venerdì 28 giugno 2013

Considerazioni libere (370): a proposito di miliardi che mancano...

A leggere le cronache di questi giorni pare che le sorti nostre e del nostro paese dipendano da due semplici voci di bilancio: l'Imu sulla prima casa e l'aumento di un punto di Iva. Secondo quelli che di mestiere fanno i conti ciascuno di questi due punti equivarrebbe a circa 4 miliardi di euro. Quindi, ammesso che i loro conti siano esatti - e non diventino marchesi nei meandri del bilancio dello stato - con soli 8 miliardi si aggiusterebbe tutto: niente aumento dell'Iva, niente Imu sulla prima casa e finalmente i ristoranti ritornerebbero pieni, come quando c'era lui. Forse questi benedetti 8 miliardi sono importanti per la vita del secondo governo Napolitano, ma visto che a me di questo governo e della sua durata non importa nulla - anzi, prima si chiude questa farsa, meglio è per tutti - credo sarebbe meglio dare un'occhiata ai numeri "veri", ossia a quelli che incidono davvero sulle nostre vite e che sono, purtroppo, un po' più alti di queste mance. Mentre siamo tutti qui a discutere di questi 8 miliardi, mi pare che nessuno voglia ricordare che ogni anno il nostro stato deve riuscire a pagare 80-90 miliardi di interessi a coloro che - e sono in genere banche e istituti finanziari - detengono il nostro debito pubblico. Dall'anno prossimo - e per vent'anni - a questi 80-90 miliardi ne dovremo aggiungere, ogni anno, altri 45-50, per riportare, appunto in vent'anni, il debito pubblico al 60% del pil. Questa autentica mannaia è stata approvata dal parlamento delle larghe intese - in sordina e praticamente senza dibattito - durante i mesi del primo governo Napolitano, ed è stata chiamata con un eufemismo - naturalmente in inglese, perché fa più tecnico - fiscal compact. Si tratta della "tempesta perfetta": a causa della crisi - che ogni anno sarà più grave, proprio a causa di questi provvedimenti - il pil è destinato a calare e quindi il debito a crescere, per cui l'obiettivo di riportare il debito al 60% del pil si allontanerà, anno dopo anno. E' quello che sta succedendo in Grecia e che succederà tra pochissimo anche in Italia, "commissariata" di fatto dalle stesse autorità finanziarie internazionali che agiscono nel paese ellenico.
Siamo destinati a morire di questa cura? A questo punto mi pare di sì; anche perché nell'ex-Pd ha definitivamente vinto la componente non di sinistra - su cui ha ormai messo cappello il "blairiano" Renzi - e perché l'eversore di destra, che tendenzialmente sarebbe contrario all'operazione, è ostaggio dei propri problemi giudiziari e quindi entrambi i partiti sono succubi della minoritaria componente di Napolitano, che, pur avendo sonoramente perso le elezioni, continua a tenere banco. Gli "europei", per essere certi che né l'eversore né un'improbabile rediviva sinistra di governo decidano di cambiare le carte in tavola, hanno poi stravolto - con un vero e proprio colpo di mano - la Costituzione, introducendo l'obbligo del pareggio di bilancio. A questo punto per trovare, ogni anno, i 125-140 miliardi di euro necessari per pagare il nostro debito sarà necessario da un lato introdurre nuove tasse, magari indirette - come l'Iva - che colpiscono tutti allo stesso modo (o il malefico aumento della marca da bollo, che costringe noi poveri ufficiali d'anagrafe a taglieggiare i cittadini, pretendendo 16 euro per un misero foglio di carta), e facendone pagare sempre di più a chi già le paga, e dall'altro lato tagliare senza pietà sulla spesa pubblica, ossia sanità e pensioni, scuola e ricerca, salvaguardia del territorio e del patrimonio artistico. Come accadeva a Cirene, prima che arrivasse san Giorgio, il drago ha sempre bisogno di sacrifici umani, perché - come ci dicono i nostri governanti - a questo "non c'è alternativa". E ormai ci siamo abituati a questo ritornello e pensiamo davvero che l'alternativa non sia possibile. Magari qualcuno spera che arriverà un altro san Giorgio, ma nell'attesa qualcosa dovremmo pur tentare, almeno dicendo, tutte le volte che ne avremo la possibilità - e saranno sempre meno - che non siamo d'accordo e che non lo stanno facendo in nostro nome. Corriamo il rischio di assuefarci a un meccanismo economico che contemporaneamente distrugge senza tregua il tessuto produttivo e mina le istituzioni democratiche. Guardate quello che sta succedendo: da un lato chiudono le imprese, si perdono posti di lavoro, le persone che sanno e che sanno fare vanno in altri paesi, e dall'altro lato diminuisce il ruolo del parlamento, vengono di fatto chiusi i comuni, si ascoltano sempre meno gli elettori, che a loro volta, tendono a disertare le urne. E' una spirale a cui dobbiamo opporci, trovando il modo di fare "resistenza".
Di fronte a una situazione del genere però bisogna pensare a interventi radicali, il maquillage non può più bastare. Ci sono cose che andrebbero fatte, e subito. Va bene rinunciare all'acquisto degli F-35; naturalmente questo significa ripensare completamente alla nostra politica estera e alle missioni militari, perché - come si dice nelle nostre campagne - non si può andare a messa e stare a casa. Va bene rinunciare alle grandi opere, dai sogni irrealizzabili - per i quali però abbiamo già speso troppi soldi - come il ponte sullo stretto ai progetti realizzabili, ma inutili, come la Tav. Va bene tagliare le centomila pensioni oltre i 90mila euro: vorrebbe dire risparmiare 13 miliardi all'anno, basterebbero ampiamente per Imu e Iva. Va bene recuperare davvero l'evasione fiscale. Guido Viale ha calcolato che l'attuale debito pubblico "è meno della somma dell'evasione fiscale e degli interessi sul debito degli ultimi 20-25 anni: e in gran parte, probabilmente, i beneficiari sono gli stessi". Questo è il programma, già scritto, di un futuribile governo dell'alternativa, di un governo davvero di sinistra.
Siamo al punto però che neppure questo programma può essere sufficiente. Bisogna ristrutturare il debito, ossia decidere - insieme a tutti gli altri paesi che sono nella nostra stessa situazione - che questo debito non può essere pagato, nei tempi e nelle forme imposte dalla autorità internazionali. Quindi o paghiamo meno interessi e in più tempo oppure falliamo e non paghiamo nulla. E, insieme alla ristrutturazione del debito, occorre una riconversione che metta al centro l'obiettivo della sostenibilità. Cito ancora una volta Guido Viale:

