattere contro l'Impero.

domenica 25 dicembre 2016

Verba volant (333): dio...

Dio, sost. m.

Per un greco antico, per uno che era cresciuto ascoltando le storie di quegli dei, era assolutamente naturale che un dio o una dea prendesse forma mortale. Per quella cultura era normale che un dio si facesse uomo, per aiutare o per punire un mortale, per giacere, anche con la violenza, con una mortale. Però si trattava di qualcosa che durava un tempo definito: svolta la sua missione, ottenuto il suo piacere, quel dio smetteva di essere uomo - o animale - e tornava tra gli Olimpii. Ed era anche possibile, seppure molto più raro, che un mortale, al termine della sua vita su questa terra, diventasse un dio.
Lo scandalo della nuova religione che nacque mentre il potere di Roma si affermava sul mondo orientale è che in quella mitologia, per la prima volta, un dio si faceva uomo, in maniera definitiva. E quel dio, che evidentemente poteva scegliere ogni vita, decise di nascere molto lontano dal centro dell'impero, in una famiglia poverissima, decise di nascere non nella casa del falegname di Nazareth che aveva scelto come padre, ma in un'altra città, in condizioni precarie, come uno sfollato. E decise di nascere in una famiglia presto costretta alla fuga, in un famiglia di profughi, e soprattutto decise di morire giovane, come un bandito, dopo un supplizio atroce, con la pena più vergognosa che si usava in quel tempo. Quel dio non avrebbe potuto scegliere una condizione più abietta per diventare uomo. La novità, e appunto lo scandalo, della religione dei cristiani, sta in questa incredibile e inaudita decisione del loro dio, che scelse di essere uomo. Ho l'impressione che la portata rivoluzionaria di questa decisione sia stata in qualche modo nascosta nelle teologie, sempre più complicate, di chi voleva provare a spiegare l'inspiegabile. E in una costruzione dogmatica sempre più complessa, diventata a sua volta incomprensibile, e in una chiesa ormai ridotta a fornire prescrizioni e divieti sulla vita sessuale dei suoi adepti.
Credo che, guardando un presepio o una croce, quelli che credono farebbero bene a riflettere su questo scandalo. E dovremmo farlo anche noi che non crediamo.

sabato 24 dicembre 2016

da "Mondo piccolo. Don Camillo" di Giovanni Guareschi

Si era oramai sotto Natale e bisognava tirar fuori d'urgenza dalla cassetta le statuette del Presepe, ripulirle, ritoccarle col colore, riparare le ammaccature.
Ed era già tardi, ma don Camillo stava ancora lavorando in canonica. Sentì bussare alla finestra e, poco dopo, andò ad aprire perché si trattava di Peppone. Peppone si sedette mentre don Camillo riprendeva le sue faccende, e tutt'e due tacquero per un bel po'. "In questo porco mondo un galantuomo non può più vivere!" esclamò Peppone dopo un po'.
"E cosa ti interessa?" domandò don Camillo. "Sei forse diventato un galantuomo?"
"Lo sono sempre stato."
"Oh bella! Non l'avrei mai immaginato."
Don Camillo continuò a ritoccare la barba di San Giuseppe. Poi passò a ritoccargli la veste.
C'è ancora il brutto giallo dell'uccisione del Pizzi da risolvere. Tutti diffidano e hanno paura di tutti. Compreso Peppone, che teme di andar a finire in prigione, e sente il bisogno di confidarsi con qualcuno…
"Ne avete ancora per molto tempo?" si informò Peppone con ira.
"Se mi dai una mano, in poco si finisce."
Peppone era meccanico e aveva mani grandi come badili e dita enormi che facevano fatica a piegarsi. Però, quando uno aveva un cronometro da accomodare, bisognava che andasse da Peppone. Perché è così, e sono proprio gli omoni grossi che son fatti per le cose piccolissime. Filettava la carrozzeria delle macchine e i raggi delle ruote dei barocci come uno del mestiere.
"Figuratevi! Adesso mi metto a pitturare i santi!" borbottò. "Non mi avrete mica preso per il sagrestano!"
Don Camillo pescò in fondo alla cassetta e tirò su un affarino rosa, grosso quanto un passerotto, ed era proprio il Bambinello. Peppone si trovò in mano la statuetta. Senza sapere come, e allora prese un pennellino e cominciò a lavorare di fino. Lui di qua e don Camillo di là della tavola, senza potersi vedere in faccia perché c'era fra loro, il barbaglio della lucerna.
"È un mondo porco" disse Peppone. "Non ci si può fidare di nessuno, se uno vuoI dire qualcosa. Non mi fido neppure di me stesso."
Don Camillo era assorbitissimo dal suo lavoro: c'era da rifare tutto il viso della Madonna. Roba fine.
"E di me ti fidi?" chiese don Camillo con indifferenza.
"Non lo so."
"Prova a dirmi qualcosa, cosi vedi."
Peppone finì gli occhi del Bambinello: la cosa più difficile. Poi rinfrescò il rosso delle piccole labbra. "Vorrei piantare lì tutto" disse Peppone. "Ma non si può."
…Peppone sospirò ancora.
"Mi sento come in galera" disse cupo.
"C'è sempre una porta per scappare da ogni galera di questa terra" rispose don Camillo. "Le galere sono soltanto per il corpo. E il corpo conta poco."
Oramai il Bambinello era finito e, fresco di colore e così rosa e chiaro, pareva che brillasse in mezzo alla enorme mano scura di Peppone. Peppone lo guardò e gli parve di sentir sulla palma il tepore di quel piccolo corpo. E dimenticò la galera.
Depose con delicatezza il Bambinello rosa sulla tavola e don Camillo gli mise vicino la Madonna.
"Il mio bambino sta imparando la poesia di Natale" annunciò con fierezza Peppone. "Sento che tutte le sere sua madre gliela ripassa prima che si addormenti. È un fenomeno."
"Lo so" ammise don Camillo. "Anche la poesia per il Vescovo l'aveva imparata a meraviglia."
Peppone si irrigidì. "Quella è stata una delle vostre più grosse mascalzonate!" esclamò. "Quella me la dovete pagare."
"A pagare e a morire si fa sempre a tempo" ribatté don Camillo. Poi, vicino alla Madonna curva sul Bambinello, pose la statuetta del somarello. "Questo è il figlio di Peppone, questa la moglie di Peppone e questo Peppone" disse don Camillo toccando per ultimo il somarello.
"E questo è don Camillo!" esclamò Peppone prendendo la statuetta del bue e ponendola vicino al gruppo.
"Bah! Fra bestie ci si comprende sempre" concluse don Camillo.
Uscendo, Peppone si ritrovò nella cupa notte padana, ma oramai era tranquillissimo perché sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa.
Poi udì risuonarsi all'orecchio le parole della poesia, che oramai sapeva a memoria. "Quando, la sera della Vigilia, me la dirà, sarà una cosa magnifica!- si rallegrò. - Anche quando comanderà la democrazia proletaria le poesie bisognerà lasciarle stare: anzi, renderle obbligatorie!"
Il fiume scorreva placido e lento, lì a due passi, sotto l'argine, ed era anch'esso una poesia: una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e che ancora continuava. E per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo all'acqua, c'eran voluti mille anni. E soltanto fra venti generazioni l'acqua avrà levigato un nuovo sassetto. E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l'ora su macchine a razzo superatomico e per far cosa? Per arrivare in fondo all'anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino.

Verba volant (332): pascolo...

Pascolo, sost. m.

In italiano usiamo questa parola per indicare il terreno in cui l'erba non viene falciata in modo che serva da nutrimento per gli animali. L'etimologista senese Otorino Pianigiani spiega che si tratta di una forma di diminutivo dell'antico termine pasco, usato anche ai suoi tempi solo in poesia. E nella denominazione di una delle più importanti banche italiane. Credo che a questo punto avrete capito di cosa parlerò in questa definizione: non certo di allevamento, anche se molti hanno pascolato su quella banca. Il Monte dei paschi di Siena si chiama così dal 1624 - anche se la banca venne fondata già nel 1472 - perché in quell'anno il granduca Ferdinando II concesse in garanzia dei debiti della banca le rendite dei pascoli demaniali della Maremma. Tutta roba molto old economy.
Come noto in questi giorni quella banca è stata di fatto nazionalizzata. Peraltro è curioso come questi governi di destra, ispirati dall'ultraliberismo, scoprano queste soluzioni "comuniste" solo quando c'è da salvare una banca. Comunque sia, credo che questa scelta fosse inevitabile per salvare i dipendenti e i clienti di quell'istituto: l'Italia non poteva  permettersi che Mps fallisse. Personalmente credo sia stato giusto, sono disposto a cedere un po' dei soldi che ho pagato con le mie tasse per salvare quella banca, anche se vorrei che quei "miei" soldi non fossero gestiti dagli stessi che hanno portato la banca alla rovina.
Io non ne ho le competenze e questo dizionario non è neppure la sede per un'analisi del genere, ma credo si possano facilmente individuare le persone che negli anni sono state le responsabili di questo fallimento: quelli che hanno compiuto operazioni sbagliate o pericolose, quelli che hanno avallato queste scelte, quelli che non hanno vigilato, quelli che in questi anni si sono arricchiti alle spalle della banca e anche quelli che ci guadagneranno grazie a questo salvataggio pubblico. Immagino siano molti, anche se non moltissimi, e un paese serio avrebbe il dovere di perseguirli, ma ovviamente questo non accadrà. Perché non siamo un paese serio, ma soprattutto perché questa non è una crisi accidentale, ma di sistema. Di Mps, come di altre banche importanti, si dice che è troppo grande per poter fallire: mi verrebbe da rimodulare questa frase dicendo che queste banche falliscono proprio perché sono troppo grandi.
Poi il Monte dei paschi è una banca molto particolare, la cui storia è da sempre intrecciata con quella della sua città, perché la città ne è stata per lunghissimo tempo la "proprietaria". E siccome nel secondo dopoguerra a Siena c'erano i comunisti, per molti anni l'espressione abbiamo una banca aveva un significato preciso per i compagni della sinistra senese. E quel sistema, nonostante alcune opacità - non era mai facile capire quale fosse la sede in cui si prendevano le decisioni nella città toscana, se in banca o nel partito - ha funzionato. Personalmente non credo sia un caso se la crisi di quella banca sia cominciata quando noi abbiamo cominciato a diventare un'altra cosa. Si tratta ovviamente di un processo di alcuni anni, ma che ha avuto nel 1995 un passaggio fondamentale con la trasformazione di quell'istituto di credito di diritto pubblico in una società per azioni. E quasi contemporaneamente con il suicidio del partito erede di quella storia e la nascita al suo posto di consorterie molto opache.
Il problema però non sta solo in questo passaggio né solo negli errori, spesso dolosi, dei singoli amministratori, quanto in un vizio intrinseco, in sostanza in quello che è diventato il capitalismo. Perché alla base della ricchezza non ci sono più i pascoli, perché pare che l'economia moderna non debba più basarsi su questi valori, concreti e tangibili, ma soltanto sull'alea del denaro che serve a produrre altro denaro. A un certo punto si è cominciato a produrre i soldi attraverso i soldi e non attraverso il lavoro. In fondo la vera crisi di Mps nasce da qui, dall'arroganza e dall'egoismo volgare del capitalismo.
Nel Palazzo pubblico di Siena sono conservati due celebri cicli di affreschi di Ambrogio Lorenzetti, che rappresentano gli effetti del cattivo e del buon governo sulla città. A dominare l'allegoria del cattivo governo è un mostro diabolico assiso in trono, la personificazione della tirannide secondo il pittore e i suoi committenti. Ora noi potremmo dire l'immagine del capitale, i cui effetti sulla vita delle persone che vivono in città e in campagna è terribile e mortale: la crisi di Mps non è un accidente della storia, come vogliono farci credere, a cui si può mettere mano partendo dagli effetti, senza intervenire sulle cause. Questo fallimento è una conseguenza inevitabile quando si lascia tutto il potere al capitale. E quindi il nostro obiettivo deve essere abbattere quel mostro.

