venerdì 14 giugno 2019

Verba volant (673): peste...

Peste, sost. f.

A noi, che siamo nati nel secolo di Sigmund Freud, sembra ovvio che Sofocle, parlando di Edipo, parli di noi, di ciascuno di noi, dei nostri problemi, delle nostre paure, dei nostri segreti. Ma di tutto questo al tragediografo nato a Colono importa assai poco.
Scrive e mette in scena quello che noi ci siamo abituati a chiamare, sulla scorta della traduzione latina, Edipo re, ma che lui e i suoi contemporanei chiamavano Οἰδίπoυς τύραννoς, ossia Edipo tiranno, qualche anno dopo il 430, l'anno della peste. E, proprio perché Sofocle è un artista che fa politica, il protagonista della sua tragedia non è un uomo, ma una città. La sua città.
In questa tragedia Sofocle racconta ai sui concittadini - perché un autore del teatro greco non scrive mai per i posteri, ma sempre e solo per i suoi spettatori - che Edipo è l'uomo che grazie alla sua intelligenza ha fatto quanto la sapienza degli indovini non è riuscita a fare: risolvere l'enigma della Sfinge e salvare Tebe. Ma racconta anche che la sua intelligenza non serve a nulla quando gli dei decidono che è il momento di punirlo e allora, in virtù di una drammatica peripezia, Edipo scopre di essere un mortale in balia del destino ed è sprofondato nell'abisso della propria nullità.
Noi di solito dedichiamo alla peste di Atene del 430 qualche breve accenno, per lo più per ricordare che è stata la causa della morte di Pericle. Nei nostri libri di storia raccontiamo la politica e la guerra, non perdiamo tempo con le malattie. Ma è impossibile capire la storia successiva di quella città senza avere in mente cosa ha significato quella terribile epidemia, probabilmente di tifo, che ha causato la morte di almeno un terzo - secondo le stime più basse - della popolazione. Non c'era famiglia di Atene che non avesse avuto un morto a causa della peste. Pensate allora cosa provarono quei cittadini di Atene, quando videro messa in scena una città colpita da quella stessa, mortale, malattia.
E' così che si apre l'Edipo tiranno: Tebe è sconvolta da una pestilenza che sembra non volersi placare. I tebani chiedono al loro re, Edipo, che conoscono come un uomo giusto e intelligente, di fare qualcosa. Ed Edipo li rassicura dicendo che ha già inviato Creonte, il fratello della regina, a interrogare l'oracolo. E quando Creonte, tornato da Delfi, riferisce che la Pizia ha detto che Tebe è colpita dalla peste perché l'uccisore di Laio, che ha preceduto Edipo sul trono, vive ancora in mezzo a loro, il re si impegna a trovare questo assassino e a punirlo. Ed Edipo tiranno è anche una crime story, perché alla fine Edipo scoprirà l'assassino di Laio, anche se Sofocle viola la quarta delle Venti regole per scrivere un romanzo poliziesco di S.S. Van Dine. Ma gli spettatori conoscevano già il finale. E quindi - come in una puntata di Colombo - l'interesse del pubblico non sta nello scoprire il colpevole, ma nel capire come si arriva a quella scoperta. E come il colpevole si tradisce.
E il pubblico ha voce nel corso di tutta la tragedia, attraverso il coro dei vecchi di Tebe.
Nel primo stasimo i vecchi tebani riconoscono che gli dei sanno quello che per gli uomini è destinato a rimanere inconoscibile, ma allo stesso tempo rivendicano che tra gli uomini non possano essercene alcuni che pretendono, in nome di un qualche misterioso potere divino, di saperne di più degli altri. Nella scena precedente è apparso il veggente Tiresia che ha fatto capire, seppur in maniera oscura, di sapere la verità, ma i tebani dicono che è la conoscenza umana che deve guidare le azioni. E' precisamente quello che aveva detto Pericle nell'Epitaffio per i caduti del primo anno di guerra - un testo che è diventato il manifesto di quel regime politico - citando una della caratteristiche peculiari degli ateniesi:
Giudichiamo e riflettiamo con attenzione sulle situazioni, ritenendo che i ragionamenti non siano dannosi per l'azione, bensì lo sia il non prepararsi in anticipo con il ragionamento prima di intraprendere nei fatti quanto è necessario.