Tutto ciò richiede produzioni e consumi ecologici e processi che esigono decentramento e ridimensionamento degli impianti, la loro differenziazione in base alle caratteristiche del territorio, la partecipazione ai processi decisionali di maestranze, cittadinanza attiva e governi locali e, soprattutto, riterritorializzazione (cioè rilocalizzazioni): attraverso accordi diretti tra produttori e consumatori o utilizzatori che non annullano certo le funzioni del mercato, ma che le regolano e lo sottraggono, senza cadere nel protezionismo, a quella competitività selvaggia e globalizzata che è solo una corsa verso il sempre peggio.
E' una strada possibile, difficile, ma che potrebbe portarci fuori dalla catastrofe: l'unico modo per uccidere alla fine il drago.

mercoledì 26 giugno 2013

"Cicogne lunari" di Ahmet Haşim


Cicogne colpite dalla luna lattea, una silenziosa riunione di cicogne,
contemplano uno stagno in tranquilla assemblea.

Il cielo è una laguna appesa stasera, profonda ed alta,
e punteggiata da milioni di moscerini azzurri.

Cosa sono gli uccelli che pescano laggiù e
beccano gli aerei moscerini in scie luminose?

Le cicogne meditano queste domande in silenziosa assemblea?
Colpite dalla luna? Vicino allo stagno? Nella notte?

mercoledì 19 giugno 2013

Considerazioni libere (369): a proposito di #occupygezi...

Per chi - come me - ha una passione profonda per la cultura e per il pensiero del mondo antico, la Turchia non è un paese lontano, ma uno dei luoghi dove è nata la nostra civiltà. L'ho scritto in una "considerazione" di qualche tempo fa, ma credo sia utile ricordarlo. Il primo filosofo e il primo storico della tradizione occidentale sono due greci, Talete ed Ecateo, nati entrambi a Mileto, le cui rovine sono a cinque chilometri a nord della città turca di Akköy. Uno degli uomini che ha fondato la religione cristiana è un ebreo, cittadino romano, nato nella città di Tarso, nell'attuale provincia turca di Mersin. Uno dei testi più importanti della nostra letteratura è un poema che racconta la storia della guerra per una città, le cui rovine si trovano sulla costa turca. Per queste e per molte altre ragioni io mi sento turco, allo stesso modo per cui mi sento greco: perché sono europeo. E per questo, al di là delle complicate vicende diplomatiche che hanno ora avvicinato ora allontanato quel paese dall'Unione europea, io penso che ne debba far parte, perché fa già parte dell'Europa, pur con caratteri del tutto peculiari. E poi c'è un altro motivo che - credo - dovrebbe spingerci ad auspicare l'ingresso della Turchia nell'Unione, un motivo, questa volta, tutto rivolto al futuro. La Turchia è un paese di prevalente religione islamica e l'Europa deve imparare a riconoscere anche quella religione tra i propri elementi fondanti, perché ormai molti cittadini europei sono musulmani e perché la nostra cultura è da sempre in contatto con la loro, in maniera feconda, anche quando abbiamo combattuto gli uni contro gli altri. Naturalmente proprio perché auspico l'ingresso a pieno titolo della Turchia nell'Unione europea, ho più volte criticato il governo di quel paese, per molte e valide ragioni. Ne cito alcune, richiamando anche le "considerazioni" in cui ne ho parlato: la legge in Turchia non tutela i bambini e infatti ci sono norme che hanno consentito di arrestare, mettere sotto processo e condannare centinaia di minorenni (la nr. 181); tutela ancor meno le bambine, visto che nel 37% dei matrimoni registrati le spose sono minorenni (la nr. 172). Il governo turco utilizza in maniera spregiudicata le risorse naturali: Erdogan ha progettato un sistema di dighe sugli alti corsi del Tigri e dell'Eufrate, che da un lato toglie questa preziosa risorsa ai paesi che stanno a valle di questi storici fiumi, e dall'altro è destinato a distruggere il territorio dei curdi (la nr. 75). Non serviva la repressione violenta contro i manifestanti del Gezi park per farci conoscere il vero volto del primo ministro turco, che per anni è stato considerato dai governi europei un interlocutore affidabile e moderato, uno di cui potersi fidare, ma che non ha mai fatto mistero del proprio stile autoritario di governo e soprattutto di una visione che tende a escludere una parte del paese, in nome del ritorno a una religione tradizionale, chiusa, antimoderna.
Per queste ragioni in questi giorni ho cercato di seguire quello che succedeva in quel paese, ho voluto esprimere la mia solidarietà verso quel popolo resistente, ho condiviso foto e messaggi, ho raccolto in questo blog alcune poesie di autori turchi che, pur non avendo nessuna attinenza con le proteste di questi giorni, mi sembravano descrivere la forza e la passione di quel popolo (le trovate sotto queste due "etichette": Hikmet e Turchia). E voglio continuare a farlo, perché credo che la protesta non sia finita e che quel popolo continuerà a resistere, perché - come ha giustamente detto Martin Schulz: "forse la Turchia è matura per l'Europa, ma non lo è Erdogan"; il popolo di Gezi park è certamente maturo per l'Europa, occorre vedere quanto l'Europa sia matura per quel popolo, come per noi.
E infatti io in questi giorni ho criticato - e critico - duramente il governo del mio paese per il silenzio colpevole con cui ha osservato - e osserva - quello che sta succedendo. Ovviamente non mi aspettavo nulla dalla destra, non solo perché B. è amico personale di Erdogan e testimone di nozze del figlio, ma perché la destra in tutto il mondo reprime le manifestazioni di piazza, più o meno brutalmente. Speravo che qualcuno nel centrosinistra di governo si ricordasse che un tempo era stato internazionalista, ma evidentemente è un ricordo troppo lontano e quindi si sono tutti piegati alla Realpolitik, condannandosi al silenzio e all'ignominia; anche per questo vile silenzio dell'ex-Pd la mia strada non potrà mai più incrociarsi con quella di quel partito. Vergognoso poi è il caso del sedicente ministro degli esteri italiano che da paladina dei diritti umani, da pasionaria del movimento femminile, è diventata fedele cane da guardia dell'ordine costituito.
Noi dobbiamo capire cosa è successo a Istanbul, ad Ankara e nelle altre città turche. Proprio la storia particolare di quel paese, il suo essere ponte tra l'oriente e l'occidente, danno a quelle proteste un carattere particolare, facendole essere allo stesso tempo una delle "primavere arabe" e una protesta sullo stile di OccupyWallstreet, e probabilmente riuscendo a essere qualcosa di nuovo e di totalmente diverso da questi due modelli.
Forse la cosa più importante è che da qualche anno, ormai in maniera regolare, esplodono improvvisi nel mondo dei movimenti giovani e urbani, che all'apparenza non hanno nulla in comune tra loro. Ci sono stati il movimento degli indignati nelle città occidentali, le "primavere" arabe, la protesta degli aceri in Québec, i cortei russi contro i brogli elettorali, oggi ci sono le manifestazioni in Turchia e in Brasile. Le cause scatenanti sono sempre differenti e molto diversi sono il contesto storico, economico, sociale e culturale. La disoccupazione e la povertà dei giovani tunisini ed egiziani non esiste in Turchia. Il Canada è sicuramente un paese democratico, mentre la Russia non lo è. L'economia brasiliana è in una fase espansiva, mentre quelle europee sono ripiegate su se stesse. Eppure questi movimenti si somigliano. Non ci sono leader riconosciuti, anche perché non ci sono riferimenti ideologici chiari. Sono spontanei e nessun partito è stato in grado di parlare con loro; emblematico è il caso degli indignados spagnoli, la cui protesta è stata una delle cause della sconfitta dei socialisti. A protestare sono per lo più i giovani, che ricevono le informazioni e formano parte della propria cultura nella rete; e la rete è uno degli strumenti che è servito a catalizzare la loro protesta, sui social network e attraverso sms e mail. In tutti questi movimenti si è rapidamente passati dalla rete alla piazza, in una concretezza che sembrava svanita negli anni recenti. Forse è una generazione che rappresenta un fenomeno nuovo. La rivoluzione industriale ha contribuito a creare il movimento operaio e oggi le nuove tecnologie forse stanno creando un movimento nuovo, capace di modificare il panorama politico. Probabilmente questa è una mia speranza, la tentazione di essere - per una volta - ottimista, ma penso che la sinistra possa trovare lì, in questi movimenti, una nuova linfa, nuove idee. In Italia, ad esempio, l'ultima "cosa di sinistra" che siamo riusciti a fare è stata la mobilitazione referendaria per l'acqua pubblica, poi qualcuno si è venduto al nemico, altri si sono arresi, moltissimi ci siamo dispersi.
Questi movimenti nascono perché è finito il mondo di prima e non è ancora nato quello dopo. La "guerra fredda" sicuramente è finita e con essa l'equilibrio che ha resistito per quasi mezzo secolo, ma non c'è un nuovo equilibrio internazionale. Anche quello che apparentemente è il vincitore della "guerra fredda" non riesce ad avere il monopolio culturale dell'occidente, e non mi sembra un caso che in fondo i movimenti più vitali di questa protesta nascano proprio fuori da esso, nelle "primavere" prima e adesso in Turchia. Anche la sinistra deve profondamente interrogarsi, lo deve fare il campo socialista o riformista o come lo volete chiamare; c'è un vuoto politico in questo momento e questi movimenti di protesta, seppur confusamente, lo stanno riempiendo. Anche senza rendersene conto. La speranza è che arrivi, a un certo punto, la consapevolezza di questo ruolo, che questa generazione deve assumersi. Mi farebbe piacere se arrivasse dalla Turchia.