Verba volant (331): poliziotto...

Poliziotto, sost. m.

Quando sei un ragazzo - e, a dire il vero, non solo a quell'età - è una fatica leggere Guerra e pace, soprattutto per quelle interminabili descrizioni di battaglie in cui sembra che non succeda mai niente. Sei cresciuto vedendo la guerra al cinema, partecipando, seppur in questo modo indiretto, al vivo dell'azione, e poi arriva Tolstoj a dirti che le battaglie sono questo lungo insieme di azioni casuali, in cui un evento fortuito può significare la vittoria, o la sconfitta. Certo si possono riconoscere alcuni atti di eroismo, come inevitabili momenti di viltà, ma la guerra è soprattutto questo intrecciarsi di azioni "normali", di comportamenti assolutamente comuni, che si svolgono indipendentemente le une dalle altre, e che portano a un esito imprevedibile e imprevisto. E tu puoi essere il più esperto degli strateghi, puoi anche essere Napoleone, ma se non ti rendi conto - e non accetti - che la guerra, come la vita, è questa storia complessa, questo allinearsi di episodi scollegati, su cui puoi incidere poco o nulla, sarai sempre destinato alla sconfitta.
Ammetto di averla presa un po' alla lontana per commentare quello che è avvenuto in una notte di dicembre a Sesto San Giovanni. Ci sono questi due giovani poliziotti di pattuglia in una fredda notte poco prima di Natale. Chissà perché hanno deciso di fare i poliziotti in un paese che ama così poco le regole e ancora meno chi cerca di farle rispettare. Peraltro spesso anche i poliziotti non amano le regole e sfruttano il loro potere per infrangerle. Magari quei due giovani hanno deciso di fare i poliziotti perché affascinati dalla divisa e dalle armi, o perché sono un po' fascisti, di quel fascismo che è soprattutto ignoranza, o perché questa è stata l'unica opportunità che hanno visto in questi tempi difficili. Comunque sia, si sono trovati di fronte a questo tipo sospetto nella zona della stazione di Sesto San Giovanni. Quante persone dall'aria sospetta girano ogni notte, nei pressi delle stazioni di ogni città italiana? Migliaia. Forse avrebbero fatto meglio a lasciar perdere, come si fa in tanti casi simili. Forse è un balordo che non ha nulla da perdere, forse è armato e, proprio perché non ha niente da perdere, potrebbe essere molto pericoloso. O forse è un balordo, ma non è armato - ma come si fa a essere sicuri su cosa tiene in mano in questa nebbiosa notte invernale - e se gli spari comunque, la rischi grossa. Meglio far finta di niente, convincersi che è solo un'ombra nella notte. Invece quei due ragazzi hanno chiesto i documenti a quel tipo sospetto e si sono trovati di fronte all'uomo in quei giorni più ricercato dalle polizie di tutta Europa. E per fortuna sono entrambi ancora vivi per poterlo raccontare. E così è stata vinta una battaglia in questa strana guerra che da anni ci fanno combattere contro un nemico che non vediamo. E i ministri, i prefetti, i questori, novelli napoleoni, si sono vantati di questa vittoria così assolutamente casuale, come ogni vittoria. E però non hanno saputo spiegarci cosa davvero è successo, perché è successo, così come non lo sanno quei due giovani poliziotti. E non lo saprebbe neppure lo sconfitto di questa battaglia.
Credo ci farebbe bene leggere - o rileggere - Guerra e pace.

mercoledì 21 dicembre 2016

Verba volant (330): esausto...

Esausto, agg. m.

Sono rimasto colpito dalla scarsa attenzione che in questi giorni tutti noi abbiamo dedicato all'attentato di Berlino. Quasi nessuna bandiera tedesca nei social, pochissimi Ich bin ein Berliner, non ho notizia di manifestazioni. Certo noi italiani non abbiamo mai amato molto i tedeschi, neppure quando siamo stati loro alleati di ferro. Ma questo non è stato un attentato contro la Germania, è stato - ancora una volta - un attacco all'Europa, alle grandi città dell'Europa, in cui per forza di cose ci si mescola, ci si meticcia. Tra le vittime ci sono una giovane studentessa nata a Sulmona e un camionista polacco, come presumibilmente ci sono dei cittadini tedeschi nati nel vicino e nel lontano oriente, perché quelle bancarelle - a Berlino come nelle nostre città - sono gestite per lo più da persone venute qui in Europa da lontano. E' un attacco alle donne e agli uomini, quindi in qualche modo ci riguarda.
Forse non abbiamo più le parole per raccontare il nostro dolore, le abbiamo finite tutte. Non fingiamo che stavolta rispettiamo in silenzio il dolore di quei morti e di quelle famiglie, perché per cose più futili riusciamo a trovare le parole. Siamo tutti presi a insultarci tra sostenitori e detrattori della Raggi, raccogliamo firme contro Poletti: robetta da poco, se ci pensate, a confronto di quello che succede nel mondo. Forse siamo distratti dalle festività natalizie, siamo impegnati nelle cene di auguri con i colleghi e con i parenti, con persone con cui durante l'anno fatichiamo a prendere un caffè, siamo indaffarati ad acquistare regali, facciamo la fila nei centri commerciali. Non possiamo smettere di comprare: i terroristi non l'avranno vinta, non distruggeranno i valori della civiltà occidentale, non ci toglieranno le nostre carte di credito. Forse stiamo diventando dei ragionieri del dolore: calcoliamo un tot di cordoglio a persona e visto che i morti di Berlino sono meno di quelli di Parigi decidiamo di ricalcolare in questo modo il nostro dolore. Anche se in questa contabilità c'è qualcosa che non quadra, perché il maggior numero di morti li sta subendo Aleppo, li stanno subendo tante città degli "altri", eppure per quelle stragi, per quegli attentati, per quelle vittime, la nostra soglia di dolore è assai bassa.
Forse siamo esausti. In italiano questo aggettivo significa stanco, ma il suo significato etimologico è vuoto. Forse siamo semplicemente vuoti, di idee, di speranze, di voglia di lottare. Non capiamo che il nemico che getta quei camion contro la folla inerme, che spara, che piazza le bombe, non è il fanatismo o una religione o un popolo con una lingua e una cultura diversa dalla nostra, ma è una forza che ci vuole deboli e impauriti, noi e loro, noi e quelli che ci dicono sarebbero i nostri nemici, perché hanno una lingua, una cultura, una religione, diversa dalla nostra, mentre sono uguali a noi, ugualmente deboli e impauriti. Il nostro nemico è chi ci vuole, noi e loro, vuoti. E il nostro nemico sta vincendo proprio perché siamo sempre più esausti, noi e loro, perché abbiamo sempre meno parole, e meno lacrime. E meno voglia di ribellarci, noi e loro.

domenica 18 dicembre 2016

Verba volant (329): laurea...

Laurea, sost. f.

