domenica 30 giugno 2019

da "La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene" di Pellegrino Artusi

235. Maccheroni col pangrattato

Se è vero, come dice Alessandro Dumas padre, che gli Inglesi non vivono che di roast-beef e di budino; gli olandesi di carne cotta in forno, di patate e di formaggio; i Tedeschi di sauer-kraut e di lardone affumicato; gli Spagnuoli di ceci, di cioccolata e di lardone rancido; gl'ltaliani di maccheroni, non ci sarà da fare le meraviglie se io ritorno spesso e volentieri sopra ai medesimi, anche perché mi sono sempre piaciuti; anzi poco mancò che per essi non mi acquistassi il bel titolo di Mangia maccheroni, e vi dirò in che modo.
Mi trovavo nella trattoria dei Tre Re a Bologna, nel 1850 in compagnia di diversi studenti e di Felice Orsini amico d'uno di loro. Erano tempi nei quali in Romagna si discorreva sempre di politica e di cospirazioni; e l'Orsini, che pareva proprio nato per queste, ne parlava da entusiasta e con calore si affannava a dimostrarci come fosse prossima una sommossa, alla testa della quale, egli e qualche altro capo che nominava, avrebbero corsa Bologna armata mano. Io nel sentir trattare con sì poca prudenza e in un luogo pubblico di un argomento tanto compromettente e di un'impresa che mi pareva da pazzi, rimasi freddo a' suoi discorsi e tranquillamente badavo a mangiare un piatto di maccheroni che avevo davanti. Questo contegno fu una puntura all'amor proprio dell'Orsini, il quale, rimasto mortificato, ogni volta che poi si ricordava di me, domandava agli amici: - Come sta Mangia maccheroni? -
Mi par di vederlo ora quel giovane simpatico, di statura mezzana, snello della persona, viso pallido rotondo, lineamenti delicati, occhi nerissimi, capelli crespi, un po' bleso nella pronunzia. Un'altra volta, molti anni dopo, lo combinai in un caffè a Meldola nel momento che fremente d'ira contro un tale che, abusando della sua fiducia, l'aveva offeso nell'onore, invitava un giovane a seguirlo a Firenze, per aiutarlo, diceva egli, a compiere una vendetta esemplare.
Una sequela di fatti e di vicende, una più strana dell'altra, lo trassero dopo a quella tragica fine che tutti conoscono e tutti deplorano, ma che fu forse una spinta a Napoleone III per calare in Italia.

Ritorniamo a bomba.
  • Maccheroni lunghi e che reggano bene alla cottura, grammi 300.
  • Farina, grammi 15.
  • Burro, grammi 60.
  • Formaggio gruiera, grammi 60.
  • Parmigiano, grammi 40.
  • Latte, decilitri 6.
  • Pangrattato, quanto basta.
Se vi piacessero più saporiti aumentate la dose del condimento.
Ai maccheroni date mezza cottura, salateli e versateli sullo staccio a scolare. Mettete al fuoco in una cazzaruola metà del burro e la farina, mescolando continuamente; quando questa comincia a prender colore versate il latte a poco per volta e fatelo bollire per una diecina di minuti; indi gettate in questa balsamella i maccheroni e il gruiera grattato o a pezzettini e ritirate la cazzaruola sull'orlo del fornello onde, bollendo adagino, ritirino il latte. Allora aggiungete il resto del burro e il parmigiano grattato; versateli poi in un vassoio che regga al fuoco e su cui faccian la colma e copriteli tutti di pangrattato.
Preparati in questa maniera metteteli nel forno da campagna o sotto un coperchio di ferro col fuoco sopra e quando saranno rosolati serviteli caldi per tramesso o, meglio, accompagnati da un piatto di carne.

sabato 29 giugno 2019

Verba volant (679): redenzione...

Redenzione, sost. f.

Scrivere è una cosa complicata e anche - a suo modo - misteriosa. Perfino scrivere queste bagatelle che voi così pazientemente leggete: a volte, quando arrivo in fondo mi capita di farmi sorprendere da qualcosa che ho scritto, perché all'inizio ero partito con un'altra idea rispetto a quello che leggo alla fine, nel momento in cui devo premere il pulsante "pubblica".
Immagino sia successo qualcosa del genere anche a Nikolaj Vasil'evič Gogol'. Il giovane scrittore comincia a scrivere quello che poi diventerà Le anime morte, immaginando un poema sulla Russia che avrebbe dovuto seguire un percorso dantesco: a una prima parte in cui lo scrittore avrebbe descritto, attraverso le avventure di Čičikov impegnato a comprare appunto "anime morte", la dimensione morale più bassa della Russia, sarebbero seguite le due parti in cui il suo personaggio e il suo paese si sarebbero alla fine riscattati. Ma il progetto di Gogol' rimane incompiuto. Gogol' riesce a raccontare l'inferno - e lo fa con un'ironia che non ha praticamente eguali nella storia della letteratura - ma poi è come se la storia prendesse il sopravvento sullo scrittore e dicesse: adesso ci fermiamo qui, non c'è più nulla da raccontare. Gogol', grazie al suo mestiere, riesce a scrivere quasi tutta la seconda parte, ma non ne è soddisfatto, durante una crisi nervosa arriva a bruciare il manoscritto - perché non è vero, come fa dire Bulgakov a Woland, che i manoscritti non bruciano - e poco dopo, all'età di quarantatré anni, muore.
E così noi ora leggiamo di questo romanzo solo una parte, solo quello che lo scrittore - o forse il romanzo stesso, dopo aver preso il potere sul suo tormentato autore - ha voluto che noi leggessimo. E naturalmente cambia in maniera radicale il modo in cui leggiamo Le anime morte, se lo consideriamo come un'opera incompiuta o se pensiamo sia finita. Come credo possiate immaginare, io sono tra quelli che, non credendo che sia possibile una redenzione, ritengo l'opera di Gogol' finita e proprio per questo un capolavoro.
Vediamo la storia che Gogol' ci racconta. Un giorno nella città di N., capoluogo di governatorato, arriva un calesse, con a bordo un signore
non bello, ma neppure brutto, né troppo grasso né troppo magro, che non si sarebbe potuto dir vecchio, ma nemmeno molto giovane.
Il consigliere di collegio Pavel Ivanovič Čičikov è accompagnato dal cocchiere Selifan, che raramente vedremo sobrio nel corso della storia, e dal servitore Petruška, di cui invece ricorderemo il caratteristico odore. L'arrivo in città di Čičikov passerebbe inosservato se non fosse per quello strano calesse, che sembra sempre sul punto di cambiare direzione. I vecchi che lo osservano arrivare - immagino con le mani unite dietro la schiena - discutono animatamente se un veicolo del genere sarebbe mai potuto arrivare fino a Mosca. Ma naturalmente in una città di provincia ogni arrivo viene attentamente monitorato e le persone più in vista, donne e uomini, si interrogano su chi possa essere questo misterioso personaggio. Čičikov ovviamente viene invitato nelle case più importanti e in queste occasioni viene analizzato con un misto di curiosità e di timore. Chi sarà quello straniero? Sarà un'opportunità o un pericolo? Il contegno riservato di Čičikov - che è simpatico, ma non troppo, intelligente, ma non troppo, e così via - non permette ai maggiorenti della città di capirlo; e questo ovviamente fa crescere il mistero.
Ma Čičikov non è distaccato, è solo attento, perché lo scopo con cui è arrivato in quella remota regione dell'impero è molto diverso da quello che credono gli altri. E naturalmente da quello che egli stesso può raccontare. L'obiettivo di Čičikov è quello di acquistare a buon prezzo dei servi della gleba, in particolare le cosiddette "anime morte", ossia quei contadini e servi registrati negli archivi censuari, per i quali i proprietari continuano a pagare il testatico, fino a quando non ne verrà registrata la morte nel successivo censimento. Čičikov punta così a crearsi, con poca spesa, un elevato numero di servitori, che, una volta ipotecati, possano costituire un grosso capitale. E così Čičikov visita - uno dopo l'altro - cinque grossi proprietari, da cui ottiene, spesso dopo estenuanti trattative, un bel numero di "anime". Curiosamente ciascuna di queste visite avviene in maniera quasi casuale, perché è sempre il calesse, in forza della sua strana andatura, a decidere di andare in una direzione piuttosto che in un'altra. 
Čičikov riesce quasi a portare a termine il suo piano. Perché, nonostante egli abbia ovviamente cercato di tenere le trattative nel massimo del segreto, la vedova Korobočka, timorosa di averci rimesso, arriva in città per chiedere il valore di mercato di queste "anime morte" che quello straniero le ha comprato. Inoltre anche il favore dei maggiorenti sfuma e si sparge la voce che Čičikov abbia tentato di insidiare la figlia sedicenne del governatore. E le dicerie su cui lo straniero aveva costruito la sua fortuna gli si ritorcono contro: adesso di lui si dice di tutto, perfino che sia Napoleone fuggito da Sant'Elena con l'intento di vendicarsi sulla Russia. Il suo castello di carte crolla e Čičikov non può far altro che fuggire. E chissà dove lo condurrà quel suo calesse con la sua strana andatura.
Chi sono allora le "anime morte"? Anzi per tutti quelli che le commerciano, bisognerebbe chiedersi "cosa sono?", perché sono uomini e donne che vengono considerati in ogni occasione alla stregua di cose. Per i proprietari sono un peso, che li costringe a pagare una tassa, ma poi, quando arriva qualcuno che le vuole comprare, togliendo loro quel fardello, non se ne vogliono liberare e tutti, senza eccezione, cercano di guadagnarci ancora qualcosa. Curiosamente è proprio Čičikov l'unico che, a tratti, si ricorda che quei nomi oggetto di sempre più serrati mercanteggiamenti, sono stati un tempo donne e uomini. Quando scrive i loro nomi, per un attimo il piccolo truffatore pensa che c'è stato un giorno in cui quelle donne e quegli uomini erano vivi, erano tristi o allegri, fortunati o sfortunati, insomma erano come siamo noi.
O almeno come noi dovremmo essere. Perché le vere "anime morte" del poema di Gogol' sono quelli che sembrano vivi, ma che invece sono più morti dei morti. E in fondo siamo noi i morti raccontati da Gogol'. Siamo morti come i notabili della città di N., nelle loro ipocrite meschinità, che hanno in maniera istintiva paura di Čičikov, perché, pur non conoscendolo, gli attribuiscono i loro stessi vizi. Siamo morti, perché siamo superficiali come Manilov, meschini come la Korobočka, falsi come Nozdrëv, volgari come Sobakevič, avari come Pljuškin. E' un terribile campionario umano quello descritto da Gogol', noi siamo un terribile campionario umano. E non si salva neppure Čičikov - e non perché sia un truffatore - ma perché fa tutto questo per diventare come i notabili di N., come i possidenti volgarmente attaccati alle loro cose, quello è il suo unico ideale.
E noi siamo i morti raccontati da Gogol', in un mondo che non conosce redenzione, perché anche noi siamo nomi che vengono venduti, come quelle "anime morte". I nostri dati vengono venduti come merci e noi valiamo solo quando siamo una percentuale in più - per quanto infima - nel diagramma della società a cui ci hanno venduto per permetterci di avere un contratto telefonico nel nostro smartphone o di utilizzare un software per fare funzionare il computer in cui io sto scrivendo e voi state leggendo. E su quelle liste di nomi qualcuno crea la propria fortuna: io ho tanti abbonati, io ho tanti clienti, io ho tanti follower, io ho tante "anime morte".