lunedì 17 giugno 2013

"L'iniettore" di Seyhan Erözçelik


I pesci si scontrarono contro l'albero, sparirono
le squame, dalle radici alla sommità si disegnò una traccia d'acqua.
Le foglie sono impazzite? Chi ha tagliato le nubi
con il pugnale del tempo passato?

Ruggine schizzava dalle nuvole, ruggine
schizzava dalle nubi alle mie vene
più sottili.

Mondo ingabbiato al singolo dettaglio
mon coeur! Sogni che ho annodato a lampadine…

Ho tagliato le nubi con un coltellino spuntato.
Si sono aperte. Nessuno ci ha creduto.

domenica 16 giugno 2013

Considerazioni libere (368): a proposito di una mezza vittoria...

Marino ha vinto: viva Marino. La gioia di veder piangere lo sconfitto Alemanno - che vorrei tornasse  nelle sedi sotterranee consone alla sua genia, ma che immagino troverà qualche più comodo incarico - non può far velo sul fatto che si è trattato di una mezza vittoria. Commento con qualche ritardo l'esito di questo turno di ballottaggio, perché oggettivamente credo che in questi giorni sia più importante quello che avviene in Turchia e che ho cercato di accompagnare in questo blog non con delle mie riflessioni - non sono ancora pronto - ma con le parole di alcuni poeti di quella terra, a cominciare dal grande Nazim Hikmet.
Per tornare all'Italia, dunque, da domenica scorsa le prime dieci città per numero di abitanti sono governate tutte da esponenti del centrosinistra; vado a memoria - e quindi potrei sbagliarmi - ma credo non sia mai successo nella storia di quella che ci siamo abituati a chiamare "seconda Repubblica", ossia quella stagione politica nata vent'anni fa, dopo la fine della "guerra fredda" e, di conseguenza, la fine o la trasformazione dei tre grandi partiti di massa della Costituente. Per altro uno degli elementi che caratterizzò la nascita della seconda Repubblica fu la tornata elettorale amministrativa in cui vennero alla ribalta molti nuovi sindaci, grazie alla legge elettorale che ne introduceva l'elezione diretta. A Milano venne eletto Marco Formentini, il primo leghista ad assumere un incarico istituzionale di quel livello, a Roma venne eletto il verde Francesco Rutelli - arrivato al ballottaggio con Gianfranco Fini, allora ancora segretario del Msi, anche in questo caso il primo di quel partito, fino a quel momento tenuto ai margini della vita politica, a raggiungere questo obiettivo - a Venezia venne eletto il filosofo Massimo Cacciari, a Palermo l'esponente della Rete Leoluca Orlando. Allora c'era nell'aria un certo ottimismo e sembrava che tutto dovesse cambiare in meglio - anche grazie a questo nuovo protagonismo delle città e dei loro rappresentanti - poi è cominciato il buio del lungo ventennio berlusconiano, di cui sconteremo gli effetti nefasti per ancora molto tempo. Quel rinnovamento sperato è mancato anche per colpa delle persone che l'avrebbero dovuto fare: non è normale che Orlando sia tornato a essere sindaco a Palerno, come Cacciari di Venezia: troppo spesso quei sindaci sono diventati piccoli sultani di provincia. Le elezioni politiche di febbraio e queste ultime amministrative hanno segnato invece la fine anche di questa ingloriosa seconda Repubblica. Non mi sembra di vedere in giro lo stesso ottimismo e lo stesso entusiasmo di vent'anni fa. Comprensibilmente, perché la stagione che sta per cominciare sappiamo già che sarà peggiore - se possibile - di quella che ci siamo lasciati alle spalle; non abbiamo neppure l'illusione, questa volta.
C'è un curioso paradosso nelle vicende di questi mesi. Il partito di B. - e il ragionamento vale anche per il suo fiacco satellite, la Lega di Roberto Maroni - è un partito che esiste - o che resiste - a livello nazionale, mentre è sparito a livello locale - emblematico è il caso di Treviso - invece il suo principale antagonista, che in questi anni ha cambiato nome alcune volte e ora si chiama Pd, non esiste più a livello nazionale - o meglio fatica moltissimo a resistere - mentre stravince a livello locale. Fa sorridere quindi il nuovo ex-segretario di quel partito che, dismesso per un giorno il tono funereo che lo contraddistingue, ha cominciato a fischiettare, forse convinto di aver vinto davvero le elezioni; se si accontentano di vincere così, perdendo milioni di voti, non hanno capito molto, e naturalmente domani possono essere di nuovo sconfitti, perché una vittoria di questo genere è fragile come un castello di carte. Evidentemente questo paradosso è il segno che il bipolarismo che è stato l'elemento caratterizzante di questi vent'anni è finito. Ed è finito male. La fine di questa stagione si è accompagnata con la crescita dell'astensione, oltre il livello di guardia, e con il fenomeno del Movimento Cinque stelle, destinato a ballare un solo giro per poi tornare a fare tappezzeria. Questa disillusione, raccolta nel non voto o dispersa nel voto a Grillo e ai suoi illusi adepti - spesso purtroppo per loro in buona fede - è tutta lì ed è destinata a crescere, a disposizione del prossimo movimento populista capace di smuoverla. Una parte di questi rancorosi - per fortuna sono in diminuzione, anche se molto lenta - aspetta il ritorno di B.; altri sono lì che aspettano un nuovo inizio fatto di insulti e volgarità - è una parte del voto leghista passato direttamente dal medio di Bossi ai vaffa grilleschi. Comunque tutti costoro, qualunque sia il loro sbocco, sono destinati a rimanere lì, in questa sorta di limbo elettorale. Anche perché nel frattempo, con una certa velocità e con forte determinazione, è nata la "terza Repubblica", che degli elettori non sa bene che farsene: anzi meno sono, meglio è. Il sacerdote di questo elitismo della politica è l'anziano ed eterno inquilino del Quirinale, attorniato da tutti i suoi saggi di corte. Bisogna fare le riforme istituzionali? Chiamiamo un gruppo di saggi. Bisogna fare delle proposte sull'economia e sul lavoro? Chiamiamo un altro gruppo di saggi, che peraltro sono sempre gli stessi, riciclati con nuovi titoli accademici. E' la repubblica della saggezza quirinalizia e della pacificazione nazionale, incarnata dal giovane Letta, nipote del vecchio Letta, ossia - per parafrasare una vecchia formula - la pacificazione in una sola famiglia.
Sarà molto difficile uscirne, quasi impossibile, perché noi italiani non abbiamo la capacità di arrabbiarci e di dimostrare che hanno avuto in questi giorni i greci e i turchi. Sbaglia quel personaggio di Mediterraneo che dice "italiani, greci, una faccia, una razza"; noi ci siamo ormai assuefatti a questo stato di cose, abbiamo accettato la svolta autoritaria che Napolitano e chi per lui ha ha voluto dare alla nostra Costituzione e che sarà sancita dalle prossime riforme costituzionali, fatte naturalmente dal solito gruppo di saggi pacificati. Una parte del centrosinistra di questo paese è perso nel dibattitto pre e post-congressuale dell'ex-Pd, una parte aspetta una palingenesi, magari affidandosi a qualche vecchio saggio - perché i saggi li abbiamo anche noi, naturalmente. Io, come sapete, ho grande rispetto per la figura, il pensiero e l'azione di Stefano Rodotà, ascolto con attenzione le sue parole e cerco di diffonderle, ma sinceramente credo sia un errore personalizzare - come mi pare che da qualche parte si voglia fare - su di lui la rinascita della sinistra in Italia; credo che lui per primo non voglia questa deriva personalistica, che finirebbe per cadere nell'errore che vogliamo combattere. La sinistra che vogliamo rifare - se ne avremo la capacità - dovrà essere plurale, o non sarà, e quindi non si può partire dal leader. Si deve partire dalle idee e dalla cose. Anche dalle battaglie, ce lo stanno insegnando le donne e gli uomini della Turchia che, partendo dalla difesa di un parco di Istanbul, provano a difendere un'idea di società e di cultura. Aspettiamo il nostro Gezi park.

sabato 15 giugno 2013

"La morte prende le stelle della notte per ferite con le croste" di Gökçenur C.