Premessa: ovviamente non voglio difendere Valeria Fedeli, che è una persona che non stimo e di cui ho un pessimo giudizio, perché è del pd; anzi è tra quelli del pd che mi fanno più schifo perfino dei "renziani nativi", perché Fedeli, come molti altri, è diventata renziana per fare carriera. Detto questo non riesco più a sopportare tutti i commenti a proposito della sua mancata laurea, perché ormai il tema non è più - e non è solo più - il fatto che nel suo curriculum ci fosse un fantomatico diploma di laurea, declassato poi a semplice diploma e forse neppure quello - spero che adesso non cominci la ricerca dell'esito dell'esame di quinta elementare della piccola Valeria - ma proprio il fatto che sarebbe inadeguata a fare il ministro - tanto più dell'istruzione - proprio perché non ha la laurea. Non ricordo una simile canea sui social quando Benedetto Croce, che notoriamente non aveva finito l'università, assunse tale incarico.
Io - come immagino anche voi - ho conosciuto dei laureati che sono perfetti imbecilli, mentre ho imparato moltissimo da donne e uomini che si sentivano più sicuri a parlare in dialetto piuttosto che in italiano e che non avevano finito neppure le elementari. Anch'io, come dice di sé il poeta son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato. Ho avuto un'opportunità che i miei genitori non hanno avuto e che hanno fatto di tutto affinché avessi: sono abbastanza sicuro - anche se non me l'hanno mai detto né io l'ho detto a loro - che il giorno in cui mi sono laureato loro fossero molto più contenti di quanto lo fossi io, perché quella corona d'alloro che gli amici mi avevano scherzosamente messo in testa per loro è stato un traguardo, mentre per me era un momento di passaggio, un qualcosa di necessario, ma non sufficiente. A essere sincero quel pezzo di carta non è stato determinante per le cose che ho fatto, ad esempio avrei potuto partecipare al concorso per il posto in cui adesso lavoro anche con la sola maturità, però ci sono state lezioni a cui ho assistito, incontri che ho fatto, libri che ho letto in quegli anni dell'università, che sono stati fondamentali, sono qualcosa che mi rimarrà per sempre, che mi hanno fatto diventare, nel bene e nel male, quello che sono. Poi in quegli stessi anni ho anche cominciato a fare politica - anzi ci ho messo un po' a laurearmi proprio perché facevo troppa politica - e anche quella è stata una scuola fondamentale, con le sue lezioni, i suoi incontri, i suoi libri. E anche i suoi esami.
Per questo il tema non è se quel presidente, quel ministro, quel sindaco, abbia o no la laurea, ma chi sia, quali siano le sue idee, cosa sappia e voglia fare. Proprio per questo le battute, le dichiarazioni, le prese di posizioni più o meno sdegnate, di questi giorni non ci fanno riflettere, perché è passata l'idea che la politica sia una questione tecnica, come la medicina, qualcosa che devono fare gli esperti. Peraltro ci sono medici, ovviamente laureati - spero - che sono incapaci assoluti quando devono parlare con i loro pazienti. Anche la bugia di Fedeli testimonia questo clima. Lei o qualcuno del suo staff, scrivendo quel curriculum, avrà pensato che non sta bene avere almeno una laurea e quindi ha un po' stiracchiato quel titolo; invece Fedeli avrebbe dovuto valorizzare il suo impegno, il suo lavoro nel sindacato, che peraltro ha rinnegato votando il jobs act, ma questa è appunto un'altra storia, che riguarda, per fortuna, la politica e quello che una persona vale, indipendentemente da quello che ha studiato.

sabato 17 dicembre 2016

Verba volant (328): fotocopia...

Fotocopia, sost. f.

In questi giorni la definizione più frequente per descrivere il gabinetto Gentiloni è stata governo fotocopia. Effettivamente le modifiche sono state così modeste da farmi quasi dimenticare che renzi si sia dimesso, se non fosse per i festoni che ho ancora attaccato in soggiorno, per le lingue di Menelik cadute dietro il divano, per le bottiglie vuote di spuma con cui ho festeggiato la dipartitita dell'uomo di Rignano. Comunque sia, perfino nei monocolori democristiani degli anni Cinquanta e Sessanta c'era più movimento di quello offerto da questa recentissima crisi di governo.
In ogni caso mentre Gentiloni saliva e scendeva dal Colle, anche Trump ha continuato ad annunciare i componenti della propria amministrazione e in questo caso non si può certo parlare di governo fotocopia. Almeno apparentemente.
Mi pare non sia stato sottolineato abbastanza: l'elezione di Trump rappresenta forse la più grande rottamazione - il termine non mi piace, ma rende l'idea - mai avvenuta in un paese occidentale. The Donald è il primo presidente degli Stati Uniti a non avere mai ricoperto un incarico pubblico nell'amministrazione o nell'esercito. Del suo segretario di stato è stato ampiamente sottolineato che è un amico di Putin, ma non il fatto che neppure lui ha mai avuto un ruolo politico, essendo l'amministratore delegato della Exxon Mobile. In altri ruoli chiavi dell'economia sono stati scelti manager e proprietari di corporation alla loro prima esperienza politica. Oppure generali da pochissimo non più in servizio, per i quali deve scattare una qualche deroga per assumere incarichi di governo. O familiari dello stesso Trump. Sicuramente negli Stati Uniti si sta per insediare un nuovo governo, ma non sarà un governo nuovo.
Ovviamente le persone "scelte" da Trump si sono sempre occupate di politica, l'hanno finanziata, l'hanno condizionata. I texani Bush ad esempio sono stati i rappresentanti della grande industria energetica e petrolifera e quindi uno come Rex Tillerson in qualche modo si è già occupato della politica estera degli Stati Uniti. Il nuovo segretario al tesoro, Steven Mnuchin è un manager della Goldman Sachs, come lo erano Robert Rubin e Henry Paulson, che hanno ricoperto lo stesso incarico con Clinton (marito) e Bush (figlio): negli ultimi vent'anni il "partito" di questa enorme banca d'affari ha espresso il ministro del tesoro per un lungo periodo, indipendentemente da chi sedesse alla Casa bianca. Ma evidentemente qualcosa è cambiato, anche negli Stati Uniti, nel rapporto tra capitale e politica. E' come se il capitale avesse voluto affrancarsi dai politici per assumere direttamente il controllo del potere. I capitalisti hanno deciso che la politica è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai politici.
C'è un dato che mi ha molto colpito: il governo Trump, allo stato attuale, ha un patrimonio stimato in 35 miliardi di dollari, più del pil di almeno un centinaio di paesi del mondo. Trump e i suoi ministri valgono più del Vermont. Credo sia chiaro quale sarà la politica del lavoro del nuovo ministro Amdrew Puzder, amministratore delegato di una grande catena di fast food, o quale sarà l'impronta economica determinata da un finanziere come Wilbur Ross, che sostiene che le tasse per le imprese devono essere ridotte fino al 15%. Questo governo nasce per tutelare soltanto i grandi azionisti delle corporation e questi, in una fase così delicata, non hanno voluto correre rischi, non hanno voluto delegare ad altri la difesa di questi interessi, ma hanno deciso di occuparsene direttamente. 
Assistiamo quindi al paradosso di un governo espressione come non mai dei poteri di Wall street eletto grazie ai voti di chi voleva meno Wall street, anzi eletto proprio grazie alla propaganda contro Wall street. Magari il governo Trump non sarà un governo fotocopia, ma i lavoratori degli Stati Uniti sanno perfettamente cosa aspettarsi da questo esecutivo così smaccatamente di classe, così sfacciatamente schierato a favore dei ricchissimi contro i poveri. E sarà durissima. Francamente non so se questo sia solo un segno di forza del capitale; forse è anche il segnale che i capitalisti hanno paura, che si rendono conto che il loro potere, cresciuto in maniera così volgarmente ingiusta, potrebbe sgretolarsi e quindi che per difendersi occorre ogni loro energia. E quindi anche noi dobbiamo dedicare a questa battaglia contro di loro ogni nostra energia.

giovedì 15 dicembre 2016

Considerazioni libere (415): a proposito di una nuova battaglia...

Non è finita con il referendum. Lo sapevamo che non sarebbe finita. Se qualcuno tra noi che abbiamo votato NO ha creduto che quel voto cambiasse le cose è un illuso. Anzi la partita vera comincia adesso. Vedo purtroppo che molti compagni del NO sono rimasti delusi dal fatto che è nato il governo Gentiloni. Facciamo chiarezza: noi non abbiamo combattuto quella battaglia per cambiare governo, abbiamo lottato per la Costituzione. Se lo ricordino anche quelli del sì che adesso ci dicono con strafottenza che il nostro voto non è servito a nulla: invece quel voto è servito, anzi è servito anche a loro e prima o poi ci ringrazieranno di averli fatti perdere. Perché certamente è meglio che abbia vinto il NO e quindi che in questo paese ci sia ancora la nostra cara e vecchia Costituzione, per quanto un po’ acciaccata dalle mezze e male riforme che abbiamo fatto in questi anni, ma quel voto, per le sue stesse caratteristiche, non poteva segnare un nuovo inizio per la sinistra in questo paese. Come renzi si sbaglia quando crede che il 40% dei sì sia tutta "roba" sua, anche noi dobbiamo renderci conto che nel NO ci sono tante cose, spesso contrapposte.
Certo in quel NO c’è un pezzo importante della sinistra di questo paese, una sinistra che si è ritrovata unita, dopo molti anni in cui ha militato su fronti opposti. Ma queste differenze, per molti versi, ancora rimangono e pesano sulle vicende politiche, e perfino umane, di molti di noi.
Ad esempio tra me e D’Alema - si parva licet - nonostante questa volta ci siamo ritrovati a votare, dopo molti anni, nello stesso modo, c’è una differenza notevole, perché immagino che lui continui a essere un socialdemocratico che pensa che il capitalismo si possa riformare, passo dopo passo, mentre io penso che a questo punto occorra assumere una prospettiva davvero alternativa, e dichiaratamente anticapitalista e rivoluzionaria. Sono convinto che se siamo arrivati a questo punto così basso è anche per una precisa responsabilità di D’Alema - e anche mia, visto che stavamo nello stesso partito - ad esempio perché in quegli anni ci siamo convinti che fosse necessario modificare le leggi sul lavoro, e che fosse "moderno" togliere un po’ di diritti ai lavoratori, per guadagnarci in competitività. Invece abbiamo visto che togliere diritti serve solo a dare più armi agli speculatori e fa crescere solo le disuguaglianze. E il malaffare.
Nelle prossime settimane avremo forse una possibilità nuova, anche in questo caso grazie a un referendum, questa volta per abolire la cosiddetta riforma del lavoro conosciuta come jobs act. Non so se D’Alema ed io voteremo ancora nello stesso modo - spero di sì, e non solo per un attacco strumentale a questo governo, che evidentemente quella riforma ancora la difende. Perché a me - lo ripeto a scanso di equivoci - interessa poco la sorte di questo o di quel governo, interessano poco le narrazioni più o meno immaginifiche, interessa ancor meno il dibattito all'interno del pd. invece mi interessano le condizioni vere delle persone. Bisogna ripartire dalle sofferenze delle donne e degli uomini: tanti di quelli che hanno votato NO hanno usato quel voto proprio per dire che stanno male e che nessuno pensa a loro.
Personalmente non credo che a breve ci sia lo spazio per costruire in questo paese un forte partito di sinistra radicale e francamente non penso neppure che sia fondamentale dedicare tutte le nostre energie nelle prossime settimane a costruire una nostra risicata rappresentanza parlamentare - anche se vedo che questo tema di politique politicenne appassiona molti - ma penso che ci sia spazio per una serie di battaglie sociali su temi di sinistra. E il lavoro è senz’altro il primo di questi temi.
In qualche modo la battaglia per il NO alla modifica della Costituzione si lega a quella per l’abolizione del jobs act, perché quella formula dell’art. 1 "fondata sul lavoro" non è un espediente retorico, è un principio. E questo principio è adesso l’unico limite alle violenze di classe. E quindi la battaglia contro il jobs act e a favore dello Statuto dei lavoratori, diventa qualcosa di più, diventa il segno che dal lavoro si deve ricominciare.
Non so se sia vero che le elezioni anticipate verranno fatte scattare per impedire il referendum sul jobs act, come si è lasciato sfuggire il commensale di Buzzi e di Mafia capitale. Anche se fosse, quella battaglia per il lavoro e i diritti non deve perdere di intensità. Faremo rinascere una sinistra in Italia solo attraverso questa rinnovata consapevolezza che combattere per i diritti del lavoro è urgente e necessario.

sabato 10 dicembre 2016

Verba volant (327): riforma...