Nel secondo stasimo i vecchi tebani condannano il tiranno, ossia colui che ha oltrepassato i limiti, che crede di sapere tutto, ma che proprio per questo è destinato a cadere. Anche qui siamo nel pieno dell'ideologia democratica. Nella scena precedente Edipo abbandona la sua consueta misura per scagliarsi contro Creonte e Tiresia, immaginando che ci sia un disegno per fargli perdere il potere. E l'ira dei tebani è rivolta anche contro Giocasta, che dice allo sposo di non curarsi delle parole del dio: ma in lei non c'è hybris, è che lei ha capito, lei sa - da quando? forse da sempre - chi è davvero Edipo. 
Ma i tebani questo non lo possono sapere. E infatti - nel terzo stasimo - esaltano Edipo perché, tornato l'uomo giusto che essi hanno conosciuto e che rispettano, è ormai a un passo dalla verità. Deve interrogare l'ultimo testimone, quello che gli rivelerà finalmente come le cose sono davvero andate. Questi pochi versi sono centrali nella tragedia perché ci fanno capire quanto il dramma di Edipo sia lo stesso dei suoi concittadini: stanno per cadere insieme, perché Edipo è la città. 
Ed è quello che succede nell'episodio successivo, in cui si svela quello che ormai solo Edipo e il coro ancora ignorano. Nel quarto stasimo - una delle vette dell'arte di Sofocle - i vecchi tebani non riescono a condannare Edipo, anche se hanno scoperto essere lui la causa della loro sventura, non possono far altro che compiangere la sua infelicità, e insieme la loro.
Di felicità non più che un'apparenza hanno gli umani, e anche questa, appena avuta, subito declina.   
Attraverso Edipo, Sofocle mostra che nell'uomo non vi può essere alcuna grandezza se manca il senso del limite e il riconoscimento che ci sono leggi morali, per quanto non scritte, che non possono essere violate.
Ed è ancora Pericle, sempre nell'Epitaffio, a esprimere lo stesso concetto.
Non violiamo le leggi [...] in particolare quelle che sono stabilite per proteggere le vittime d'ingiustizia e quelle che, pur non scritte, portano unanime disonore di fronte alla comunità.
Edipo è Atene nella sua saggezza, nei suoi pregi e nei suoi difetti. Difetti che peraltro Sofocle conosce bene, perché da stratega ha partecipato alla dura repressione contro l'isola di Samo, che aveva tentato di sfilarsi dall'alleanza con la potenza egemone e due anni prima è stato il presidente del collegio degli ellenotami, nell'anno in cui sono stati rivalutati, ovviamente al rialzo, i tributi che gli "alleati" dovevano versare alle casse ateniesi. Sofocle conosce dall'interno i meccanismi per cui il regime democratico ateniese diventa τύραννoς.
Di fronte alla peste è facile lasciarsi andare, e sappiamo che è successo anche ad Atene. E' facile convincersi che, se domani possiamo morire, non ci siano limiti alla nostra intelligenza e alla nostra libertà. Sofocle spoglia Atene della sua superbia, e la sua intelligenza, tanto presuntuosa, viene confutata: gli occhi accecati di Edipo diventano la metafora della cecità della ragione di fronte al mistero del mondo.
Edipo - e ovviamente anche Atene - può redimersi, addirittura salire al cielo come un eroe, soltanto nell'Edipo a Colono, quando, dopo aver errato come un mendico per la Grecia, accetta fino in fondo la sua nullità e allo stesso tempo la sovrumana potenza dell'inconoscibile. Quando capisce quello che i tebani gli hanno detto alla fine del dramma.
Sofocle non ha trasformato Edipo in un determinato personaggio storico, come alcuni critici hanno pensato - e sarebbe stato banale - ma nella stessa città di Atene, colta nella sua grandezza e nei suoi difetti. C'è in Edipo una continua volontà di agire, basata sull'esperienza, ispirata dal coraggio e dal saper fare, espressa nella rapidità e nell'impazienza, ma informata dalla riflessione intelligente, sicura di sé, c'è in Edipo la sfrontatezza ottimistica del dilettante brillante, guastata da un'eccessiva sospettosità e da scoppi improvvisi di ira. Ma questo è anche il carattere di Atene. Le virtù e i difetti di Edipo sono quelli della democrazia ateniese.
Poi spesso sono anche i nostri, di ciascuno di noi, che siamo sempre così pronti a dimenticare i nostri limiti. E' per questo che, dopo duemila anni, nonostante quello che voleva Sofocle, Edipo re parla ancora. Proprio a ciascuno di noi.

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