La morte gestisce una bottega al Gran Bazar, in via Fesçiler,
La morte crede che una parola inglese ogni tanto faccia molto cool,
La morte cerca di nascondere a tutti l'esistenza di zebre candide,
La morte fa un giro di backgammon con il tempo,
La morte sussurra la formula della bellezza all'orecchio dei cavalli,
La morte muore di paura perché non sa il suo vero nome,
La morte ha gli occhi grigi, non lo ricorda ma un tempo erano blu,
La morte parla agli uccelli, suoi unici amici, senza capirli,
La morte ama più di Siddharta la puttanella dei giardini di gelsomino, Yosadhara,
La morte sogna di sommare previdenza sociale, previdenza aggiuntiva e andarsene in pensione,
La morte, lucciola bionda, impara qualcosa da chiunque tocchi,
La morte non gradisce l'idea di trasferirsi in campagna,
La morte dice a Cüneyt ho visto tuo padre sta bene e ti bacia,
La morte tiene un diario ma non segna le date,
La morte dona ai partenti del defunto mantelli di oblio,
La morte non prende sonno la sera se prima non beve, preferisce la sambuca all'anisetta,
La morte è una creatura abitudinaria, si spazzola i denti col sale,
La morte fa un prestito per saldare il debito della carta di credito,
La morte fa un lavoro che non ama,
La morte colleziona cartoline del castello di Van,
La morte prende le stelle della notte per ferite con le croste,
La morte ce l'ha a morte con Dio ma prima di dormire non esita a recitare tre kulluvallah e una fatiha,
La morte sottolinea i suoi passaggi preferiti,
La morte perde le staffe con chi chiede "perché io?",
La morte ormai non si vergogna più di piangere,
La morte si è confusa tra noi, e come uno di noi tira a campare.

venerdì 14 giugno 2013

"Senza titolo" di Gonca Özmen


Immagina un uccello sulla tua spalla,
ho lanciato un sassolino sulla sua smemoratezza
fiammiferi sulla tua assenza

Andando avanti ci si scopre somigliare sempre più
a cose luminose, al loro pigolio

Una rosa dei venti ruota nella nostra bocca senza posa
Una zebra si lancia via da me

giovedì 13 giugno 2013

"Predizione" di Enis Batur


Natura morta che batto appoggiato
sul suo varco: arrivò una zingara
la notte, mi aprì le mani e una lunga,
serena pioggia le cadde sul viso:
"Passa tutto, ma tu non passi".

La mia stanca unicità nutrita nel rifugio:
io, crudele incrinatura, dialetto d'incendio
originario d'acqua e resina: passa tutto
ed io rimango.

mercoledì 12 giugno 2013

"Un amore ad Istanbul" di Cuneyt Ayral



Ti mostrerò una foto
presa sotto la finestra rossa
sulla baia. Adesso
non esiste più.

Quell'edificio con quella finestra
fatta a croce
da un mastro cristiano dei giannizzeri.
Ecco! Adesso dove sorge quell'edificio
era il posto dove un marinaio genovese
perse la sua amata...
l'amata formosa dai larghi fianchi
nel porto di Venezia.
Lì si sedette a gambe incrociate
e pianse per lei calde lacrime.

Ti penso sempre
in questa stradina di Galata...
dov'è la casa rossa semidistrutta.

Dalle antiche case di Istanbul
che credevo fossero a Ziverbey
mentre guardavo le donne
che dalle grate dell'harem
mi osservavano
con occhi stupiti ed innamorati
pensavo
eri forse tu sotto altre sembianze?

Dal trenino dei pendolari
pende un drappello di bambini senza biglietto
contadine truccate nei sottopassaggi
delle stazioni
e mentre il treno passa
sguardi da quella casa
eri forse tu sotto altre sembianze?

Era questa l'Istanbul
che amavo
dalla salita di Haci Osman
alla collina.

Come un amore nascosto
Ali ama Ayse
scritto su muri di fuoco
dove le barche si annientano.

Questa Istanbul
su una foto firmata
studio de La Rose Noire
a Nektar
nel 1940
mentre osservo la strada
il mio amore finisce.

Questo amore appartiene a questa terra
ha un significato profondo
è giovane selvaggio
sui marciapiedi stanchi.
Sul tardi dal ponte di Galata
si intravede il Corno d'Oro
e si sognano fantastiche bellezze ottomane.
Nel caffè del mattino a Shishane
tra ragazze che vanno a scuola
gelose del venditore di pane fresco al sesamo
amo gustare il gevrek croccante
ne ho nostalgia.

Ho nostalgia dei tuoi baci
sul battello per Uskudar
baci dati davanti ai vagabondi
di Tophane
baci dati
fino a sazietà.

Questo amore appartiene a questa terra
è filtrato in un alambicco
sulle stanche tavole dei bistrot...
ore tarde a Beyoglu
con Anuska, Ayse, Marika.

Ho nostalgia
dei tuoi baci sul vaporetto per Uskudar
di baci dati fino a sazietà.

12 maggio 1979.
Forse c'era una donna
forse eri tu
ti sono corso dietro
ispirazione? Non so
non mi sentivo sconfitto nella passione.
Bevemmo il nostro ultimo té
alla pasticceria Marquis,
eravamo di fronte ma non ti vedevo.

Con una tazzina di caffé in mano
nel vecchio Park Hotel
osservammo come veniva demolito
l'antico Caffé Shark.
Ti racconto dell'Istanbul di un tempo
su foto stanche d'esser troppo baciate
e delle stradine secondarie di Pera
testimoni di storie scritte e non scritte.

Manifesti infuocati
di giovani aitanti di Beyoglu
e di donne hollywoodiane
popolarissime a Fatih.
Quanto è penetrante quanto è dolce
l'aroma intenso delle mandorle fresche
sparso sulle colline di Beykoz.

Quante passioni
quante navi che passano
lungo il porticciolo di Besiktas!
Istanbul è piena di felicità
come per me è felicità l'amarti

Uscirono dal Tunnel
e non guardarono avanti.
Non videro neanche Narmanli
ed oltrepassarono assenti
Fikret Mualla.