Riforma, sost. m.

Faccio politica, più o meno intensamente, dalla fine degli anni Ottanta, per un periodo è stata anche il mio lavoro. Ebbene in questi quasi trent'anni il tema della necessità delle riforme è stata una costante, una sorta di mantra della politica italiana. Certo se ne parlava anche prima, forse qualcuno di voi ricorderà la Commissione bicamerale della prima metà degli anni Ottanta presieduta dall'on. Bozzi, liberale, con la sua bella barba risorgimentale e l'eloquio forbito - leggendo la descrizione dello zio di molto riguardo fatta da Gozzano ho sempre pensato a lui - però è con la fine di quel decennio che il tema si è definitivamente imposto. In questi quasi trent'anni abbiamo fatto altre due Bicamerali, abbiamo cambiato diverse volte la legge elettorale, abbiamo sempre avuto un ministro dedicato a questo tema - per un periodo, ça va sans dire, è stato Bossi - abbiamo introdotto l'elezione diretta dei sindaci, dei presidenti delle Province e delle Regioni, abbiamo fatto perfino due "grandi" riforme della Costituzione, per fortuna entrambe bocciate dagli elettori. Anch'io, quando facevo un altro mestiere, tante volte ho ribadito la necessità delle riforme, perché quella era la linea del mio partito, linea che condividevo, senza dubbio. E anche oggi, passato il 4 dicembre, tanti, sia tra quelli che hanno votato sì che tra quelli che hanno votato NO, dicono che occorre riprendere il cammino delle riforme.
E se non fosse vero? E se queste benedette riforme non fossero necessarie?
Sono sempre più convinto che questo tema sia un'illusione e per molti versi un alibi. Questo paese non ha affatto bisogno di riforme istituzionali: la Costituzione c'è e funziona bene, magari dovremmo sistemare le mezze riforme pasticciate che abbiamo fatto in questi anni, penso in particolare alla confusione che abbiamo fatto sul Titolo V. Abbiamo certamente bisogno di una legge elettorale rappresentativa, personalmente penso che dovremmo tornare al proporzionale, perché è il sistema che meglio si adatta all'impianto della nostra Costituzione, oppure potremmo tentare il doppio turno alla francese. Penso che sarebbe meglio tornare alla vecchia legge per l'elezione dei sindaci e che dovremmo rifare le Province - magari abolendo le Regioni, se proprio vogliamo abolire qualcosa. In sostanza penso che l'unica riforma davvero necessaria sarebbe quella di fare un passo indietro e decidere, una volta per tutte, che le riforme non servono.
Mi direte: facemmo quelle riforme perché tutti concordavamo che le istituzioni funzionavano male. E' vero, funzionavano male trent'anni fa, esattamente come funzionano male adesso dopo questi sei lustri di riforme - anzi forse adesso funzionano pure peggio - perché il problema non è che l'auto è guasta, siamo noi che non sappiamo guidarla.
La necessità di fare le riforme si è imposta con tutta evidenza all'indomani di quella stagione che abbiamo cominciato a chiamare Tangentopoli, e, proprio a causa di quegli eventi, la fretta, che è sempre cattiva consigliera, ci spinse all'introduzione del maggioritario e all'elezione diretta dei sindaci. Perché ci eravamo convinti - e ci avevano convinto - che quella disonestà diffusa in maniera così pervasiva nelle istituzioni fosse colpa delle regole che mancavano. Invece le regole c'erano, c'erano sempre state, erano i politici che non le rispettavano e noi cittadini che non le facevamo rispettare, perché comunque traevamo un qualche vantaggio dalla loro disonestà. E lo stesso avviene adesso, se i nostri rappresentanti sono disonesti è perché noi, per viltà, ma più spesso per connivenza, preferiamo chiudere entrambi gli occhi, sperando che qualche briciola del bottino cada per terra, per raccoglierla con destrezza, fregando gli altri.
Non c'è una riforma costituzionale capace di trasformare le persone, di rendere gli elettori e gli eletti onesti, non c'è una riforma costituzionale che ci costringa a rispettare le istituzioni. Non c'è una riforma costituzionale capace di sostituire l'etica, così come non c'è una riforma capace di sostituire la politica. Così ad esempio, per venire alla mia parte, se la sinistra in Italia è diventata quello che è diventata non è colpa delle mancate riforme, come qualcuno ancora pensa, ma semplicemente perché molti di noi hanno precise responsabilità e abbiamo dimenticato principi e valori o, pur ricordandoli, non li abbiamo saputi e voluti applicare.
Le regole sono ovviamente fondamentali, non avrebbe avuto senso la nostra battaglia per il NO e per la difesa della Costituzione se non pensassi che queste servono e regole migliori servono a migliorare una società. Ma basta illuderci che le regole da sole cambino il mondo. O cambino noi stessi. Quello è il compito della politica.

giovedì 8 dicembre 2016

Verba volant (326): opposizione...

Opposizione, sost. m.

E adesso? è la domanda che sento in maniera ricorrente dalla notte del 4 dicembre. Me l'hanno posta, ovviamente in maniera provocatoria, dei renziani che hanno votato sì, sottintendendo che adesso sono cavoli nostri, visto che con il nostro NO abbiamo aperto la strada alla destra e ai populisti; ma mi hanno fatto la stessa domanda anche dei compagni che hanno votato NO, preoccupati per quello che succederà nelle prossime settimane, nei prossimi mesi. Naturalmente sono preoccupato anch'io, anche se comunque mi rincuora moltissimo che sia ancora in vigore la nostra Costituzione. Ricordo a tutti quelli che adesso si fanno venire dei dubbi che abbiamo il corso il rischio, reale, tangibile, concretissimo, che dal 5 dicembre questa Carta non ci fosse più. E quindi è meglio così. Per tornare a quella domanda devo dire che, almeno per me, non cambia proprio nulla, perché io, nel mio piccolissimo ovviamente, non sono all'opposizione di questo o di quel governo, ma di un sistema, chiamiamolo capitalista per intenderci, perché per me è quello il nemico e non le persone che di volta in volta lo rappresentano, si chiamino renzi o Berlusconi o in qualunque altro modo.
Per questa ragione io non sono mai stato - né mai sarò - del pd, e non lo voterò, qualunque cosa succeda, qualunque sia l'antagonista. Naturalmente - siccome un po' di politica credo di capirne - mi rendo conto che c'è una differenza tra renzi e Bersani, tanto è vero che nel febbraio del 2013, per la prima - e certamente l'ultima - volta ho votato per il pd di Bersani. E ho commesso un errore clamoroso, tragico, perché poi quel mio voto è stato usato da renzi per tentare di stravolgere la Costituzione. Per questo sono stato così felice della vittoria del NO: perché con il NO quel mio errore di tre anni fa è stato in qualche modo riparato.
E per non correre più questo rischio e soprattutto per essere fedele alle mie idee - a cui tengo - stante l'attuale situazione, non voterò alle prossime elezioni politiche, perché nessuno dei tre schieramenti in campo assume come proprio obiettivo l'idea di opporsi in maniera radicale al sistema capitalista. Ovviamente non lo fa la destra - che sia guidata da Salvini o da Berlusconi poco cambia - perché la destra è capitalista o non è, lo abbiamo visto con le prime mosse negli Stati Uniti di Trump. Non lo fa il Movimento Cinque stelle, il cui orizzonte ideologico è da sempre confuso e nebuloso, ma che comunque non si è mai espresso per sovvertire il sistema capitalista. Purtroppo non la fa nemmeno il partito che colloca se stesso a sinistra, il partito che si dichiara socialista, perché anche Bersani, anche D'Alema, anche Pisapia con il suo "soccorso arancione", non presuppongono mai l'opzione socialista e anticapitalista. Naturalmente un governo Bersani-Pisapia sarebbe meglio di uno renzi-Verdini o di uno Salvini-Meloni o anche di uno Cinque stelle, ma nessuno di questi - ripeto, a futura memoria, nessuno - avrà il mio voto. Non serviranno ricatti, non serviranno mozioni degli affetti, non serviranno spauracchi. Diventando vecchio, divento sempre più ostinato.
Naturalmente un partito come lo voglio io, socialista e anticapitalista, radicale e rivoluzionario, non esiste, anche perché, nonostante i tanti proclami, non l'abbiamo ancora fatto nascere. Quasi certamente non ci sarà se ci faranno votare in primavera, perché un partito non si crea da sera a mattina e comunque, anche se ci fosse, non entrerebbe nei giochi, non correrebbe per vincere. Sarebbe comunque già importante che una nuova - finalmente rappresentativa - legge elettorale, assicurasse anche a noi di essere rappresentati, ma sinceramente questo non è probabilmente l'esigenza prioritaria. Anche perché mi pare che il mondo non sia pronto a sovvertire il capitalismo: i vincoli imposti a un governo di un paese europeo sono talmente tanti e stringenti, che perfino quando una forza di sinistra ha la maggioranza, finisce per fare - quando va bene - delle politiche blandamente socialdemocratiche. La violenza con cui il capitalismo ha tarpato le ali al governo greco di Tsipras descrive bene in quali stretti vincoli possiamo muoverci, come canarini in una gabbia sempre più piccola.
Mi sto convincendo però che forse il tema non è neppure quello della nostra rappresentanza parlamentare, che sarebbe utile, ma non è indispensabile per fare opposizione. E allora forse ci dovremmo preoccupare meno degli equilibri all'interno del governo - e men che mai di quelli all'interno del pd - e cominciare a fare opposizione sociale, in modo da far crescere una cultura che adesso ci sembra largamente minoritaria, ma di cui pure ci sono segnali, perché ci sono molte persone che soffrono e che chiedono una soluzione per uscire da questa sofferenza. La sinistra è nata così, nasce sempre così, quando si cerca una soluzione per uscire insieme dalla sofferenza.
In fondo la battaglia per il NO al referendum è servita anche a far ragionare molti giovani sul valore della Costituzione del '48: non è poco, forse è un inizio. Occorre fare una battaglia per lo Statuto dei lavoratori, contro l'abolizione dell'art. 18 e soprattutto contro le forme di precariato, a partire dall'uso indiscriminato e selvaggio dei voucher, che rappresentano per tanti giovani l'unico modo per entrare nel mondo del lavoro. La battaglia contro la "buona scuola" non può essere ridotta alle rivendicazioni, pur legittime, degli insegnanti, ma deve coinvolgere la società su un tema centrale come quello della difesa dell'istruzione pubblica. La battaglia sui beni comuni, su cui si erano mobilitate tante energie, forse non del tutto disperse, rappresenta un'altra importante strategia della nostra opposizione sociale. Dobbiamo tornare a parlare del dramma degli strati più deboli della società, strati che spesso non conosciamo e che quindi dobbiamo tornare a conoscere. Credo che l'opposizione sia questo studio, questo lavoro sul campo, questa ricerca di soluzioni, alternative e rivoluzionarie, sia riconoscere che abbiamo un nemico, che si chiama capitale, e che la nostra vittoria passa necessariamente per la sua sconfitta, perché non c'è modo di trovare un accordo, abbiamo sperimentato che questa strada è fallimentare. E soprattutto che queste forme di lotta dobbiamo trovarle insieme, per tornare a dare un senso alla parola socialismo.
Quindi alla domanda e adesso? io so cosa rispondere: opposizione, sociale e socialista.