giovedì 27 giugno 2019

Verba volant (678): swing...

Swing, sost. m.

Nei ruggenti anni Venti il Central Park casino era uno dei ristoranti più alla moda di New York. E attenzione: casino è scritto senza accento, perché non era un luogo dove si giocava d'azzardo, ma, secondo l'uso della lingua italiana, una casa di campagna, un luogo per piacevoli ritrovi immerso nel verde. E' facile immaginare che chi ha pensato a quel nome avesse in mente la Casina Valadier sul Pincio. 

volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie...

martedì 25 giugno 2019

Verba volant (677): vendetta...

Vendetta, sost. m.

Noi "moderni" rimaniamo sgomenti di fronte alla storia di una madre che uccide il proprio figlio: è un delitto incomprensibile, che non riusciamo proprio a spiegare. Visto che siamo figli della psicologia, per affrontare un simile delitto non possiamo far altro che ricorrere alla categoria della pazzia e questo in qualche modo ci rassicura: quella donna è folle e contro la follia non si può fare nulla. Quando assistiamo a una rappresentazione della Medea di Euripide, giustifichiamo in questo modo quel doppio infanticidio a cui il tragediografo ateniese ci costringe ad assistere. Ma Medea non è pazza, anzi è lucidissima quando progetta e perfino quando esegue questo delitto, e lo spiega agli spettatori in un lungo monologo, in cui non manca una frecciata polemica contro le teorie di Socrate, che verosimilmente la stava ascoltando seduto in platea.
Non credo che il pubblico che nel 431 a. C. ha assistito per la prima volta alla messa in scena di questa tragedia abbia avuto le nostre stesse sensazioni. Intanto perché nelle storie degli antichi Medea non è certo la prima madre a compiere questo delitto: quando Procne sa che il marito ha violentato sua sorella Filomela, uccide il loro figlio e glielo serve in pasto. Il pubblico ateniese certamente considerava terribile quel delitto, anzi il più terribile dei delitti, ma voleva anche capirne le ragioni. Ed Euripide non vuole raccontarci la storia di una pazza, ma il motivo per cui Medea ha lucidamente compiuto un simile gesto, sapendo benissimo cosa stava facendo.
Medea vuole punire nel modo più doloroso possibile il suo sposo Giasone, padre dei suoi figli, che ha deciso di ripudiarla, quando Creonte, il re di Corinto - la città in cui Giasone e Medea si sono rifugiati - gli offre in sposa la giovane figlia Glauce e, grazie a quel matrimonio, il trono della città. E vuole punire allo stesso modo anche Creonte. E così decide di uccidere i loro figli. Ben sapendo che i figli di Giasone sono anche suoi; e quindi decidendo di punire anche se stessa.
Quando Giasone compare in scena, capiamo immediatamente che razza di uomo sia. Durante il suo primo dialogo con la sposa ripudiata dimostra di non capire affatto il dolore di Medea - e questo rende ancora più forte la rabbia della donna. Giasone le dice che se non lei non avesse fatto la pazza, se non si fosse messa a proferire minacce, avrebbe potuto continuare a vivere, insieme ai suoi figli, a Corinto. Per lui sarebbe stata certamente la soluzione migliore e più comoda: avrebbe avuto a disposizione sia la giovane sposa "ufficiale", grazie alla quale sarebbe stato re, sia una moglie "non ufficiale", da cui sarebbe potuto tornare ogni tanto. E Giasone proprio non capisce perché Medea si ostini a rifiutare una simile soluzione, che le avrebbe garantito una casa e una vita agiata. Bastava che stesse zitta, che non si facesse vedere troppo in giro. Ma visto che ormai Medea ha creato scandalo e ha fatto in modo di venire messa al bando da Creonte, Giasone fa quello che gli uomini pensano di fare sempre in questi casi: mettere tutto a posto con i soldi. Quei soldi offerti a Medea per mantenere i suoi figli sono il segno che in qualche modo la donna attendeva per dare seguito alla sua vendetta, perché lei non può essere comprata e non vuole accettare questa logica per cui ogni cosa lo può essere. Giasone e Medea non sono mai stati così distanti come in questa scena. Nulla più li unisce.
Poi Giasone ricompare nel finale. Corre a casa della sposa ripudiata perché ha saputo che Glauce è morta a causa delle vesti e della corona avvelenate che le sono state date in dono da Medea e scopre che lei ha ucciso anche i loro figli. Medea sta fuggendo, su un carro alato donatale dal Sole, e Giasone dimostra ancora tutta la sua pochezza. Le rinfaccia i delitti che Medea ha commesso per lui, quello di suo fratello, grazie al quale Giasone ha ottenuto il vello d'oro e ha potuto mettersi in salvo fuggendo dalla Colchide, e quello di Pelia, che, ricevuto il vello, ha rifiutato di concedergli il trono promesso. Medea ha fatto di tutto per Giasone e ora per questo lui la accusa. E' un ingrato e un ipocrita, che ha usato Medea e le sue potenti arti magiche, e che soprattutto ha sfruttato l'amore che lei ha provato per lui: davvero non riusciamo a essere solidali con lui, neppure pensando che ha perso i suoi figli in una maniera così tragica.
E pietà non merita neppure Creonte, un altro maschio che capisce solo la logica del potere e del denaro. Euripide invece mostra pietà per la giovane Glauce. La sua morte viene raccontata a Medea da un messo e l'autore qui costruisce in pochi versi un piccolo ritratto di questa ragazza, pieno di sensibilità. Sentiamo la gioia della giovane, felice che sta per sposarsi, ignara di tutto quello che sta succedendo intorno a lei. Indossa la corona e la splendida veste che le sono appena state regalate, sorride, guardandosi allo specchio, e poi si alza e cammina: Euripide ce la descrive mentre danza nel suo vestito nuovo. E' un momento di gioia perfetta, innocente, che dura un solo momento perché poi il veleno inizia il suo terribile effetto. Ma Euripide qui, ancora una volta, dimostra di saper raccontare le donne come nessun altro.
Il culmine della tragedia è il monologo di Medea nel quinto episodio. Glauce ha già ricevuto il dono che la ucciderà e ora è il momento di compiere la vendetta finale ed estrema. Ma, quando vede i suoi figli, il suo proposito vacilla. Medea sta per cedere. Ma alla fine la necessità di punire Giasone prevale. Dopo averli salutati per l'ultima volta, si rivolge al pubblico e dice:
Conosco il misfatto che sto per compiere. Ma il furore dell'animo che spinge i mortali alle più grandi colpe è più forte di me in ogni altro volere.
"Conosci te stesso", dice Socrate, e aggiunge che quando l'uomo riesce a conoscere davvero il bene e il male, cercherà sempre il primo ed eviterà il secondo. Medea conosce se stessa, e conosce altrettanto chiaramente il bene e il male, e fa la sua scelta - quella che noi condanniamo - proprio in virtù di questa conoscenza. Le donne e gli uomini - dice Medea a Socrate - non sono solo ragione, ma anche passione e alcune volte questa è così forte, consapevolmente così forte, da vincere anche la ragione. Le donne e gli uomini sono creature più complesse di quello che credono i filosofi.
E allora il mistero di Medea non è sapere perché ha fatto quello che ha fatto: ce lo racconta lei con spietata chiarezza. Ma sapere come è arrivata a trovarsi in una tale, terribile, situazione. Come ha fatto una donna intelligente come Medea ad innamorarsi di un uomo così stupido? Una donna capace di amare in maniera così incondizionata un uomo che non capisce affatto l'amore?
Euripide ci offre qualche indizio, ma è stato, molti secoli dopo, Pier Paolo Pasolini a chiarire questo punto determinante della storia. E credo sia per questo che per noi Medea sarà sempre Maria Callas, con la sua pelle chiarissima e i suoi penetranti occhi scuri.
Giasone urla a Medea che è "barbara". E Pasolini enfatizza, anche attraverso le vesti e i monili, che Medea è una donna di un altro paese, di un altro tempo. E anche quando arriva in Grecia non vuole - e non può - rinunciare a questi costumi, che sono parte di lei. In Grecia Medea è sola, in una terra che la lascia sgomenta, in cui non riconosce nulla di quello che ha lasciato nel suo paese. Rispondendo a un'ancella che cerca di consolarla, Medea pronuncia una frase che racconta tutto il suo dramma:
sono restata quello che ero: un vaso pieno di sapere non mio.
Medea si è innamorata non di Giasone, ma del mondo in cui lui l'avrebbe condotta, il mondo della modernità. Medea vuole un mondo nuovo, ma si scopre saldamente ancorata nel vecchio.
E infatti Pasolini, in una celebre intervista, dice del suo personaggio:
Medea è il confronto dell'universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. L'intero dramma poggia su questa contrapposizione di due “culture”, sull'irriducibilità reciproca di due civiltà.
Per questo Medea diventa un modo per capire la realtà, in ogni tempo. Perché Giasone, con tutto il suo buon senso borghese, è il potere che si manifesta in forme diverse, ma che pure è sempre uguale a se stesso, arrogante, violento, egoista. E infatti il regista ci spiega che la storia di Medea
potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano ad esempio, che vivesse la stessa catastrofe venendo a contatto con la civiltà occidentale materialistica.
Tra il 1968 e il 1969 Pasolini gira il suo film mentre si infrangono, uno dopo l'altro, i sogni di indipendenza, di libertà e di progresso, che avevano accompagnato la fine dei regimi coloniali per così dire "classici", sostituiti da un nuovo colonialismo, quello del capitale, ben più violento, ma anche più subdolamente pervasivo. E, come è più vera oggi la storia di Medea, quando il capitale non solo continua a sfruttare brutalmente quelle terre, ma anestetizza quelle donne e quegli uomini con i modelli di una cultura di massa, in cui i divi dello sport, della musica e del cinema diventano modelli globali di un mondo immaginario in cui conta solo il denaro, e il successo e la bellezza sono gli strumenti per ottenere più denaro. E può succedere che un bambino africano venga sepolto dalle acque del Mediterraneo, mentre indossa una maglietta con su scritto il nome di Ronaldo.
Medea segue ogni giorno Giasone, pensando che il mondo in cui andrà a vivere sarà migliore di quello che lascia. Ma, una volta arrivata, scopre che quella speranza è destinata a infrangersi, perché a Giasone non importa nulla di lei e dei suoi figli: Medea va bene fin quando è utile, fin quando sarà abbastanza giovane e bella da poterla prostituire, finché sarà abbastanza forte e sana per poterla sfruttare in una fabbrica o in un campo di pomodori, poi sarà gettata via, perché laggiù ce ne sono tantissime come Medea. Ma ci sarà, prima o poi, una Medea così forte, così intelligente, così spietata, da non accettare più questo stato di cose.