Si gustarono un lahmacun
nel locale Mimosa che risale al 1933 
incontrarono donne ben truccate
imbelletate
e forse perfino con la minigonna
più in là tra i rifiuti
una fisarmonica del '43 forse una Honer.

Giunsero infine a Taksim
lasciandosi indietro una strada sconnessa

''Questi marciapiedi pietrosi e rovinati
non si possono più riparare''.

Si abbracciavano dappertutto
uomini disperati del 1988
Istanbul era in rovina!

Ti aspetto a Beyazit
sotto il grande platano
e mi sorseggio il té
o mi faccio un giro
nei negozietti di libri di seconda mano
per cercare una poesia che ti si addica.

Calzolai albanesi
i mercanti di contrabbando
in una città di oziosi.

Ho tra le mani una rosa
rossa come le tue labbra.
A Taksim sotto l'orologio
tra le cartoline color seppia.

È lì che ti aspetto
tra le prostitute debosciate
e vecchie
nella città di chi fa sottaceti

È lì che ti aspetto
al porticciolo di Bebek
di fronte alla Moschea
mi trovo ad interrogare i gabbiani
sempre presenti.

Ho nostalgia di te.

Poi in quella stessa Istanbul
nel mattino incombente
con un silenzio eterno
a Beyoglu
ci uniamo alle ''danze di Istanbul''.
Le nostre mani si toccano per la prima volta
e ci scambiamo sguardi timidi
nell'Istanbul che ci avvolge e ci prende.

Mentre gli artigiani a Shishane
chiudono gli scuri dei negozi
al calar della sera
le passioni entrano nel silenzio e
si allontanano dal chiasso delle danze.
Il movimento continua.
Con chi, veramente?

Verrà un giorno in cui
il grande platano di Arnavutkoy parlerà?

''I tassisti di Istanbul sono talmente esperti
che riescono a guidare sull'acqua,
Pachas e vecchi vizir conoscevano bene
il gusto dello sgombro alla griglia con il raki''.

Poi Markiz comincia ad urlare
e scuote le mura che nessun
uomo era riuscito ad abbattere!

''Non ve la prendete! Basta!
Bruciate, cadete in rovina..."
ma non scrivetelo...
Senza il Pietrogrado, e il Libano
e chi veniva da me ed oggi è morto,
non è più la stessa cosa...

lunedì 10 giugno 2013

Considerazioni libere (367): a proposito della riduzione dell'orario di lavoro...