martedì 6 dicembre 2016

Considerazioni libere (414): a proposito di un ciclo che si chiude (e di un altro che si apre)...

La crisi che si è aperta con il fragoroso voto di domenica 4 dicembre e con le conseguenti e inevitabili dimissioni del presidente del consiglio è ora nelle mani del Presidente della Repubblica, come è giusto che sia. Come in un grande gioco dell'oca, un colpo di dadi ci ha riportati alla casella di partenza: perché non possiamo dimenticare che il referendum ha chiuso un ciclo politico cominciato esattamente cinque anni fa, proprio nelle ovattate stanze del Quirinale.
Se non ricordiamo quei giorni del novembre 2011 facciamo fatica a inquadrare con esattezza quello che è successo domenica. Sotto la spinta fortissima delle autorità finanziarie europee - dovete ricordare la lettera a firma Trichet-Draghi che imponeva una serie di riforme, di fatto commissariando l'esecutivo, i risolini di Merkel e Sarkozy, il clima da fine impero di quelle settimane - l'allora inquilino del Quirinale, con una forzatura istituzionale e in maniera assolutamente irrituale, fece dimettere il presidente del consiglio in carica, forte comunque di un mandato elettorale, e nominò a quella carica Mario Monti, opportunamente fatto diventare senatore a vita pochi giorni prima di quella investitura. Molte persone applaudirono a quel cambio di governo, una folla festeggiò in piazza del Quirinale, perché allora il premier era Berlusconi, ma quella gioia fu un errore e un'illusione. Fu un errore festeggiare la fine del nostro avversario politico proprio perché avveniva a quel modo, al di fuori della prassi costituzionale, e fu un'illusione, perché la situazione non sarebbe migliorata senza Berlusconi. Anzi.
Dal novembre del 2011 il nostro paese ha vissuto in una sorta di perenne stato di emergenza, con i nostri conti sotto la tagliola delle autorità di Bruxelles e Francoforte e soprattutto con un ruolo predominante del Presidente della Repubblica, diventato, anche per la debolezza degli altri attori politici, il dominus della politica italiana, tanto da essere rieletto a quella carica, un'altra forzatura istituzionale che ha violato lo spirito, se non la lettera, della Costituzione. Certo formalmente in questi cinque il governo ha sempre ottenuto la fiducia del parlamento, ma non si poteva diventare premier senza l'avallo del Quirinale, come ha provato a sua spese il povero Bersani; certo in questi cinque anni l'Italia ha continuato a essere una repubblica parlamentare, ma è stata un'altra cosa, perché l'attività legislativa è stata di fatto delegata all'esecutivo, e siamo andati avanti a colpi di decreti, su cui si imponeva il voto di fiducia per tacitare il parlamento; certo in questi cinque anni la Costituzione era ancora in vigore, ma è stata modificata in alcuni punti fondamentali, come con l'introduzione dell'obbligo del pareggio di bilancio, che segna il passaggio di sovranità alle istituzioni europee. La riforma che abbiamo bocciato domenica scorsa faceva diventare norma costituzionale quello che Napolitano aveva imposto nella pratica e infatti il vero sconfitto del 4 dicembre è il presidente emerito, anche più di renzi, perché è lui il vero padre di questa riforma.
Con il voto del 4 dicembre, con quel nostro NO, abbiamo detto che quella riforma non ci va bene, perché toglie potere ai cittadini, perché mina il principio di rappresentanza che è vitale per una democrazia. Il voto del 4 dicembre è stato importante soprattutto per questo.
Poi, chiuso un ciclo, occorre aprirne un altro e non è chiaro cosa succederà. Certo molto dipende dall'attuale Presidente, la cui prudenza fino ad ora è stata al limite dell'inconsistenza, perché nel disegno costruito dal suo predecessore poteva esserci solo un uomo forte e ora quell'uomo sedeva a Palazzo Chigi, quindi al Quirinale doveva esserci qualcuno che si limitasse al taglio dei nastri, alle cerimonie istituzionali, ai messaggi rassicuranti di fine anno. Inaspettatamente all'uomo in grigio del Quirinale adesso tocca gestire questa fase di vuoto. Speriamo che ascolti la voce che si è alzata dal paese e soprattutto che si attenga allo spirito della Costituzione, come la maggioranza di noi gli ha chiesto con il voto di domenica. Personalmente non ho molta fiducia, ma l'uomo, da vecchio democristiano, potrebbe stupirci.

lunedì 5 dicembre 2016

Verba volant (325): sfiducia...

Sfiducia, sost. f.

Questa notte renzi ha in qualche modo rubato la scena alla vittoria del NO, ma la notizia non è la decisione subitanea - e per altro inevitabile - del presidente del consiglio. Per quanto molti di noi - e io vi assicuro l'ho fatto - ieri notte abbiano gioito di fronte al farfugliare dell'uomo di Rignano, che si è creduto per mille giorni il salvatore della patria e che ha visto all'improvviso ridimensionata un'ambizione smodata e volgare, l'obiettivo del nostro NO non erano queste dimissioni. Il nostro obiettivo era difendere la Costituzione da un attacco durissimo delle forze del capitale - il più pericoloso della nostra storia recente - teso a limitare le prerogative democratiche e quindi i diritti delle classi lavoratrici.
Invece la notizia di questa notte, la cosa che avrà conseguenze sul futuro di questo paese - e non solo sul destino irrilevante di una persona irrilevante - è il massiccio e consistente successo del NO, che solo in parte - temo in una piccola parte - è dettato dalla difesa della Costituzione e delle istituzioni democratiche. Quel NO, così omogeneo in tutto il paese, non racconta un'Italia che si è scoperta paladina dei valori costituzionali, ma descrive un'Italia sfiduciata, incattivita, che non sa come cambiare e che ha detto NO, perché ha sentito che il NO era l'unico voto che poteva esprimere questa rabbia, che nessuno riesce a incanalare in un altro modo. E' un voto molto simile a quello con cui i cittadini del Regno Unito hanno scelto di uscire dal'Unione europea, perché quel voto - e solo quel voto - rappresentava una protesta contro un sistema che evidentemente non funziona - perché il capitalismo non funziona. Negli Stati Uniti quello stesso voto ha portato Trump alla presidenza, con un inganno evidente ai danni degli elettori, perché quel loro voto contro i meccanismi più perversi del capitalismo ha dato vita a un governo il cui ministro del tesoro è un esponente della Goldman Sachs. Ma è stato possibile solo perché c'era la faccia "nuova" di Donald. Era francamente difficile, se non impossibile, che il capo del governo in carica potesse diventare il campione dell'antipolitica; e infatti, anche se ci ha provato in maniera esagitata, non c'è riuscito.
In mezzo alla retorica dello scoutismo, in mezzo a un discorso in cui ha ripetuto le menzogne di questi mesi sull'Italia che funziona, ieri notte renzi è riuscito, nonostante sia un mentitore seriale, a dire una verità. Ha sfidato il cosiddetto fronte del no a fare una proposta di riforma, ben sapendo che sarà impossibile. Io con molti di quelli che hanno votato come me al referendum non prenderei neppure un caffè, con molti non sono neppure disposto a parlare, figurarsi immaginare un comune progetto istituzionale. Non nascerà una riforma del NO e probabilmente il NO ha vinto proprio per questo, perché era un voto solo distruttivo, incapace di proporre una soluzione alternativa credibile. Il NO ha vinto proprio perché non offriva alternative ed è stato per molti un NO, a prescindere. Se le avesse offerte probabilmente non avrebbero dato quel voto. Se lo devono ricordare Salvini e Grillo che credono di fare il pieno di voti alle prossime elezioni: le persone hanno votato anche contro di loro, come hanno votato contro renzi, contro Prodi, contro Berlusconi, contro tutti insomma.
Per questo il voto di ieri ci consegna un'Italia di cui dobbiamo avere paura, non perché è caduto il governo, non perché salirà lo spread o perché gli indici del mercato azionario subiranno un tracollo. E fomentando questa paura cercheranno di non farci votare nei prossimi mesi. Dobbiamo essere preoccupati perché il voto di ieri ci ha consegnato un'Italia smarrita e sfiduciata, che ha preferito dire NO e che probabilmente avrebbe detto NO anche a una buona riforma. Poi ragioni sbagliate ci hanno consegnato un risultato giusto e per fortuna c'è ancora la Costituzione; se non avessimo avuto questo baluardo la crisi sarebbe stata inarrestabile e rapidissima. Quindi abbiamo fatto bene a tenerci stretta la nostra cara e vecchia Costituzione del '48, benché negli anni sia stata un po' manomessa. Ma questo non può bastarci, non deve bastarci.
Adesso il nostro obiettivo politico deve essere quello di dire NO a questa sfiducia, a questo clima di disillusione che c'è nel paese e che coinvolge in maniera così radicale le istituzioni democratiche. Dobbiamo fare vivere la Costituzione. Ed è qualcosa che va ben oltre il futuro governo o il futuro parlamento; va oltre quello che succederà alle prossime elezioni, perché il rischio non riguarda qualcuno, ma tutti. Ovviamente qualcuno da tempo lavora perché questa sfiducia cresca e si consolidi, e quindi è contro questo potere che dobbiamo combattere, con un'energia che fino ad ora non abbiamo dimostrato. Personalmente - e lo sapete - credo che questa battaglia si possa combattere solo a sinistra, solo tornando alle idee e ai valori del socialismo, perché se è vero come è vero che il problema è il capitalismo, occorre non continuare a intervenire sui sintomi, ma incidere sulla causa della malattia, prima che ci uccida. E l'unica alternativa al capitalismo che conosciamo è il socialismo.