domenica 23 giugno 2019

Verba volant (676): rugiada...

Rugiada, sost. f.

Qual è la colpa di Salomè? Naturalmente per Marco e per Matteo, due dei quattro biografi ufficiali del figlio del falegname di Nazareth, è stata quella di aver voluto la morte di Giovanni Battista, uno che, nel fermento religioso di quegli anni, quando la vecchia religione stava morendo e ne serviva una nuova, per poco non è diventato "più famoso di Gesù". E che Giovanni sia davvero il "numero due" è testimoniato dal fatto che la chiesa delle origini, quando la battaglia con le altre religioni era un vero corpo a corpo - e c'è stato un tempo in cui Mitra era in netto vantaggio - ha assegnato proprio a questo profeta pastore il compito di "presidiare" il solstizio d'estate, mentre Gesù doveva fare lo stesso con quello d'inverno. I solstizi sono come le stazioni a Monopoli, bisogna occuparli tutti per vincere la partita. A dire il vero Marco e Matteo non la chiamano mai per nome, ma la indicano semplicemente come la figlia di Erodiade. Sappiamo che si chiamava Salomè grazie a Giuseppe Flavio, e francamente questo ebreo che voleva diventare romano non avrebbe perso un'occasione così ghiotta per parlare male di una famiglia ebraica in vista e poco rispettabile, come quella di Erode, per di più con una storiaccia del genere: anche gli storici sanno che il sesso fa vendere.
Comunque Giovanni, per diventare davvero il "numero due", aveva bisogno di un "cattivo". E francamente Erode Antipa non aveva il fisico del villain. Ve lo ricordate in Jesus Christ Superstar? Grassottello, con i ricci, che canta una canzonetta dal ritmo ragtime? No, Giovanni aveva bisogno di un "vero" cattivo. Ci voleva una donna. Meglio giovane, meglio bella, meglio puttana. Il sesso aiuta a vendere anche le religioni, pensate alle conturbanti nudità delle Maddalene. Salomè era perfetta. Era giovane, era molto bella, quindi era una puttana. Una che balla mezza nuda, coperta solo con dei veli, è certamente una poco di buono. E visto che i solstizi sono sempre notti particolari, in cui le streghe fanno volentieri una capatina qui nel mondo dei vivi, Salomè poteva diventare benissimo una strega, la cattiva per antonomasia.
E così è nato lo scontro tra il profeta pastore e la strega puttana e ovviamente immaginate chi poteva vincere, visto che questa storia ce l'hanno raccontata sempre e solo dei maschi. E' Salomè che ha sedotto il povero Erode Antipa, che l'ha provocato con le sue danze lascive - d'altra parte, siamo onesti, chi avrebbe potuto resistere a Rita Hayworth - è Salomè che ha preso in mano la testa mozzata e sanguinante di Giovanni e l'ha baciata, in un una scena decisamente porn-splatter. Ma dalla bocca di Giovanni è uscito un vento impetuoso che ha scagliato via la strega, facendola volare in aria.
Secondo un'altra versione - neppure questa particolarmente favorevole alla povera Salomè - la giovane lasciva si sarebbe messa a piangere di fronte alla testa di Giovanni e quelle lacrime sarebbero la rugiada, che in queste notti d'estate rinfrescano la campagna.
Ma siccome le streghe sono dure a morire la rugiada della notte di san Giovanni è una rugiada magica, che rende potenti alcune erbe, come l'iperico e l'artemisia, erbe delle streghe naturalmente. E anche la felce, il cui fiore secondo la leggenda si schiude solo la notte di san Giovanni. E le noci ancora verdi bagnate dalla rugiada della notte di san Giovanni devono essere raccolte, solo da donne con i piedi nudi, per fare, la notte di san Lorenzo, il nocino, liquore amato dalle streghe.
Certo Giovanni ha vinto, c'è il suo nome sul calendario - e naturalmente questo calendario è solare, il calendario dei maschi - ma Salomè, la strega della notte del solstizio, resiste e noi maschi dobbiamo stare attenti: abbiamo certamente vinto molte battaglie, ma la guerra non è ancora finita. Un giorno, o meglio una notte di luna, Salomè e tutte le streghe potrebbero tornare nel posto da cui i maschi le hanno cacciate.

C'è una curiosa tradizione parmigiana - che non conosco in altre zone d'Italia - che racconta bene questa nostra terra emiliana: la sera di san Giovanni noi la festeggiamo mangiando i tortelli d'erbetta, annegati nel burro e asciugati nel parmigiano. E li mangiamo all'aperto, senza aspettare la rugiada, e li mangiamo insieme, in un rito collettivo. E ricordiamo in questo modo di essere stati contadini e celebriamo i prodotti della nostra terra e il lavoro che occorre per realizzarli. E mangiando i tortelli soprattutto celebriamo le azdore che li fanno, ossia le donne che "reggono" la casa, figlie di Salomè e delle streghe.

giovedì 20 giugno 2019

Verba volant (675): pessimismo...

Pessimismo, sost. m.