Non so voi, ma io ho l'impressione che Keynes sia molto più citato - non so quanto a proposito - che effettivamente conosciuto: da alcuni è sventolato come una bandiera e da altri rifiutato, come un uomo di un passato ormai superato e da non rimpiangere. Personalmente non ho particolari competenze in campo economico - anzi per me è una disciplina decisamente oscura - e vorrei saperne e capirne di più, visto il ruolo che l'economia gioca ormai nelle nostre vite. Provando a cercare in rete i testi più noti dell'economista di Cambridge ho trovato alcuni estratti di un suo articolo intitolato Prospettive economiche per i nostri nipoti, che è la trascrizione di una conferenza tenuta a Madrid nel 1930. Ecco un passaggio su cui mi sembra utile riflettere.
I miglioramenti tecnici nei settori manifatturiero e dei trasporti sono proceduti negli ultimi dieci anni con tassi molto superiori a quelli registrati precedentemente nella storia. […] Nel giro di pochissimi anni, intendo dire nell'arco della nostra vita, potremmo essere in grado di compiere tutte le operazioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero con un quarto dell'energia umana che eravamo abituati a impegnarvi. Per il momento, la rapidità stessa di questa evoluzione ci mette a disagio e ci propone problemi di difficile soluzione. I paesi che non sono all'avanguardia del progresso ne risentono in misura relativa. Noi, invece, siamo colpiti da una nuova malattia di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera.
Se questo ragionamento valeva per il decennio tra il 1920 e il 1930, cosa dovremmo dire adesso, dopo la rivoluzione informatica? Keynes leggeva questo progresso come una dinamica positiva della storia dell'uomo, tanto da immaginare che dopo un secolo gli uomini avrebbero lavorato molto meno di quanto avveniva nella sua epoca: soltanto "turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici". E' passato ormai quasi un secolo dalla conferenza di Madrid e, con tutta evidenza, siamo ancora piuttosto lontani da quell'obiettivo, nonostante gli attuali progressi della scienza e della tecnologia sarebbero apparsi a Keynes come un racconto di fantascienza. Seguendo il ragionamento di Keynes, potremmo pensare che la disoccupazione non sia una sorta di calamità - come troppe volte siamo portati a pensare o meglio come ci fanno pensare - ma un elemento imprescindibile dello sviluppo economico capitalistico. Ossia non è soltanto colpa della crisi - che certo ci ha messo del suo - se adesso c'è un livello così alto di disoccupazione, specialmente giovanile, ma si tratta di un elemento inevitabile dei processi economici come si sono sviluppati fino ad ora. Vedete chiaramente che accettare questa tesi cambia in maniera radicale la prospettiva con cui possiamo affrontare un tema fondamentale come quello del lavoro e specialmente della sua mancanza.
Nella sua lunga e gloriosa storia il movimento operaio europeo ha lottato in maniera costante per la riduzione dell'orario di lavoro. Nelle rivoluzioni europee del 1848, ad esempio in Gran Bretagna e in Francia, l'obiettivo era quello delle "10 ore"; nel Regno Unito le Trade unions riuscirono a imporre proprio in quell'anno questo limite, almeno per il lavoro dei bambini, mentre al di là della Manica uno dei primi provvedimenti del governo controrivoluzionario di Cavaignac fu quello di riportare la giornata lavorativa a 12 ore. Nel 1890 la Seconda Internazionale impose la parola d'ordine delle "8 ore", un risultato che si raggiunse soltanto nel periodo tra le due guerre - in Italia la legge fu varata del 1923 - proprio quando Keynes faceva le riflessioni da cui sono partito. Da allora di fatto la situazione è rimasta sostanzialmente immutata, nonostante la tecnologia sia progredita in maniera imprevedibile. Soltanto in Francia, quando capo del governo era il socialista Jospin, è stata varata una legge per la riduzione del lavoro settimanale da 40 a 35 ore. Contro quella legge si è scatenata una battaglia ideologica molto dura, di cui sono stati protagonisti gli industriali francesi e i grandi mezzi di informazione; la pesantissima sconfitta di Jospin alle presidenziali del 2002, arrivato terzo dietro il fascista Le Pen, è stata una battuta di arresto anche per questa legge, che in questi anni è stata superata di fatto, o attraverso delle trattative aziendali o con l'utilizzo degli straordinari. Quella legge è ormai mal tollerata dalla sinistra riformista francese, che non è certo più disposta a battersi per la sua applicazione né tantomeno viene presa da modello dagli altri partiti della sinistra di governo in Europa: troppo poco moderna, troppo di sinistra. In Germania, alla Volkwagen e in qualche altra industria automobilistica, c'è stato un accordo per le 36 ore settimanali, ma ovviamente non si è trattato di una battaglia fatta propria dalla sinistra e soprattutto è stato un accordo legato a quel preciso settore industriale, finalizzato a risolvere un problema di produzione in una fase delicata del mercato automobilistico. In sostanza è passato circa un secolo, ma l'orario di lavoro - dove è regolamentato e quindi escludendo gran parte del pianeta - non è certo quello incautamente profetizzato da Keynes, ma soprattutto è rimasto quello di quegli anni, anche se la produttività, come l'economista aveva in questo caso giustamente previsto, è enormemente aumentata, con la riduzione dell'energia umana impiegata per unità di prodotto. Questo incredibile aumento di produttività ha alimentato i profitti e le rendite, visto che la quota destinata ai salari nel pil è scesa in tutti i paesi occidentali in questi ultimi vent'anni: in sostanza il nostro lavoro produce più ricchezza, ma di questa godono solo alcuni e certamente non noi. L'impoverimento da un lato e la necessità di mantenere comunque costante la domanda ha comportato la crescita del debito e qui siamo alla crisi di questi anni, di cui non vediamo purtroppo la fine.