Considerazioni libere (413): a proposito di una battaglia che continua...

Abbiamo vinto.
Oggi prevale l'euforia, ma non possiamo smettere di combattere proprio ora. Non dobbiamo smettere di combattere proprio ora. Anche perché la guerra, quella vera, comincia oggi.
Prima di tutto dovremo organizzare la resistenza, perché "loro" cambieranno faccia, si libereranno di renzi e degli altri servi sciocchi - come nel novembre del 2011 si sono liberati di Berlusconi - e noi ci illuderemo, come allora, di aver vinto, ma non sono cambiati, torneranno ad attaccare la Costituzione, perché hanno mezzi e uomini illimitati per continuare questa guerra contro la democrazia. E perché sanno - a volte anche meglio di noi - che democrazia e lavoro si tengono e quindi vogliono limitare la democrazia per limitare, fino ad annullare, i diritti dei lavoratori. Dobbiamo denunciare ogni loro malefatta, dobbiamo far vedere alle persone che in buona fede hanno votato sì quali sono le vere intenzioni delle forze del capitale. E dobbiamo farlo capire anche a quelli che hanno votato NO per pura reazione, con poco o scarso interesse per la Costituzione, a quelli che hanno fatto la cosa giusta per il motivo sbagliato.
Comincia per noi una fase difficile, ma almeno avremo un punto chiaro di programma: la difesa della Costituzione del '48 e la sua piena applicazione. Questa dovrà essere la nostra parola d'ordine, questo dovrà essere il programma di base di uno schieramento di opposizione, in questi giorni difficili che ci attendono. E bisognerà, per una volta, essere chiari e non fare alcuno sconto. Nessuna intelligenza con il nemico, nessun distinguo. Non potremo più accettare accordi, anche solo locali, con il pd, con chi ha votato questa cosiddetta riforma, da domani il discrimine per ogni alleanza politica dovrà essere appunto la battaglia per la difesa della Costituzione del 1948, togliendo anche l'articolo che impone il pareggio di bilancio, che è stato il primo granello fatto entrare nel meccanismo della Costituzione per scardinarla.
Non ci illudiamo. La sinistra in questo paese sappia che l'attende un compito ancora più arduo: provare a ricostruirsi non solo in base a questa prospettiva repubblicana, che è necessaria, ma non sufficiente. La sinistra rinascerà in Italia se sarà socialista e quindi valorizzando gli aspetti più progressisti della nostra Costituzione, nata dalla Resistenza. Lo so che è un compito che ci pare irrealizzabile, anche in un giorno di festa come oggi, ma non possiamo smettere di fare questo sogno.
La lotta, nel nome della Costituzione, continua.

lunedì 28 novembre 2016

Verba volant (324): cambiare...

Cambiare, v. tr.

È da parecchi giorni che mi interrogo su questa brutta campagna elettorale, che proprio non riesce a piacermi, nonostante sia così importante e mi coinvolga così intensamente, come non mi succedeva da tempo.
Il problema non sono soltanto i toni lividi e le volgarità gratuite, che stridono ancora di più perché si discute di un tema così alto come la Costituzione, ma - me ne sono reso conto da pochissimo con questa chiarezza - soprattutto il fatto che in qualche modo mi sembra di essere dalla parte sbagliata. No, non ho affatto cambiato idea, voglio votare NO e invito voi a farlo, ma in questi giorni sono così a disagio, perché mi hanno rubato una parola, mi hanno rubato il verbo cambiare. E ormai sapete quanto per me le parole siano importanti.
Sono arrabbiato perché renzi e i suoi mandanti mi hanno rubato questa parola e l'idea stessa di cambiamento. Io da quando ho cominciato a fare politica, con tutti i miei limiti, con tutte le mie debolezze, con tutte le mie contraddizioni, ho sempre cercato di stare dalla parte del cambiamento, ho cercato di cambiare le cose. Da amministratore ho cercato di cambiare la città in cui sono cresciuto, poi da funzionario ho cercato di cambiare il mio partito, adesso con le cose che scrivo - l'unico modo in cui faccio ancora un po' di politica - provo a spiegare perché è necessario cambiare il mondo. Contrariamente a quello che succede a tanti, da giovane pensavo che bastasse cambiare una cosa per volta e mi definivo riformista, adesso che sono più vecchio penso che occorra cambiare tutto e sono diventato rivoluzionario, però il cambiamento è sempre stato il mio obiettivo. E adesso all'improvviso è saltato fuori questo bel tomo a dirmi che io non voglio cambiare, che è lui che vuole cambiare tutto e quindi che io, proprio perché voglio fermare il suo dichiarato cambiamento, sarei un conservatore. E per questo sto sinceramente male.
Certo quando qualcuno ti ruba una parola la colpa è anche tua, che non hai saputo custodirla, difenderla, che non sei riuscito a dire in maniera definitiva che quella parola appartiene a te, alla tua storia. Evidentemente se renzi è riuscito nell'impresa è perché gliel'ho lasciato fare. E così quella parola mi è sfuggita di mano e adesso mi affanno a rincorrerla, ma il ladro se la tiene ben stretta.
E allora io vorrei spiegare alle persone che hanno la pazienza di leggere quello che scrivo che il mio NO non è soltanto per difendere la Costituzione, ma ha un obiettivo più ambizioso, proprio quello di cambiare. E non il governo di questo paese: francamente poco mi importa se il 5 dicembre renzi si dimetterà, se nascerà un altro esecutivo, perché non è questa la cosa importante, non è questo il cambiamento di cui abbiamo bisogno e che personalmente sogno; e per cui lotto. E questo è il motivo profondo per cui il mio NO, il nostro NO - perché siamo in tanti, anche se non abbastanza, temo, a pensarla così - è diverso da quello di chi chiede soltanto che cambi il governo o che spera sia un elemento per accentuare la confusione. E non provo imbarazzo a votare con i fascisti, perché il mio NO è anche tenacemente e ostinatamente antifascista, perché una delle cose da cambiare è eliminare le cause che fanno nascere e crescere il fascismo. Il mio NO è per cambiare uno stato di cose che non mi piace, per cambiare una società in cui comandano sempre meno persone, in cui i padroni sfruttano i lavoratori, in cui i ricchi lo diventano sempre di più alle spalle di quelli che sono poveri. E adesso per raggiungere questi obiettivi ambiziosi, che un tempo chiamavamo socialisti, ci serve difendere questa Costituzione, scritta così alla fine della seconda guerra mondiale, nata dalla Resistenza. Oggi ci serve questo NO, che non è un NO che vuole conservare, ma che ha l'ambizione di travolgere questa cappa opprimente che impedisce ai giovani di esprimersi, alle donne di far valere i propri diritti, a tutti noi di realizzarci davvero come cittadini, e non solo come consumatori.
E dobbiamo smascherare il ladro, dire che non può essere per il cambiamento chi è sostenuto dai padroni, chi toglie diritti ai lavoratori, chi privatizza i servizi pubblici, chi limita gli ambiti della democrazia. Il ladro difende i privilegi della sua classe, mentre noi che siamo davvero per il cambiamento vogliamo travolgere quei privilegi, il ladro difende la ricchezza dei padroni, mentre noi vogliamo cambiare e vogliamo che quella ricchezza che è del lavoro torni a chi fa quel lavoro.
Non cadiamo nella trappola, non facciamoci convincere che il NO è il voto di chi non vuol cambiare, perché altrimenti avremo perso anche se saremo - come spero - maggioranza nelle urne. Perché il 5 dicembre il cambiamento deve partire da noi del NO: così avremo vinto davvero.

venerdì 25 novembre 2016

Verba volant (323): festa...

Festa, sost. f.