Caio Giulio Cesare e Tito Lucrezio Caro erano quasi coetanei e certamente si conoscevano, almeno di vista. Anche perché i membri delle famiglie ricche di Roma si conoscevano tutti, frequentavano gli stessi ambienti, andavano in villeggiatura negli stessi posti: era in sostanza un giro piuttosto chiuso. Ed è molto probabile che entrambi siano stati ospiti della bella villa di Ercolano di Lucio Calpurnio Pisone, quella che a seguito degli scavi archeologi e del ritrovamento di una ricca biblioteca di filosofia epicurea, noi conosciamo come la Villa dei papiri. Pisone era il padre di Calpurnia, la terza moglie di Cesare, e sappiamo che in quella villa ospitò a lungo il filosofo epicureo Filodemo di Gadara. Lucrezio era di origini campane, viveva più lì che a Roma, avrà certamente considerato un'opportunità abitare a poca distanza con un pensatore come Filodemo, che ad Atene era stato allievo di Zenone di Sidone. E' possibile che in quella villa Cesare e Lucrezio si siano incontrati, magari abbiano parlato; di filosofia e di politica.
E' il 15 dicembre dell'anno 63 a.C., il Senato è riunito per decidere se condannare a morte Publio Lentulo Sura e Gaio Cetego, gli unici compagni di Lucio Sergio Catilina che sono rimasti ancora a Roma. Il console Decio Giunio Silano, rappresentante del partito che sostiene l'ordine senatorio e una dura repressione contro i ribelli, chiede per loro la pena di morte. Contro questa mozione prende la parola Cesare, anche se forse lui ha interesse che i congiurati vengano uccisi. Da morti non avranno l'occasione di dire che in una prima fase sono stati incoraggiati e finanziati da lui e da Marco Licinio Crasso, con il segreto obiettivo di indebolire il Senato. Cesare probabilmente già immagina che l'unico sbocco per la crisi sempre più evidente in cui versano le istituzioni della repubblica sia quello di un repentino cambiamento, ma non certo a favore della democrazia. Comunque sia, il ragionamento di Cesare con cui chiede una pena più mite per i sostenitori di Catilina si basa essenzialmente su tre argomenti. Il primo è di carattere costituzionale: la decisione da parte del Senato di infliggere la pena capitale, senza permettere agli imputati di appellarsi al popolo, è una forzatura, che neppure un attacco alle istituzioni può giustificare. La seconda è di carattere politico: condannare a morte i congiurati significa dare a loro maggiore importanza di quella che effettivamente meritano, è una dimostrazione di paura da parte del Senato più che di forza. La terza è invece - e sorprendentemente, visto il consesso in cui il discorso viene pronunciato - di carattere morale e filosofico:
Nel dolore e nell'infelicità la morte è fine delle sventure, non supplizio; essa dissolve tutti i mali dei mortali, al di là di essa non vi è spazio né per l'affanno né per la gioia.
Gli argomenti di Cesare sembrano far presa sui senatori e allora interviene Marco Porcio Catone Uticense, l'ultimo esponente di una delle famiglie più antiche dell'aristocrazia romana, un fustigatore dei costumi, i cui interventi venivano accolti dagli altri senatori nel migliore dei casi con un'alzata di spalle. Curiosamente Catone spiega ai suoi colleghi che, nonostante lui li abbia sempre criticati per le loro ricchezze smodate e i loro lussi così lontani dalla sobrietà romana, ora devono intervenire, non sia altro che per difendere questi privilegi. Ma soprattutto l'intervento di Catone è tutto teso a condannare la tesi di Cesare e in particolare il suo rifiuto di credere che, dopo la morte, spettano agli uomini premi e punizioni. Catone considera - con una qualche ragione - questa affermazione di Cesare come eversiva, e forse più pericolosa delle forze raccogliticce messe insieme dagli uomini di Catilina.
Mentre si svolge questo dibattito, probabilmente Lucrezio vive nei propri possedimenti in Campania, lontano dalla città. Difficile credere però che nel suo buen retiro non arrivino le notizie di quello che succede a Roma. Per nascita è della classe che ha tutto da perdere da un cambio di regime. Si appella alla pace, alla concordia, anche se naturalmente lo fanno tutti - perfino Catilina - ma probabilmente auspica che la situazione non cambi, soprattutto non troppo in fretta.
Come gli uomini della sua classe Lucrezio ha paura di Catilina: è un eversore, un nemico della concordia. Ma non riesce proprio ad accettare il rigido e bigotto stoicismo di Catone: il filosofo capisce che se il partito del Senato segue le sue posizioni è destinato a soccombere, perché non si può tornare ai tempi di Catone il censore, il più illustre avo del loro coetaneo. E soprattutto Lucrezio non vuole passare per estremista solo perché sostiene l'epicureismo, come invece pensano gli esponenti dei circoli più conservatori di Roma, che scambiano la ricerca del piacere per licenziosità e sfrenatezza - un po' come faranno in un'altra epoca i nuovi padroni cristiani. Certo c'è il suo amico Marco Tullio Cicerone, che è blandamente stoico e non troppo avverso all'epicureismo, ma che dimostra la stessa inconcludenza anche in politica: la repubblica non si salverà con le belle parole dell'Arpinate, che vuole essere amico di tutti. Ma Lucrezio non si fida troppo neppure di uno come Cesare, probabilmente perché lo conosce e sa che in lui la stessa filosofia epicurea può diventare uno strumento di potere. Cesare non crede agli dei eppure tiene saldamente la carica di pontefice massimo, perché sa che la religione è un efficace instrumentum regni. Certo Cesare è un razionale, non si fa prendere dalle passioni e dalle emozioni, sembra un epicureo, ma Lucrezio capisce che è uno che gioca per sé e non per Roma.
Ma certamente c'è un punto su cui è d'accordo con Cesare, anzi su cui forse le sue conversazioni hanno influenzato il politico. Lo ha scritto in uno dei passi più famosi del poema che sta redigendo - e che sarà il lavoro della sua vita - per illustrare la filosofia epicurea.
Nel libro III spiega che nel momento in cui si muore, cessa ogni forma di coscienza e l'uomo non prova più nulla. Credere nelle punizioni che patiremmo negli inferi non è altro che la proiezione dei nostri mali. Tantalo, oppresso da un sasso che può schiacciarlo in ogni momento, è il riflesso della vana paura degli uomini, che sono terrorizzati in vita dalle future punizioni divine e che per questo non godono la bellezza del presente. Tizio, a cui viene divorato il fegato da due avvoltoi, è l'innamorato sempre tormentato dalla sua passione irrazionale. Sisifo, condannato a spingere in eterno il suo masso, è il politico che, morso dall'ambizione, cerca il potere e non riesce mai a raggiungerlo. Le Danaidi, che attingono acqua in recipienti senza fondo, rappresentano l'insaziabilità degli uomini. Le divinità infernali, Cerbero, le Furie e il Tartaro, non sono altro che il timore che abbiamo di essere puniti per le nostre colpe.
Hic Acherusia fit stultorum denique vita.
Se qui sulla terra per gli stolti diventa vera la vita dell’inferno, come dice Lucrezio, allora la paura della morte è nata da credenze vane e non si deve cadere nell'errore di smettere di vivere perché continuamente tormentati da questo pensiero. E naturalmente morire non può essere una punizione, come dirà anche Cesare di fronte al Senato.
Come era prevedibile, i senatori si lasciarono prendere dalla paura e preferiscono dare ascolto a Catone e a Cicerone piuttosto che a Cesare - e a Lucrezio - e così i catilinari vennero condannati a morte e anche Catilina verrà ucciso alcuni mesi dopo in uno scontro armato presso Pistoia. 
I senatori tirano un sospiro di sollievo: le istituzioni repubblicane sono salve. Naturalmente si illudono. La congiura di Catilina, per quanto destinata a fallire, ha dimostrato quanto la repubblica sia fragile e quanto il partito del Senato ormai incapace di governare la crisi di Roma. Il 59 a.C. Cesare viene eletto console: apparentemente la normale elezione di un politico ambizioso, di una delle più vecchie famiglie del Senato. Di fatto è la fine della repubblica, perché quell'elezione è frutto di un patto segreto che Cesare e Crasso, i due politici che qualche anno prima erano stati sponsor di Catilina, stipulano con Gneo Pompeo Magno, il più importante generale di Roma. Il potere è di chi ha i mezzi per esercitarlo e Cesare, Pompeo e Crasso hanno questi mezzi, solo che ciascuno di loro è troppo debole per prendere il sopravvento sugli altri due e così decidono di allearsi. Quando i senatori, che non hanno ancora capito cosa sta succedendo, decidono di opporsi alla legge agraria proposta da Cesare, che rispondeva a una parte delle richieste degli uomini che avevano guardato con favore alla ribellione di Catilina, il console convoca l'assemblea del popolo di Roma e presenta la sua proposta, affiancato da Crasso e Pompeo, che formalmente non hanno alcuna carica. I tre uomini vogliono dimostrare che hanno ormai preso il potere.
Da un punto di vista formale le istituzioni sono rispettate, Cesare rimarrà in carica un solo anno, ma il console del 58 a.c. è Calpurnio Pisone. Gli epicurei sono al potere. Cicerone ovviamente diventa un sostenitore del nuovo regime, come gran parte dei senatori. Catone continua la sua opposizione, in nome di un ideale che perfino i suoi compagni sanno che è morto. Come sappiamo si trattò di un equilibrio che avrebbe avuto una vita piuttosto breve. Ci saranno ancora molti anni di guerra prima che nasca, sulle macerie della repubblica, una nuova forma politica. Non poteva essere altrimenti: tutti i protagonisti di questa vicenda, da Cesare a Cicerone, da Catilina a Catone, sono i discendenti di poche famiglie di Roma che si sono sempre spartite tra loro il potere. Deve nascere un mondo nuovo, in cui saranno protagonisti altri uomini, nati molto lontano da Roma. Ma il travaglio sarà lungo e doloroso.
E Lucrezio? Continua a stare molto lontano da Roma. Probabilmente smette di frequentare anche Pisone e il suo circolo. Forse qualcuno gli ha chiesto perfino di schierarsi con il nuovo regime. Lui continua a scrivere il suo poema; sempre più chiuso nel suo mondo, perché quello fuori non gli si addice più.
Nel 56 a.C. Cesare, Crasso e Pompeo si trovano a Lucca per rinnovare i termini del loro accordo: ormai la repubblica non si governa più a Roma. L'anno successivo Crasso e Pompeo saranno i nuovi consoli. Al primo saranno assegnati il governo della Siria e l'incarico di far guerra ai Parti, mentre al secondo spetterà il controllo delle ricche regioni dell'Africa e della penisola iberica. Cesare si vede confermare il governo della Gallia già occupata e il comando delle truppe per completarne la conquista. I triumviri non sono mai stati così forti. Proprio in quell'anno Lucrezio si toglie la vita. Diranno che è impazzito, che è si ucciso per amore. Per la propaganda ufficiale è impensabile che il filosofo si sia ucciso perché rifiuta il "migliore dei mondi possibili".
Invece la vita ha travolto il filosofo. Lucrezio chiude il sesto libro del suo poema con il racconto della peste di Atene. Da filosofo razionalista, da indagatore delle cause dei fenomeni, vuole dimostrare che la peste non è espressione dell'ira divina, ma un fatto naturale. Ma la sua descrizione è così realistica, così drammatica, da non lasciare al lettore alcuna speranza. Cicerone, che ha il compito di curarne la pubblicazione postuma, dirà che l'opera è incompiuta, che certo Lucrezio avrebbe scritto altro. E' vero, i versi sono ancora da sistemare, da limare, la forma è ancora da completare, ma credo che Lucrezio quando scrive della peste, si consideri arrivato alla fine, scelga consapevolmente che quelle pagine siano le ultime del suo lavoro. E si uccide.  
Lucrezio ha voluto scrivere il suo poema per costringere i suoi lettori a confrontarsi con la cruda fisicità della morte, con le loro peggiori paure, affinché possano dominarle con la ragione. Ma man mano che il lavoro procede è come se queste paure prendessero il sopravvento anche su di lui, e così il poema che si apre con la luce dell'inno a Venere, con l'esaltazione della bellezza e dell'infinito potere salvifico della natura si chiude con la peste, con la natura che uccide. E queste immagini di distruzione e di morte sono quelle che rimangono. Lucrezio è un uomo che si lascia vincere dalla depressione, e da un cupo pessimismo, che emerge in maniera prepotente nelle descrizioni dell'umanità oppressa dalla paura e dall'angoscia - come abbiamo visto nella descrizione degli inferi - e di un mondo in rovina. Nonostante il suo sforzo di chiudersi in se stesso, di estraniarsi dalla politica, di lasciare agli uomini come Cesare, che invece costruiscono il loro potere su queste paure e su queste angosce, Lucrezio è un poeta del suo tempo e, a suo modo, un poeta politico, perché descrive un mondo dilaniato. E per questo è anche un poeta così incredibilmente moderno. Perché il nostro mondo è sempre più in rovina e noi assistiamo impotenti a questa fine.
O miseras hominum mentes, o pectora caeca!
Qualibus in tenebris vitae, quantisque periclis
degitur hoc aevi quodcumquest! 
Oh misere menti degli uomini, oh animi ciechi! / In quale tenebrosa esistenza e fra quanto grandi pericoli / si trascorre questa breve vita! 

domenica 16 giugno 2019

Verba volant (674): attore...