E se cominciassimo a lavorare meno? Che impatto avrebbe la riduzione dell'orario di lavoro, naturalmente a salario invariato, sull'occupazione? Io non so rispondere in maniera precisa a questa domanda, ma credo sarebbe una strada da tentare. Io vorrei che il nuovo partito di sinistra a cui spero dovremo cominciare a pensare - specialmente in Italia dopo il suicidio dell'ex-Pd e l'incapacità di altre sigle di porsi all'altezza di questo compito - provasse a ipotizzare questo tema. O che almeno ci provasse il sindacato, spero quello in cui io milito. La questione non è tanto quella racchiusa nello slogan "lavorare meno, lavorare tutti": questa può essere la soluzione transitoria per una crisi aziendale, durante la quale per non lasciare a casa qualche lavoratore tutti gli altri possono accettare dei sacrifici, a partire dalla riduzione dell'orario di lavoro. Ridurre in maniera generalizzata l'orario di lavoro, almeno per equiparare il settore privato a quello pubblico, potrebbe favorire l'assunzione di nuove persone, che in questo modo riuscirebbero a entrare in un mondo che adesso è loro precluso. Tutto invece sta andando nella direzione opposta. Il primo governo Napolitano ha fatto una riforma del mercato del lavoro tutta tesa ad allungare i tempi del lavoro, ad esempio aumentando ulteriormente l'età in cui le persone possono andare in pensione. Inoltre le aziende chiedono interventi per tassare meno gli straordinari e si è cercato di far lavorare più ore una parte dei dipendenti pubblici, in particolare quelli della scuola. E se invece defiscalizzassimo la riduzione dell'orario di lavoro? Anche coloro che sostengono la necessità di tornare al pensiero di Keynes dicono che occorre creare nuovo lavoro, il che è possibile solo grazie all'intervento diretto dello stato, come è avvenuto negli Stati Uniti durante la presidenza Roosvelt o nei paesi europei dopo la seconda guerra mondiale. Certo questo è importante - e Keynes diceva che questa doveva essere la soluzione praticabile nel tempo più breve - ma questo da solo non risolve il problema di fondo, ossia che serve sempre meno tempo e meno energie per fare qualsiasi cosa.
C'è poi un'altra riflessione: cosa ci è servito questo progresso se non riesce a liberare gli uomini dal tempo del lavoro e dalla fatica? Se non ci permette di avere più tempo per studiare, per stare con la nostre famiglie, per divertirci o semplicemente per riposare? Che senso ha questo progresso se non riesce a distribuire in maniera equa il lavoro e la ricchezza?
Diceva Keynes in quella stessa conferenza del 1930, mentre l'Europa si preparava alla guerra:
Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione "denaro" il suo vero valore. L'amore per il denaro come possesso, e distinto dall'amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po' ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali. [...] Naturalmente continueranno a esistere molte persone dotate di attivismo e di senso dell'impegno intensi e insoddisfatti, che perseguiranno ciecamente la ricchezza a meno che non riescano a trovarvi un sostituto plausibile. Ma non saremo più tenuti all'obbligo di lodarli e di incoraggiarli perché sapremo penetrare, più a fondo di quanto sia lecito oggi, il significato vero di questo "impegno" di cui la natura ha dotato in varia misura quasi tutti noi.
Keynes pensava, sbagliando, che la crescita della ricchezza sarebbe stata equa, perché questo aumento avrebbe inevitabilmente reso "sempre più vaste [...] le categorie e i gruppi di persone che in pratica non conoscono i problemi della necessità economica". Non è andata così, anzi sta andando tutto nella direzione opposta perché la crescita del benessere si concentra in una fascia sempre più ridotta di persone. E' qui il nodo che va spezzato, evidentemente rifiutando la logica del mercato - la logica anche di Keynes - che è in sé incapace di redistruibuire la ricchezza. Questo è un compito che dobbiamo assumerci noi.

domenica 9 giugno 2013

"L'età della sedia vuota" di Patrick McGuiness



Ne La spiaggia a Trouville di Monet è la prima settimana della guerra franco-prussiana.
La sedia è sulla sabbia tra due donne. Una legge, l'altra
ha il viso rivolto alla spiaggia che si svuota. La sedia non è di nessuno,
è una sedia trovata, una trouvaille, e non c'è una sedia in più

ma una persona in meno. Una bandiera ritta sull'asta segnala
un muoversi dell'aria, o qualcosa di più, e le onde frante,

delicati tumulti di spuma e pizzo, sono lontane cugine della rivoluzione,
legata al flusso e riflusso da cui si rompe, e in cui di nuovo irrompe.