Per mia igiene personale guardo poco la televisione e comunque mai i programmi di informazione e i telegiornali, però tutte le mattine, mentre faccio le mie consuete abluzioni, ascolto in maniera disattenta il primo canale di RadioRai. Da qualche giorno in diversi spot viene annunciato l'arrivo del Black friday, con tutto il suo carico di mirabolanti e convenientissime promozioni commerciali.
Conosco l'inglese in maniera elementare - so che il gatto in quel paese dalle strane usanze usa stare sul tavolo, insieme alla matita - e quindi ho subito immaginato che questa nuova festa sarebbe caduta di venerdì. Poi ho consultato un sito specializzato e ho scoperto che il Black friday è il venerdì successivo al Giorno del ringraziamento. Una sorta di pasquetta anglosassone, ho subito pensato. Poi ho scoperto quando cadeva il Giorno del ringraziamento e quindi mi sono accorto che la festa stava arrivando e io ero vergognosamente impreparato. Qual è il piatto tradizionale del Black friday? Gli spaghetti al nero di seppia? Non li so fare. E poi non sono in ferie, lavoro in un servizio pubblico, non posso chiudere lo sportello e non fare più i certificati perché è il Black friday. E le decorazioni? Che decorazioni ci vogliono? Insomma arriva una festa nuova e alla mia famiglia, per colpa della mia colpevole disattenzione, sarà negata la gioia di festeggiarla come si conviene.
Non mi rimane altro da fare: devo convincere mia moglie a passare il venerdì pomeriggio nel più vicino centro commerciale e fare incetta di cose che non ci servono, partendo da quelle reclamizzate la mattina in radio. Così santificherò le feste, come recita uno dei pochi comandamenti a cui mi ricordo di obbedire con regolarità, consumando, consumando, consumando.
Già ho colpevolmente speso poco ad Halloween, ho comprato il mesto striscione arancione, la zucca che si illumina, il cappello da strega per mia moglie - che non ha apprezzato - le merendine a forma di teschio e tutti gli altri prodotti tipici di questa festa, e non posso mancare anche il Black friday. Cosa dirà di me l'Europa? E che giudizio darà il Financial times delle mie pessime abitudini? E se ci fosse la crisi o crollasse la Borsa perché io non ho voluto comprare il nuovo aspirapolvere turbocompatto a tripla elica con motore jet, che da una parte aspira e dall'altra ributta fuori la polvere sminuzzata? E lo devo comprare prima del mio vicino: lo vedo che lui usa ancora la scopa e la paletta. Non posso dormire, devo mettermi in coda, devo essere il primo a entrare nel negozio, il primo ad agguantare l'agognato prodotto, il primo a pagare. Così avrò fatto davvero festa. In attesa che arrivi Christmas, che festeggerò finalmente in un bel centro commerciale aperto, mangiando un hamburger di renna e comprando, comprando, comprando.

lunedì 21 novembre 2016

Verba volant (322): lista...

Lista, sost. f.

Io, nel mio piccolissimo, ho deciso da solo come votare al prossimo referendum, non ho guardato a chi votava in un certo modo per decidere poi di votare in quella stessa maniera o di votare nella maniera opposta. A dire il vero, se guardo a quelli che come me voteranno NO - o hanno dichiarato che voteranno NO - vedo molte persone con cui non voglio avere nulla a che spartire e con cui vorrei davvero votare in maniera diversa, ma la mia decisione ormai l'ho presa e ne sono assolutamente convinto, anche al di là dei miei occasionali compagni di viaggio.
Però guardo le liste di quelli che dicono che voteranno NO e di quelli che dicono che voteranno sì, le leggo e le mando a memoria e, sfortunatamente per loro, io su queste cose ho un'ottima memoria.
Non lo faccio per dividere il mondo in buoni e cattivi o peggio per avere a disposizione una lista di proscrizione, sempre pronta all'uso, di persone su cui mi vorrò vendicare - nonostante tutto io sono un democratico, un democratico vero, non quella roba lì che usa questo bel nome per quello che sappiamo - ma lo faccio per sapere come agire nei prossimi anni. Se tra qualche tempo qualcuno chiederà il mio voto per diventare sindaco della città in cui vivo, consulterò la mia lista e vedrò cosa avrà votato e se avrà votato sì, io non lo voterò. Senza rancore. Questo non vuol dire che voterò chiunque si presenti che abbia votato NO, lo valuterò come sempre ho cercato di valutare i candidati, ma certamente non mi posso fidare di avere come amministratore della mia città qualcuno che ha cercato con il suo voto di limitare la Costituzione, di rendere più debole la democrazia. Se tra qualche anno qualcuno chiederà il mio voto per diventare parlamentare o proverà a ricostruire un soggetto della sinistra politica, cercherò in quella stessa lista e se il suo nome sarà dalla parte del sì, allora nulla, non avrà il mio voto. Senza rancore. Se tra qualche anno un attore lancerà un appello per salvare il teatro in cui lavora, perché a rischio di chiusura a causa delle politiche di questo governo, guarderò la lista e se il suo nome è nella colonna del sì, certo non firmerò quell'appello. Senza rancore. Se un intellettuale promuoverà una bella campagna in difesa di qualche principio che pure condivido, guarderò ancora una volta la lista e non lo sosterrò, se il suo nome è tra quelli che hanno votato sì. Senza rancore.
Non è considerare questo referendum la battaglia finale, anzi io sono convinto che la battaglia vera comincerà proprio il 5 dicembre, qualunque sarà l'esito del voto, né penso che il referendum sia una sorta di giudizio universale, ma certo questo referendum è importante, perché riguarda la Costituzione, perché riguarda la democrazia, e sono cose su cui non è possibile dire, proviamo, meglio una cattiva riforma che nessuna riforma, poi in un secondo tempo potremo cambiare, come molti di quelli del sì stanno dicendo per giustificare il loro voto. Non si gioca con la Costituzione e non si gioca con i valori. Avete votato sì? Mi verrebbe da dire peggio per voi, se non fosse che è peggio anche per noi, ma non credete che questo vostro voto lasci tutto nella stessa situazione di prima. Dovete essere consapevoli che il vostro voto vi mette da una parte, che non è la mia. Poi capisco che a voi può non fregar nulla del fatto che io non venga più a vedere il vostro film, non legga più il vostro romanzo, non vi consideri più un intellettuale da ascoltare, non vi voti mai più, ma per me è così, perché il voto è una cosa seria. E questo voto è una cosa seria. Qualcosa di cui non ci dimenticheremo.

sabato 19 novembre 2016

Verba volant (321): plagio...

Plagio, sost. m.

Capita a volte che i poeti diano un significato nuovo alle parole: questo è uno di quei casi. Nel diritto degli antichi romani il plagium era il reato di chi vendeva o comprava come schiavo un uomo, pur sapendo che era nato libero. Partendo da questa parola, Marziale inventò l'aggettivo plagiarius per attaccare un poeta da quattro soldi che andava in giro per Roma leggendo in pubblico dei suoi epigrammi, spacciandoli per propri.
Evidentemente in arte il plagio è ancora frequente, anche se forse più tollerato che ai tempi degli antichi. Certo sapete che Mina e Celentano hanno pubblicato un nuovo album, se n'è parlato molto e anche i non appassionati di musica credo si siano imbattuti nella notizia. Si intitola Le migliori e probabilmente vi sarà anche capitato di vedere la copertina: in una strada cittadina ci sono quattro donne con vestiti e accessori coloratissimi e molto eccentrici che nascondono le fattezze dei due cantanti. Non c'è che dire: una copertina bella e originale. O meglio bella, perché non troppo originale.
Infatti in questi giorni il fotografo statunitense Ari Seth Cohen, famoso per le sue foto di donne per età e per abbigliamento un po' fuori dagli schemi rispetto agli altri fotografi di moda, ha ripubblicato un suo scatto di qualche tempo fa: in una strada cittadina quattro signore molto eccentriche e coloratissime ci guardano divertite. E' una foto praticamente identica a quella della copertina del disco, anche negli accostamenti di colore. Lo stesso fotografo nel suo blog racconta di essere stato contattato dalla casa discografica per poter utilizzare quella foto, ma che non è stato raggiunto un accordo. Evidentemente, visto che quella foto piaceva proprio, hanno deciso di rifarla, senza che il fotografo fosse citato e ovviamente pagato.
Ari Seth Cohen è un fotografo famoso, ha i mezzi per difendersi e soprattutto, come Marziale, ha gli strumenti e le occasioni di rivendicare il proprio lavoro - la notizia del plagio è stata riportata dai mezzi di informazione e anch'io, nel mio piccolissimo, oggi ne parlo - ma a quanti giovani fotografi capita di essere derubati in questo modo? A quanti giovani artisti succede ogni giorno qualcosa del genere? Senza che ovviamente diventi una notizia per i giornali o da commentare in un blog di provincia come questo.
Purtroppo la situazione è ancora più grave. Il poetastro che rubava i versi di Marziale sapeva benissimo che li stava rubando a un poeta molto più bravo di lui, ne riconosceva in questo modo il valore e soprattutto riconosceva un valore a quel lavoro così particolare che è lo scrivere dei versi. Che però è pur sempre un lavoro. Oggi chi ruba una foto o un brano musicale o una poesia, per usarla magari in uno spot pubblicitario, non si rende neppure conto che il lavoro dell'artista è un lavoro come un altro e, come tale, va pagato. Sempre. Forse perché anche il lavoro di quell'anonimo creativo non è considerato un lavoro ed è regolarmente sottopagato. In genere tutti i lavori in questo tempo dominato dal capitale vengono sottostimati, perché pagare meno chi lavora significa assicurare un guadagno più grande a chi usa quel lavoro, perché il lavoro sfruttato rende ancora più ricco il padrone, ma è tanto più evidente per quello che una volta si chiamava il lavoro intellettuale che, non producendo apparentemente nulla, sembra possa essere non pagato. Vuoi fare l'artista? Peggio per te, spera di avere dei genitori che ti possano mantenere per tutta la vita, perché non potrai sperare che qualcuno paghi per il tuo lavoro, salvo usare quel lavoro, quando è bello, perché magari fa vendere un prodotto.
L'arte è certamente un bene comune, come l'acqua, e in quanto tale deve poter essere fruito dal maggior numero possibile di persone e, proprio come l'acqua, dovrebbe costare poco a chi la consuma. Però chi la produce lavora e deve essere pagato, anche perché per fare una bella foto occorre studiare e bisogna farne almeno mille brutte, così come prima di scrivere una bella poesia occorre studiare e bisogna scriverne mille brutte, da gettare. Per questo l'arte non può essere regolata dal mercato, perché il mercato non può risolvere questa contraddizione. Anche se i padroni quando la usano, come nel caso da cui sono partito, la devono pagare, perché noi compreremo quel disco anche perché incuriositi da quella copertina o ci convinceremo a comprare quell'auto perché sedotti da quella musica.
Forse Marziale non ha poi sbagliato a "inventare" questa parola per significare il furto dell'arte, perché il capitale ci compra come schiavi, pur sapendo che siamo nati liberi.   

giovedì 17 novembre 2016

Verba volant (320): pericolo...