Attore, sost. m.

E' il 20 ottobre 1953, un poliziotto sorprende due uomini che si stanno baciando clandestinamente in un bagno pubblico di Chelsea. Li arresta: l'omosessualità è un reato nel Regno Unito, in base a una legge emanata ai tempi della regina Vittoria - che sarà abrogata solo agli inizi degli anni Sessanta - e l'allora Segretario di stato per gli affari interni David Maxwell Fyfe, conservatore, ha lanciato una campagna dai forti toni omofobici affinché questa norma sia rispettata e gli omosessuali arrestati, senza eccezioni. Quando l'agente scopre che il "cliente" è una persona famosa, capisce che è il suo giorno fortunato: quell'arresto gli procurerà certamente un encomio. E naturalmente la notizia che John Gielgud è stato arrestato con quell'accusa infamante si diffonde immediatamente, perché è un sir, nominato solo pochi mesi prima, e soprattutto uno dei più famosi attori teatrali della sua epoca.
Ma, come si dice, lo spettacolo deve continuare. Gielgud è in scena a Liverpool, per provare un nuovo spettacolo prima di portarlo a Londra. Il sipario si sta alzando, ma lui non vuole uscire, teme la reazione del pubblico. Nella compagnia c'è la grande Sybil Thorndike, allora già settantenne, una delle più acclamate attrici del suo tempo, la cui interpretazione di Lady Macbeth negli anni a cavallo della prima guerra mondiale è rimasta nella storia. Nel film del 2011 Marylin, in cui si racconta la complicata realizzazione de Il principe e la ballerina, Sybil Thorndike, che recitò in quel film accanto a Olivier e alla Monroe, è interpretata, con una scanzonata franchezza, da una splendida Judi Dench: solo una regina poteva interpretare un'altra regina. Quella sera a Liverpool Sybil, che ha capito perché Gielgud sta così male, lo prende sotto braccio e lo trascina letteralmente in scena, dicendogli: "vieni, caro John, non fischieranno mai me". Quando Gielgud appare sul palcoscenico il pubblico si alza in piedi e gli tributa un lunghissimo applauso, che cancella, almeno per quella sera, ogni preoccupazione dell'attore: il pubblico inglese ama Gielgud e non gli interessa chi lui ami. Comunque sia John Gielgud non supererà mai del tutto quella vicenda: dovrà fermarsi per qualche mese, per una crisi nervosa, e, nonostante il supporto che ha sempre dato privatamente alla causa per i diritti degli omosessuali, non riuscirà mai a prendere una posizione pubblica sul tema né a fare coming out. Per lui sarà sempre una ferita aperta.

Io ho cominciato ad amare John Gielgud grazie ad Assassinio sull'Orient express: sono bastate pochissime scene, un paio di battute fulminanti, il modo in cui Beddoes alza lo sguardo, quel suo contegno così maledettamente inglese, per colpirmi per sempre. E poi mi è capitato di incrociare Gielgud alcune altre volte al cinema, a cui ha regalato, nel pieno della sua maturità artistica, anche se sempre in piccoli ruoli - ma per un grande attore non ci sono mai piccoli ruoli - la stessa compassata misura, la stessa ieratica energia, sia che interpretasse un vecchio professore di musica o un vicere o un papa - i cameo di personaggi storici sono diventati nella vecchiaia una delle sue specialità. Poi l'ho trovato in uno dei pochissimi film che ha interpretato negli anni della prima maturità: nel 1953 è nel cast del Giulio Cesare di Mankiewicz, quello con Marlon Brando, che aveva soggezione quando Gielgud, che interpretava Cassio, era sul set.
Poi, approfondendo un po', ho scoperto che John Gielgud è la storia del teatro inglese del Novecento, insieme a Laurence Olivier e a Ralph Richardson. Credo meriti raccontare qualcosa del rapporto tra questi tre grandi attori, che naturalmente lavorarono diverse volte insieme, anche se tra loro non mancarono tensioni. Erano proprio Gielgud e Olivier a non amarsi troppo, anche se ovviamente si stimavano. Nel 1932 John e Laurence erano stati, insieme a Peggy Ashcroft, i protagonisti di una celebre messa in scena di Romeo e Giulietta, in cui si scambiavano, di settimana in settimana, i ruoli di Romeo e di Mercuzio. E sarà l'ultima volta che lavorarono insieme sulla scena. Ma quando nel 1955 Laurence Olivier, al massimo della sua popolarità, decide di girare una versione cinematografica del Riccardo III, vuole accanto a sé i migliori attori del suo tempo: Gielgud è il duca di Clarence, fratello di Riccardo, Richardson il duca di Buckingham e Cedric Hardwicke re Edoardo IV. Nel cast di quel film c'erano quattro sir, come non facevano mancare di notare i press agent incaricati di pubblicizzare il film. Invece Gielgud e Richardson lavorarono molto spesso insieme, da quando nel 1930 avevano interpretato rispettivamente Prospero e Calibano ne La tempesta. Naturalmente le loro prove migliori le diedero in teatro, soprattutto con Shakespeare, ma recitarono sia in radio - in cui fecero "vivere" Sherlock Holmes e John Watson - che in televisione.
Guardando il lunghissimo Hamlet di Kenneth Branagh, capiamo che Gielgud era qualcosa di più del perfetto maggiordomo, un ruolo per cui ha vinto l'Oscar nel 1981, grazie a un film che, se non ci fosse lui, non sarebbe certo memorabile. Se Branagh, nel realizzare la sua versione integrale del dramma shakespeariano, ha deciso di aggiungere una scena, mostrando la morte di Priamo e il dolore straziante di Ecuba, mentre il capocomico - interpretato da un grande Charlton Heston - recita i suoi versi dedicati alla presa di Troia, e ha affidato queste due "nuove" parti, mute, a John Gielgud e a Judi Dench, il significato mi pare sia chiaro: si tratta dell'omaggio a due riconosciuti maestri.
E nel 1994, per festeggiare i novant'anni del l'artista, tanti attori decidono di mettere in scena un radiodramma in cui John Gielgud torna a recitare uno dei suoi ruoli più simbolici, Lear. Accanto a lui le tre figlie sono Judi Dench, Eileen Atkins ed Emma Thomson e Derek Jacobi, Kenneth Branagh, Simon Russell Beale, Bob Hoskins, Richard Briers e tanti altri partecipano al progetto.
Perché John Gielgud, grazie alle sue rappresentazioni degli anni Trenta e Quaranta, è stato il più grande Amleto del Novecento. I giornali del tempo raccontano che gli altri attori della compagnia, quando non erano in scena, stavano comunque dietro le quinte per guardarlo recitare, consapevoli che stavano vivendo un momento unico della storia del teatro.
Dell'Amleto di Gielgud, oltre alle testimonianze di chi ha avuto la fortuna di vederlo, ci rimangono alcune foto e un radiodramma del 1951, con Dorothy McGuire - la splendida Sylvia di Scandalo al sole - come Ofelia e Pamela Brown nella parte della regina. Forse troppo poco per capire quanto John Gielgud sia stato grande, quanto abbia influenzato gli attori con cui ha lavorato, che lo hanno visto recitare, a cui ha insegnato. Dobbiamo accettare che noi non sapremo mai come è stato il più grande Amleto del Novecento.
È il destino di una generazione di grandi attori, la cui arte noi non potremo mai conoscere e riconoscere. O forse è proprio il teatro a essere così, in qualunque tempo, anche nel nostro dominato da un'apparente riproducibilità tecnica: perché ogni rappresentazione di ogni spettacolo, per quanto sia provato e riprovato, è sempre un unicum, che solo i pochi - e felici - spettatori che proprio quella sera sono andati a teatro possono dire di aver visto. L'arte del teatro è qualcosa di evanescente, che si consuma, qui e ora, in un tempo e in un luogo, nel rapporto tra le donne e gli uomini che stanno di qua e di là del sipario.
E quando Shakespeare fa dire al vecchio Prospero
Noi siamo della materia di cui sono fatti i sogni, e la nostra piccola vita è circondata da un sonno.
forse parla proprio di sé, della sua arte, e del mestiere misterioso dell'attore.
Nel 1991, il quasi novantenne John Gielgud gira il suo ultimo film da protagonista, Prospero's Books di Peter Greenaway. Guardatelo, mentre recita questa battuta, rivolgendosi a noi, a ciascuno di noi, che non abbiamo mai visto il suo Amleto.

venerdì 14 giugno 2019

Verba volant (673): peste...

Peste, sost. f.

A noi, che siamo nati nel secolo di Sigmund Freud, sembra ovvio che Sofocle, parlando di Edipo, parli di noi, di ciascuno di noi, dei nostri problemi, delle nostre paure, dei nostri segreti. Ma di tutto questo al tragediografo nato a Colono importa assai poco.
Scrive e mette in scena quello che noi ci siamo abituati a chiamare, sulla scorta della traduzione latina, Edipo re, ma che lui e i suoi contemporanei chiamavano Οἰδίπoυς τύραννoς, ossia Edipo tiranno, qualche anno dopo il 430, l'anno della peste. E, proprio perché Sofocle è un artista che fa politica, il protagonista della sua tragedia non è un uomo, ma una città. La sua città.
In questa tragedia Sofocle racconta ai sui concittadini - perché un autore del teatro greco non scrive mai per i posteri, ma sempre e solo per i suoi spettatori - che Edipo è l'uomo che grazie alla sua intelligenza ha fatto quanto la sapienza degli indovini non è riuscita a fare: risolvere l'enigma della Sfinge e salvare Tebe. Ma racconta anche che la sua intelligenza non serve a nulla quando gli dei decidono che è il momento di punirlo e allora, in virtù di una drammatica peripezia, Edipo scopre di essere un mortale in balia del destino ed è sprofondato nell'abisso della propria nullità.
Noi di solito dedichiamo alla peste di Atene del 430 qualche breve accenno, per lo più per ricordare che è stata la causa della morte di Pericle. Nei nostri libri di storia raccontiamo la politica e la guerra, non perdiamo tempo con le malattie. Ma è impossibile capire la storia successiva di quella città senza avere in mente cosa ha significato quella terribile epidemia, probabilmente di tifo, che ha causato la morte di almeno un terzo - secondo le stime più basse - della popolazione. Non c'era famiglia di Atene che non avesse avuto un morto a causa della peste. Pensate allora cosa provarono quei cittadini di Atene, quando videro messa in scena una città colpita da quella stessa, mortale, malattia.
E' così che si apre l'Edipo tiranno: Tebe è sconvolta da una pestilenza che sembra non volersi placare. I tebani chiedono al loro re, Edipo, che conoscono come un uomo giusto e intelligente, di fare qualcosa. Ed Edipo li rassicura dicendo che ha già inviato Creonte, il fratello della regina, a interrogare l'oracolo. E quando Creonte, tornato da Delfi, riferisce che la Pizia ha detto che Tebe è colpita dalla peste perché l'uccisore di Laio, che ha preceduto Edipo sul trono, vive ancora in mezzo a loro, il re si impegna a trovare questo assassino e a punirlo. Ed Edipo tiranno è anche una crime story, perché alla fine Edipo scoprirà l'assassino di Laio, anche se Sofocle viola la quarta delle Venti regole per scrivere un romanzo poliziesco di S.S. Van Dine. Ma gli spettatori conoscevano già il finale. E quindi - come in una puntata di Colombo - l'interesse del pubblico non sta nello scoprire il colpevole, ma nel capire come si arriva a quella scoperta. E come il colpevole si tradisce.
E il pubblico ha voce nel corso di tutta la tragedia, attraverso il coro dei vecchi di Tebe.
Nel primo stasimo i vecchi tebani riconoscono che gli dei sanno quello che per gli uomini è destinato a rimanere inconoscibile, ma allo stesso tempo rivendicano che tra gli uomini non possano essercene alcuni che pretendono, in nome di un qualche misterioso potere divino, di saperne di più degli altri. Nella scena precedente è apparso il veggente Tiresia che ha fatto capire, seppur in maniera oscura, di sapere la verità, ma i tebani dicono che è la conoscenza umana che deve guidare le azioni. E' precisamente quello che aveva detto Pericle nell'Epitaffio per i caduti del primo anno di guerra - un testo che è diventato il manifesto di quel regime politico - citando una della caratteristiche peculiari degli ateniesi:
Giudichiamo e riflettiamo con attenzione sulle situazioni, ritenendo che i ragionamenti non siano dannosi per l'azione, bensì lo sia il non prepararsi in anticipo con il ragionamento prima di intraprendere nei fatti quanto è necessario.
Nel secondo stasimo i vecchi tebani condannano il tiranno, ossia colui che ha oltrepassato i limiti, che crede di sapere tutto, ma che proprio per questo è destinato a cadere. Anche qui siamo nel pieno dell'ideologia democratica. Nella scena precedente Edipo abbandona la sua consueta misura per scagliarsi contro Creonte e Tiresia, immaginando che ci sia un disegno per fargli perdere il potere. E l'ira dei tebani è rivolta anche contro Giocasta, che dice allo sposo di non curarsi delle parole del dio: ma in lei non c'è hybris, è che lei ha capito, lei sa - da quando? forse da sempre - chi è davvero Edipo. 
Ma i tebani questo non lo possono sapere. E infatti - nel terzo stasimo - esaltano Edipo perché, tornato l'uomo giusto che essi hanno conosciuto e che rispettano, è ormai a un passo dalla verità. Deve interrogare l'ultimo testimone, quello che gli rivelerà finalmente come le cose sono davvero andate. Questi pochi versi sono centrali nella tragedia perché ci fanno capire quanto il dramma di Edipo sia lo stesso dei suoi concittadini: stanno per cadere insieme, perché Edipo è la città. 
Ed è quello che succede nell'episodio successivo, in cui si svela quello che ormai solo Edipo e il coro ancora ignorano. Nel quarto stasimo - una delle vette dell'arte di Sofocle - i vecchi tebani non riescono a condannare Edipo, anche se hanno scoperto essere lui la causa della loro sventura, non possono far altro che compiangere la sua infelicità, e insieme la loro.
Di felicità non più che un'apparenza hanno gli umani, e anche questa, appena avuta, subito declina.   
Attraverso Edipo, Sofocle mostra che nell'uomo non vi può essere alcuna grandezza se manca il senso del limite e il riconoscimento che ci sono leggi morali, per quanto non scritte, che non possono essere violate.
Ed è ancora Pericle, sempre nell'Epitaffio, a esprimere lo stesso concetto.
Non violiamo le leggi [...] in particolare quelle che sono stabilite per proteggere le vittime d'ingiustizia e quelle che, pur non scritte, portano unanime disonore di fronte alla comunità.
Edipo è Atene nella sua saggezza, nei suoi pregi e nei suoi difetti. Difetti che peraltro Sofocle conosce bene, perché da stratega ha partecipato alla dura repressione contro l'isola di Samo, che aveva tentato di sfilarsi dall'alleanza con la potenza egemone e due anni prima è stato il presidente del collegio degli ellenotami, nell'anno in cui sono stati rivalutati, ovviamente al rialzo, i tributi che gli "alleati" dovevano versare alle casse ateniesi. Sofocle conosce dall'interno i meccanismi per cui il regime democratico ateniese diventa τύραννoς.
Di fronte alla peste è facile lasciarsi andare, e sappiamo che è successo anche ad Atene. E' facile convincersi che, se domani possiamo morire, non ci siano limiti alla nostra intelligenza e alla nostra libertà. Sofocle spoglia Atene della sua superbia, e la sua intelligenza, tanto presuntuosa, viene confutata: gli occhi accecati di Edipo diventano la metafora della cecità della ragione di fronte al mistero del mondo.
Edipo - e ovviamente anche Atene - può redimersi, addirittura salire al cielo come un eroe, soltanto nell'Edipo a Colono, quando, dopo aver errato come un mendico per la Grecia, accetta fino in fondo la sua nullità e allo stesso tempo la sovrumana potenza dell'inconoscibile. Quando capisce quello che i tebani gli hanno detto alla fine del dramma.
Sofocle non ha trasformato Edipo in un determinato personaggio storico, come alcuni critici hanno pensato - e sarebbe stato banale - ma nella stessa città di Atene, colta nella sua grandezza e nei suoi difetti. C'è in Edipo una continua volontà di agire, basata sull'esperienza, ispirata dal coraggio e dal saper fare, espressa nella rapidità e nell'impazienza, ma informata dalla riflessione intelligente, sicura di sé, c'è in Edipo la sfrontatezza ottimistica del dilettante brillante, guastata da un'eccessiva sospettosità e da scoppi improvvisi di ira. Ma questo è anche il carattere di Atene. Le virtù e i difetti di Edipo sono quelli della democrazia ateniese.
Poi spesso sono anche i nostri, di ciascuno di noi, che siamo sempre così pronti a dimenticare i nostri limiti. E' per questo che, dopo duemila anni, nonostante quello che voleva Sofocle, Edipo re parla ancora. Proprio a ciascuno di noi.

mercoledì 12 giugno 2019

Verba volant (672): tessere...

Tessere, v. tr. 