Pericolo, sost. m.

Nella parola latina periculum ritroviamo la radice del verbo greco peirao, che significa tentare, e quindi, almeno dal punto di vista etimologico, non c'è necessariamente un'accezione negativa in questo termine: periculum è anche la prova, l'esperimento. Ma di cui evidentemente si teme l'esito sfavorevole; forse perché per gli antichi non sempre vale l'adagio tentar non nuoce. Leggo che alcuni, dopo l'iniziale sorpresa, hanno verso Trump questo senso di attesa: vediamo cosa farà, aspettiamo a dare giudizi, lasciamolo lavorare, sono frasi ricorrenti in questi giorni. Invece sappiamo che Trump sarà un pericolo per gli Stati Uniti e per il mondo: e lo vediamo già ora che non è ancora ufficialmente cominciato il suo mandato.
I motivi di questo fondato timore sono ovviamente le nomine annunciate in questi giorni, come quella di un personaggio come Stephen Bannon a consigliere speciale della presidenza, ma soprattutto alcune decisioni meno controverse, ma che rischiano di incidere molto profondamente nella coscienza dei cittadini degli Stati Uniti. E non solo. In una delle sue primissime interviste da presidente eletto ha detto che intende rinunciare all'indennità di 400mila dollari all'anno prevista dalla legge e che prenderà uno stipendio simbolico di un dollaro. Immagino che si tratti di una scelta popolare, che gli attirerà consensi, non solo tra i suoi elettori. Ho letto ovviamente commenti entusiasti qui in Italia, un paese in cui sulla critica agli stipendi dei politici si sono fondate le fulgide carriere politiche di alcuni personaggi senza arte né parte, che peraltro si sono ben guardati dal rinunciare ai loro emolumenti una volta eletti, perché - come noto - nel nostro paese vige la regola aurea che i privilegi sono sempre quelli degli altri.
Il gesto di Trump non è solo la vanteria di un ricco che ostenta in maniera volgare i suoi soldi, che immagino molti, ma non moltissimi, perché quelli che sono davvero molto ricchi evitano le pacchianate tipo rubinetti d'oro che invece abbondano in casa di The Donald. Il messaggio, al di là di quello che Trump vuole e sa, è più sottile e più pericoloso. Uno dei motivi che spiega la vittoria di Trump è il fatto che la sua avversaria fosse Hillary Clinton, una che è vissuta di politica, che fa parte di una famiglia che è vissuta di politica. Donald Trump, il primo presidente degli Stati Uniti che non abbia mai esercitato una carica nell'amministrazione pubblica o nell'esercito, ha capito bene la lezione e intende sfruttare fino in fondo questa idea che la politica sia uno spreco. Questo gesto, apparentemente innocuo, serve a consolidare l'idea, già ampiamente diffusa purtroppo, che la democrazia sia un costo, un costo che evidentemente in tempi di crisi non possiamo più sostenere. Che la politica rappresenti uno spreco di risorse, che potrebbero essere più utilmente impiegate per aiutare le persone in difficoltà.
E' un messaggio insinuante, che fa breccia tra i cittadini, come vediamo bene anche qui in Italia. Questo è di fatto l'unico argomento che utilizzano - in maniera martellante - quelli del sì per sostenere una cosiddetta riforma che limita gli ambiti della democrazia, che riduce gli organi legislativi, per favorire l'accentramento del potere in una sola mano. Naturalmente so bene che troppo spesso chi esercita cariche politiche ha indennità troppo alte, almeno qui in Italia è così da molto tempo, e la politica è diventata per molti che non avrebbero avute altre risorse un'occasione per diventare ricchi in fretta, senza troppa fatica, ma la stortura non può farci dimenticare che garantire un'indennità a chi esercita una carica elettiva significa dare la possibilità a tutti, non solo ai ricchi, di fare politica. E chi ama la democrazia non può rinunciare a questo principio, neppure quando è usato così male, quando è frutto di tali abusi.
Ogni tanto mi succede di leggere il commento di qualche idiota che loda l'art. 50 dello Statuto albertino che escludeva ogni tipo di retribuzione per i membri del parlamento. Le indennità per chi esercita funzioni legislative e di governo è una conquista delle democrazie, perché garantisce che tutti le possano esercitare, e non solo quelli che non hanno bisogno di lavorare per vivere, come Trump e quelli della sua risma. E infatti, a parte qualche imbecille che non conosce la storia, questa tesi è sostenuta da sempre dalla destra, da chi vuole togliere il potere al popolo, da quelli che, nonostante le dichiarazioni di questi giorni, sono contenti che abbia vinto Trump, perché è uno di loro, uno che fa passare questi messaggi così suadenti e quindi pericolosi.
In questi quattro anni di Trump e in Italia con il NO al referendum del prossimo 4 dicembre, dovremo combattere con forza e con determinazione questa ideologia strisciante e persuasiva che vuole convincerci che la politica è un lusso che non possiamo più permetterci.

mercoledì 16 novembre 2016

Verba volant (319): cognome...

Cognome, sost. m.

I nomi sono importanti. Lo so: per vivere faccio l'ufficiale d'anagrafe e quindi lavoro con i nomi - e i cognomi - delle persone e per diletto scrivo un dizionario. Dare un nome agli animali e alle cose è il primo - e forse l'unico - potere che il Dio guerrafondaio e assai poco misericordioso dell'Antico testamento dà all'uomo. In questa parola, passata in maniera molto simile in praticamente tutte le lingue indoeuropee, riconosciamo la stessa radice che troviamo nel verbo conoscere, perché in qualche modo chiamare le cose significa conoscerle. Nonostante questo penso che forse i nomi - e i cognomi - siano sopravvalutati.
Francamente se avessi avuto un figlio - o una figlia - mi avrebbe fatto piacere che portasse anche il cognome di sua madre, oltre al mio. O anche solo quello di mia moglie: non ho una particolare necessità di conservare il nome della mia famiglia per i posteri. Anzi più passa il tempo più credo avesse ragione quell'antico eresiarca di Uqbar che diceva che gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini. Comunque, mi fosse successo l'accidente di trasmettere un po' del mio codice genetico a un'altra persona, avrei considerato più importanti le idee con cui lo avremmo cresciuto - o cresciuta - piuttosto che il nome che sarebbe comparso sulla sua carta d'identità.
Anche se questo complicherebbe non poco il mio lavoro, penso che una persona, raggiunta la maggiore età, dovrebbe avere la facoltà di scegliere il proprio nome, perché in fondo i cognomi ci servono soltanto a conoscere una storia, che in qualche caso vogliamo giustamente ricordare, ma che in qualche altro preferiremmo dimenticare. E quella giovane persona potrebbe anche scegliere di cominciare una storia del tutto nuova, con un nuovo cognome.
Ho sempre ritenuto la legge spagnola su questo argomento decisamente migliore di quella italiana, anche se ovviamente non basta una legge a modificare una cultura e infatti quel paese non è meno maschilista e misogino del nostro. E comunque non si tratta di una legge nata per sancire un principio progressista; tutt'altro: serviva a definire una sorta di "purezza" che doveva essere garantita sia dal padre che dalla madre. Comunque sia quel doppio cognome - che ora pare finalmente possibile anche in Italia, senza troppe complicazioni burocratiche, ha un significato importante, perché ciascuno di noi è figlio di una madre e di un padre, anche quando è figlio di NN, come si scriveva un tempo. Ed è figlio di una storia che risale per li rami ed è rappresentata da quei cognomi.
Certo se avessi un figlio adolescente - stupido e immaturo come si conviene a quell'età, come eravamo noi a quell'età - anche se avesse entrambi i nostri cognomi, probabilmente farei fatica a convincerlo che donne e uomini devono essere considerati allo stesso modo e che proprio perché è un giovane uomo ha qualche responsabilità in più. Oggi farei, se possibile, ancora più fatica visto che è stato eletto presidente degli Stati Uniti un tizio che pensa e dice l'esatto contrario di quello che io avrei provato a insegnargli, anzi che è stato eletto anche perché è così volgarmente maschilista e perché la sua avversaria era una donna. Figurarsi allora che fatica farei a spiegare la stessa cosa a una mia eventuale figlia adolescente - che pure immagino un po' più intelligente e matura del suo altrettanto ipotetico fratello, perché in genere le donne sono un po' più sveglie di noi maschi - che credo avrebbe già capito da sola che, nonostante il suo doppio cognome così politicamente corretto, a lei sarà richiesta più fatica per ottenere gli stessi riconoscimenti di un maschio, che sarà comunque pagata meno rispetto a un maschio per fare lo stesso lavoro, che sarà valutata più per la sua bellezza che per la sua intelligenza e che troppe volte le sarà richiesta una "disponibilità" che non vorrebbe dare. Perché non basta la legge che dice che si possono avere i due cognomi per cambiare le teste di troppi maschi.
Immagino che più del loro doppio cognome garantito dalla legge sarebbe stato necessario il comportamento di noi genitori, il modo di prendere insieme le decisioni importanti che riguardano la famiglia, la considerazione e il rispetto per il lavoro l'uno dell'altra, l'esempio che saremmo riusciti a essere, nel bene - spero - come nel male. Pur sapendo che il mondo là fuori va in direzione opposta, come ogni giorno purtroppo ci viene ricordato.