Diego Velázquez è certamente un genio per come dipinge, ma su questo io davvero non so dirvi nulla. E' qualcosa di cui capisco molto poco: posso solo dirvi se un quadro mi piace o non mi piace. Ma è anche un genio - e dei più grandi - per cosa dipinge. E su questo credo invece di potervi raccontare qualcosa.
Osservate il quadro intitolato Le filatrici. In primo piano ci sono cinque donne, variamente intente al loro lavoro. Si trovano in una bottega: c'è una scala, una tenda nasconde un piccolo deposito di pezzi di tela, alcune matasse sono appese alla parete. Chi sono queste donne? Una è più matura - anche se il pittore non rinuncia a ritrarre una gamba che esce in maniera sensuale dalle sue vesti - e aziona la ruota della spolatrice, le altre sono più giovani. Sono tutte e cinque lavoratrici, una più esperta e le altre quattro che stanno imparando? O forse lei è la padrona e le altre sono sue dipendenti? O magari ha già venduto il laboratorio a una di loro e la sta aiutando, nella difficile fase di avvio dell'attività? E in questo caso chi sarà la nuova padrona? Quella con l'aspo o quella che è seminascosta dalla tenda con cui la donna alla spola sta parlando? E se fosse la madre di una di loro? E il gatto? E' lì per caso? Non credo, evidentemente è da molto tempo che sta lì in bottega, tanto da non aver neppure più voglia di giocare con i gomitoli caduti a terra.
Velázquez ci mostra anche un'altra stanza, collegata alla prima, in cui è appeso un arazzo che alcune donne stanno osservando. Siamo in una bottega di tessitura, è naturale che alle pareti sia appesa una tela realizzata da quelle donne: fanno vedere quanto sono brave. Forse tra qualche giorno la persona che ha fatto quell'ordine lo manderà a prendere dai propri servitori per appenderlo nel salone, ma intanto lo fanno vedere anche ad altre possibili clienti. O forse chi l'ha ordinato non l'ha pagato e adesso sperano comunque di venderlo, perché quell'arazzo per loro è un costo, visto le ore di lavoro che hanno impiegato per farlo. E devono venderlo, anche a meno del suo valore. 
Già così il quadro sarebbe bellissimo, ma Velázquez è appunto un genio e cosa rappresenta quella tela? La storia di Aracne, la più grande delle tessitrici. Se quelle donne hanno deciso di realizzare un arazzo unicamente per metterlo in mostra, per una pura azione di marketing, dovendo scegliere un soggetto, hanno pensato di celebrare una di loro. Ma forse è stato Velázquez a scegliere quel soggetto. E come l'ha realizzato, cosa ha voluto raccontare, conta molto, visto che il pittore ha deciso di tradire Ovidio.
E quindi adesso bisogna raccontare quello che racconta il poeta nelle sue Metamorfosi, che naturalmente Velázquez conosceva e che al suo tempo era la versione "ufficiale" della storia. 
Aracne è una giovane donna che vive in una piccola città della Lidia, figlia del tintore Idmone, abilissima nell'arte della tessitura, tanto che dicevano avesse imparato direttamente da Atena. Ma Aracne non è il tipo da accettare queste voci e dice che semmai è la dea a dover prendere lezioni da lei e che è pronta a sfidarla in una contesa. Dopo qualche giorno una vecchia bussa alla porta di Aracne e le consiglia di rinunciare a quella sfida, pronunciata incautamente in un momento di rabbia. Ma Aracne non ha agito d'impulso, è convinta di essere la più brava e sta per cacciare la vecchia, che però lascia le sue misere spoglie e si rivela essere la dea. La contesa può finalmente cominciare: le due tessitrici si mettono all'opera e Ovidio le descrive nella loro fatica, mentre raccolgono la veste, per avere le braccia libere per lavorare più velocemente. 
Atena sceglie di rappresentare un'immagine classica: i dodici dei e la contesa per il controllo della città dell'Attica tra Poseidone e la stessa Atena; una rappresentazione in cui regna l'ordine. Aracne sceglie di rappresentare il disordine, ossia alcune storie in cui gli dei hanno approfittato della loro forza per fare violenza alle donne o alle altre dee. Atena rimane incantata dalla perfezione tecnica del lavoro della sua rivale, che avrebbe meritato la vittoria, ma quel soggetto è inaccettabile, perché mostra le colpe degli dei, e così distrugge la tela. Aracne è disperata e si impicca, ma Atena vuole che la punizione sia più crudele: trasforma la giovane in un ragno, condannandola a filare e tessere per tutta la vita dalla bocca.
Velázquez sceglie il momento in cui la dea si rivela ad Aracne, a differenza di Tintoretto che sceglie di raccontare la sfida o di Rubens che preferisce la punizione. Ma nell'arazzo appeso Aracne ha già realizzato la tela che rappresenta Europa rapita da Zeus sotto forma di toro. Al di là del gioco di rappresentare un arazzo in un arazzo, Atena non è giunta per punire Aracne per la sua hybris, per la sua tracotanza, ma proprio perché ha rappresentato quello che non avrebbe dovuto rappresentare. Naturalmente anche in Ovidio c'è questo tema, perché il poeta sa che in fondo tessere è una forma di comporre e il poeta, come Aracne, deve sempre stare attento a non sfidare le ire del dio. Ma in Velázquez il riferimento è molto più esplicito e non c'è più la colpa di Aracne. Questo quadro è qualcosa di più di un gioco intellettuale, di un quadro in un quadro in un quadro, ma una riflessione sul complesso rapporto tra il potere e l'arte. Aracne viene punita perché ha raccontato la verità, una verità che evidentemente il potere avrebbe preferito tenere nascosta. Ma l'arte - ci dice Velázquez - è rivoluzionaria per natura.
Ma c'è un altro aspetto che mi piace sottolineare e che sono convinto che Velázquez abbia preso da Ovidio. Il poeta dice che i mortali, ma anche le ninfe, andavano nella bottega di Aracne non solo per vedere le sue tele, ma anche per osservarla mentre lavorava, e dedica alcuni versi alla descrizione dei suoi gesti, che racconta con precisione: Ovidio descrive una donna che con tutta evidenza anche lui ha visto lavorare. E così siamo tornati al soggetto del quadro, alle donne che Velázquez mette in primo piano, alle donne che lavorano e il cui lavoro è così bello da meritare dei versi o un quadro. Le filatrici è un quadro sul lavoro - anche quello dell'artista, sempre così a rischio - ma soprattutto su quello delle donne. Il loro saper fare ci salverà: sarà per questo che non glielo permettiamo.

lunedì 10 giugno 2019

Verba volant (671): notte...

Notte, sost. f.

E' il 29 novembre 1932: all'Ethel Barrymore theatre di New York debutta il musical Gay divorce. L'autore delle canzoni è il quarantunenne Cole Porter, che, nonostante il successo del suo precedente lavoro intitolato Paris, è ancora più noto per le cronache mondane e scandalistiche che per merito della sua musica. 

volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie...

domenica 9 giugno 2019

Verba volant (670): arcobaleno...

Arcobaleno, sost. m.

Era il 1939, mentre l'Europa si preparava a combattere una guerra lunga e drammatica - da cui sarebbe uscita profondamente trasformata - in pochi mesi di quell'anno così denso di storia - e di storie - a Hollywood, per una strana congiuntura del destino, si girarono alcuni film destinati a diventare pietre miliari nella storia del cinema.

volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie..

giovedì 6 giugno 2019

Verba volant (669): chimera...

Chimera, sost. f.

Era il Sessantotto, un anno che tanti considerano fatale. Mentre i Beatles incidevano Hey Jude e Lady Madonna, mentre nei juke-box i ragazzi degli Stati Uniti ascoltavano Sittin' on the dock of the bay di Otis Redding, in Italia Gianni Morandi - allora l'eterno ragazzo era davvero un ragazzo - cantava:
Ma se il mio cuore spera
non sarà solo una chimera.
L'amore, caro Gianni, spesso è una chimera. E sarà per questo che non possiamo farne a meno.
Ma facciamo un passo indietro. Chimera è una figura retorica chiamata antonomasia vossianica, dal nome del filologo olandese, Gerhard Johannes Voss, che l'ha codificata. Un'antonomasia vossianica celeberrima dell'italiano, per altro relativamente recente rispetto alla lunga storia della nostra lingua, è quella per cui chiamiamo perpetua una donna che è al servizio di un prete, perché Alessandro Manzoni chiamò con questo nome proprio la serva di don Abbondio. In chimera, passando dal nome proprio a quello comune, c'è anche uno slittamento di senso, come avviene in un altro caso con il termine cicerone.
Una chimera è un'illusione, un sogno ad occhi aperti, un'utopia. E peraltro non è sempre detto che una chimera sia qualcosa di negativo, perché a volte abbiamo anche bisogno di illuderci e anzi vogliamo proprio farci guidare dalle utopie. Qualcuno di noi ha dato il meglio di sé proprio inseguendo una chimera.
E Chimera, quella con la "c" maiuscola? Ne parlano per primi Omero ed Esiodo. Spesso sono solo due che parlano per primi di qualcosa. E' un animale mitico, una capra con la coda di serpente e la testa di leone, dalle cui fauci escono lingue di fuoco. Certo per quegli antichi poeti Chimera era un mostro, figlia di Tifone, il Titano dalle cento teste di drago che combatté contro Zeus, ed Echidna, la bellissima creatura che aveva una coda di serpente al posto delle gambe. Ma non dobbiamo mai fidarci troppo degli antichi poeti; come peraltro di quelli moderni.
E se Chimera, quella vera, quella con la "c" maiuscola, non fosse un'illusione? Chimera è pur sempre una capra - questa parola in greco antico significa proprio capra - un'animale con cui gli uomini - e le donne - hanno convissuto fin dalla notte dei tempi, da cui hanno ricavato latte e formaggio, carni e pellame. E forse c'è stato un tempo che anche Chimera non era un mostro, ma solo la divinità che attraverso la sua triplice forma descriveva il trascorrere del tempo, con le sue tre stagioni: il serpente è il tempo della quiete e della semina, la capra quello del risveglio e della fioritura e il leone quello della raccolta e della vendemmia. E se Echidna non fosse altro che la Grande madre, la divinità femminile del Mediterraneo? Allora la sua creatura prediletta non sarebbe un mostro, ma una presenza benevola in una società femminile e matriarcale.
E infatti Omero ed Esiodo raccontano che Chimera è stata uccisa da un maschio, Bellerofonte, in groppa al suo cavallo alato Pegaso: è il principe azzurro che viene a salvare la fanciulla dal mostro. Ma la fanciulla non vuole affatto essere "salvata", anche perché ha capito benissimo quali sono le vere intenzioni del principe e anzi ama la sua "mostra" - perché naturalmente Chimera è femmina - che la protegge.
E anche Chimera ha generato una figlia, Sfinge, un'altra creatura che i maschi hanno descritto come un mostro, che invece era molto saggia e che non si sarebbe fatta certo ingannare da quel credulone di Edipo. Chimera non è un'illusione, ma un'altra storia che non ci hanno lasciato vivere.
Era il 1914, un anno davvero fatale. Mentre in Europa Joyce e Kafka pubblicano Gente di Dublino e La metamorfosi, in Italia Dino Campana, l'irregolare per eccellenza della nostra letteratura, immagina di incontrare una creatura che chiama Chimera. Una donna? No, probabilmente l'immagine deformata e deformante della sua poesia, che gli sfugge di continuo. Una poesia strana Chimera, che comincia con due parole che racchiudono un'intera poetica: non so.

martedì 4 giugno 2019

Verba volant (668): pigro...

Pigro, agg. m.

Se ci chiedessero di descrivere Il'ja Il'ič Oblómov con un solo aggettivo, useremmo naturalmente pigro. Non senza ragione: credo sia l'unico personaggio della letteratura occidentale che, pur non essendo malato, compare più disteso che in piedi. Eppure sarebbe riduttivo raccontare così il personaggio di Gončaròv: Oblómov ha deciso di essere pigro.
In lui la pigrizia è una forma di difesa. Forse non ne è del tutto consapevole, ma è quello che vuole. Si rende conto che gli altri uomini si muovono, agiscono, prendono decisioni - giuste o sbagliate che siano - vede il suo caro amico Stolz, vede le poche persone che vanno a trovarlo, perfino il suo servitore Zachar in qualche modo agisce. Oblómov sa che anche lui potrebbe fare le stesse cose che fanno gli altri, potrebbe amministrare la sua proprietà, lavorare in un ufficio, fare le cose che fa Stolz - magari meno bene di lui - ma decide che è meglio di no. Qualche critico descrive Oblómov come un bambino che non vuole crescere, io non credo sia così. Oblómov vuole crescere, ma a modo suo, non come vogliono gli altri. Oblómov non rinuncia a diventare adulto, ma vuole rinunciare a un mondo - quel mondo che proprio in quegli anni si cominciò a chiamare moderno - in cui esisti se agisci.
Sono passati centosessant'anni da quando Gončaròv ha pubblicato il romanzo a cui deve la sua fama e il nostro mondo è dominato da quelli come Stolz e soprattutto da quelli come Tarànt'ev, le cui azioni sono tutte destinate a sfruttare e imbrogliare le altre persone. Viviamo in una società in cui Oblómov farebbe fatica a trovare scuse per giustificare la sua ritrosia ad agire: potrebbe controllare cosa succede nella sua lontana proprietà grazie alla rete, potrebbe perfino lavorare da casa, potrebbe farsi portare qualsiasi genere di prodotto, rimanendo sul divano. Oggi non c'è limite a quello che Oblómov potrebbe fare senza alzarsi dal suo letto perennemente sfatto, indossando la sua logora vestaglia. Però sappiamo che Oblómov saprebbe resistere, perché è un eroe, e gli eroi sono più forti di ogni lusinga.
C'è un bel passo in cui Oblómov immagina quello che Stolz gli avrebbe consigliato: viaggiare, leggere i giornali, occuparsi della propria tenuta, acquistare nuova terra, ristrutturare la casa, partecipare alla vita pubblica, in buona sostanza agire. Oblómov è terrorizzato all'idea di cominciare a essere un uomo "normale", eppure sembra sul punto di cedere.
"Ora o mai più! Essere o non essere!". Oblómov voleva alzarsi dalla poltrona, ma il piede non gli si infilò subito nella pantofola, e così tornò a sedersi.
Oblómov ha volutamente mancato quella pantofola, ma il suo autore ama prenderlo in giro. Ed è certamente un'ironia voluta da parte di Gončaròv mettere in bocca al suo personaggio il dilemma di Amleto. Oblómov non ha certamente il physique du role del principe di Danimarca. Ma il suo dilemma è a suo modo perfino più drammatico: mentre per Amleto le opzioni sono vivere o morire, per Oblómov sono continuare a vivere o lasciarsi morire dentro, accettando quella che per lui non può essere vita. Perché una vita il cui unico scopo è fare, e magari arricchirsi facendo - che è quello che cerca di fare Stolz, che è quello che cerchiamo di fare tutti noi - per Oblómov non è vita.
Per questo tutti noi dovremmo leggere o rileggere Oblomov. Anche noi che non possiamo non fare, perché ogni mattina dobbiamo andare a lavorare, visto che dobbiamo pagare il mutuo, le rate dell'auto, le bollette, visto che abbiamo bisogno di quei soldi per vivere. Anche noi che pure un tempo abbiamo avuto l'ambizione di cambiare il mondo e quindi abbiamo fatto tante cose, qualcuna perfino giusta; io ho smesso, ma so che qualcuno di voi ancora coltiva, magari in maniera carbonara, questa ambizione. 
Nonostante tutto, non so se vorrei essere Oblómov, anche se il pensiero mi tenta, immagino che non ne sarei capace. Oblómov non terrebbe certo un blog, perché anche questo alla fine è un lavoro, per quanto un lavoro che faccio volentieri e per cui non ricevo un salario. Però sapere che c'è Oblómov in qualche modo mi rincuora. E' possibile un mondo in cui la vita è un'altra cosa.
Sono tutti cadaveri, uomini addormentati, peggio di me, questi frequentatori del mondo e della società! Che cosa li guida nella vita? Ecco, non stanno sdraiati, ma corrono ogni giorno avanti e indietro come mosche, e a che pro?

domenica 2 giugno 2019

Verba volant (667): diffondere...

Diffondere, v. tr.

Alcuni giorni fa una via di Fiumicino è stata riempita di svastiche e di scritte inneggianti il fascismo: un modo per l'estrema destra di quella città di dire che quello è il "loro" territorio, per marcare platealmente la propria presenza. Un paio di notti dopo alcuni anonimi resistenti hanno coperto quelle scritte con delle poesie: un modo singolare ed efficace per esprimere la loro protesta e per dare un segnale di riscatto civile e morale. I fascisti hanno naturalmente reagito e le poesie sono state coperte con nuove scritte e nuovi simboli. Ma anche i resistenti hanno reagito e a coprire tutto sono arrivate riproduzioni di quadri celebri. Non so cosa succederà nei prossimi giorni: probabilmente i fascisti continueranno ad imbrattare i muri di quella via con le loro svastiche e i loro triti slogan, ma credo che quello che è successo a Fiumicino sia qualcosa su cui riflettere.
Cosa significa essere antifascisti? Io lo sono perché sono comunista, qualcun altro perché è liberale o cattolico democratico: sono molti i percorsi che ci portano a essere antifascisti, percorsi che nascono da idee molto differenti le une dalle altre e che conducono a esiti spesso contrapposti. Io sono antifascista almeno quanto sono anticapitalista, anzi sono antifascista perché sono anticapitalista, ma so che per molti, anche molti di voi che leggete e apprezzate quello che scrivo, non è così. In qualche modo ci definisce quel prefisso anti, ed è un limite oggettivo, perché significa che abbiamo bisogno del fascismo per definirci. E rende più difficile la lotta, perché ciascuno di noi vi partecipa, andando per la propria strada; io ad esempio non sono disposto ad allearmi con un liberale sostenitore del capitalismo solo perché dice di essere - ed è sincero quando lo dice - antifascista. Per me lui sarà sempre un nemico. Ma al di là della mia asocialità politica, il tema è più complesso, perché diventa difficile definirsi antifascisti quando non ci sono più i fascisti. A Fiumicino ovviamente ci sono, come in tante altre parti d'Italia, ma come combattiamo contro i fascisti che non si dichiarano tali, che adesso sono maggioranza? Se non c'è il fascismo, scompare anche l'antifascismo.
Se qualcuno a Fiumicino si fosse limitato a cancellare le svastiche dai muri avrebbe compiuto un'azione coraggiosa, perché naturalmente non è semplice agire contro chi sai che potrebbe picchiare te e la tua famiglia, non è semplice agire in un contesto di violenza diffusa, come è quella imposta da queste bande fasciste in alcune zone del nostro paese, ma non avrebbe fornito una risposta soddisfacente a queste domande. Avrebbe fatto molto, ma non abbastanza.
Invece chi ha coperto le svastiche prima con le poesie e poi con i quadri, chi ha usato la cultura e l'arte contro questa forma violenta di prevaricazione, ci ha ricordato che si è antifascisti prima di tutto quando si fa e si diffonde cultura. Le persone di Fiumicino con quel loro gesto hanno detto una cosa di una semplicità apparentemente banale, ma che pure abbiamo dimenticato: noi con l'arte e la cultura non ci definiamo solo con quell'anti messo davanti a qualcos'altro, ma in maniera positiva. Chi ama il bello e lotta per diffonderlo, chi sa e lotta affinché anche gli altri sappiano, chi legge poesie, chi guarda le opere d'arte, chi ascolta musica - e ovviamente chi scrive, chi dipinge e scolpisce, chi compone musica, chi fa arte e chi la insegna - tutti questi agiscono contro l'ignoranza, che è ciò di cui il fascismo, in tutte le sue forme, si nutre e in cui cresce. Il fascismo si combatte prima che con l'antifascismo con la cultura.
Era il 1924 e quando la casa editrice moscovita Gosizdat commissionò ad Aleksander Rodchenko un manifesto, questi sviluppò un'idea molto semplice: una donna che grida "libri". Quel fotomontaggio, la cui protagonista era l'artista Lilja Brik, è elementare, quasi banale come strumento pubblicitario, eppure è diventato una della immagini simbolo del Novecento, per la sua forza espressiva e per il suo potere evocativo.
A quasi cent'anni di distanza, quel grido chiama in causa anche noi, ogni giorno, così come ha fatto agire le donne e gli uomini che a Fiumicino hanno usato l'arte per combattere il fascismo. Prima di fare politica o - se voi ancora la fate - mentre fate politica, non dobbiamo dimenticare che il nostro primo compito è quello di diffondere il bello, di trasmettere cultura, di offrire alle persone quello che conosciamo, di condividerlo con il maggior numero di persone. Anche se non abbiamo da nascondere delle svastiche disegnate su un muro, dovremmo affiggere poesie e quadri, lasciare in giro libri, aprire le finestre quando ascoltiamo musica, dobbiamo riempire le bacheche dei social di cose belle. E' un gesto profondamente antifascista. Perché rivoluzionario.