C'è sabbia nel dipinto; il luogo si fonde con la sua fattura,
e perfino le pennellate replicano i picchi dell'acqua quando prendono

la luce: tetti alla rinfusa su un orizzonte urbano, scoppi nel sole.
La sedia suggerisce tutto ciò che si può suggerire sul cambiamento, ma vi rimane

distaccata: così come una vela suggerisce il vento; come una conchiglia registra
il suono delle onde proprio mentre le onde le girano intorno.

mercoledì 5 giugno 2013

Considerazioni libere (366): a proposito della riforma presidenziale...

Hanno ricominciato a far finta di occuparsi delle riforme istituzionali, anche perché di governare non sono proprio capaci. Il sedicente presidente del consiglio ha solennemente dichiarato che la durata del suo governo dipenderà proprio da queste riforme, minacciando addirittura le dimissioni se in 18 mesi le forze politiche non avvieranno seriamente questo processo riformatore. A parte il fatto che il giovane Letta rimarrà attaccato a quel posto perinde ac cadaver, in questa sua dichiarazione c'è una furbizia tipicamente democristiana: le riforme non devono essere fatte per davvero, ma basta che siano seriamente avviate, e naturalmente sulla serietà deciderà il vero dominus della politica italiana, il capo del governo effettivo, che siede - come noto - al Quirinale. Letta poi ha fatto un altro piccolo trucco: ha cominciato a procrastinare la data di inizio dei fantomatici 18 mesi, facendola slittare a settembre, verso la fine; per onorare il compleanno di B., immagino. Mia nonna faceva più o meno lo stesso gioco: quando era già vecchia, diceva che poteva ormai morire contenta, ma prima voleva vedere i suoi nipoti sposati; quando ci siamo tutti più o meno accasati, ha ripetuto che poteva ormai morire contenta, ma prima voleva veder nascere i suoi bisnipoti. Devo riconoscere che questa tecnica dilatoria le ha garantito una più che discreta longevità e credo che il giovane Letta voglia imitarla. Adesso poi si è anche inventato la commissione di esperti: una trovata geniale, qualcosa a cui nessuno finora aveva mai pensato; si vede che questo fa parte del gruppo Bilderberg, mica brustolini. Ovviamente non hanno nessuna fretta di fare le riforme istituzionali perché le hanno già fatte, naturalmente senza chiederlo e senza dirlo. Da circa due anni non abbiamo più un capo del governo espresso dal parlamento - come previsto dalla Costituzione - ma nominato dal presidente della Repubblica e solo successivamente ratificato dalle camere, a cose fatte. In questo periodo l'attività legislativa ordinaria è stata sostanzialmente sospesa, a favore di un inedito sistema fatto di decreti e voti di fiducia, attraverso cui il potere legislativo è stato di fatto assorbito da quello esecutivo. Inoltre le politiche economiche e di bilancio sono state avocate dalle autorità europee e dalla Bce; alle cose serie pensano altri, sono troppo importanti per lasciarle i mano ai politici italiani. E' significativo poi il modo in cui hanno drasticamente ridotto i poteri dei comuni, come ho spiegato anche in una mia precedente "considerazione". Come vedete si tratta di un disegno organico, a cui non fa certo difetto la coerenza. Quando, tra qualche anno, presenteranno davvero la loro "nuova" riforma, il nostro paese sarà ormai assuefatto a questa situazione e sarà naturale "scivolare", senza troppi traumi, nella "nuova" repubblica presidenziale.
Su questo permettetemi una sottolineatura. In questi giorni mi è capitato più volte di sentire questo discorso: "con tutti i problemi che ci sono in questo paese, pensano solo al presidenzialismo"; immagino lo avrete sentito anche voi. In qualche caso chi fa questo discorso è in perfetta buona fede - penso al mio barbiere, che è uomo di sinistra, e che proprio stamattina mi ha fermato per dirmelo - in altri casi no, come quando lo dice B. o lo dice il presidente di Confindustria, che ovviamente vogliono, per motivi diversi, cavalcare in maniera populista il malcontento dei cittadini. Questa protesta - quella del mio barbiere, non quella di B. o quella di Squinzi - è comprensibile: gran parte del paese è alle strette, molte famiglie si trovano in gravi difficoltà; eppure rischia di essere molto pericolosa. Seguendo questa logica - che sfocia nel "benaltrismo" - ci saranno temi che saranno sempre accantonati, penso soprattutto alle questioni legate ai diritti. Ci sarà sempre qualcuno che dirà: dobbiamo occuparci dei problemi veri, non possiamo perdere tempo con il matrimonio per le persone omosessuali o con il diritto di cittadinanza agli stranieri. E invece su questi tempi abbiamo proprio bisogno di "perdere tempo". Facciamo attenzione quindi, perché questo argomento finisce per essere usato da quelli che non vogliono cambiare nulla, perché per loro va bene così. In questi giorni noi reduci della sinistra, noi esodati della politica, dovremo sempre prestare orecchio a questi discorsi e non stancarci di dire che democrazia e benessere economico devono crescere insieme. Può crescere l'economia di un paese anche quando diminuiscono, o addirittura spariscono, la democrazia e i diritti; pensate al Cile di Pinochet o anche alla Turchia di questi anni, in cui la crescita economica si è accompagnata a una drastica diminuzione dei diritti. Si tratta però di una crescita diseguale, che arrichisce pochissimi e impoverisce moltissimi. Invece se cresce la democrazia crescerà anche il benessere economico; in questi giorni ho riletto - con maggiore attenzione della prima volta - Il secolo breve di Eric J. Hobsbawm, che questo concetto lo spiega molto bene. Noi dobbiamo lottare perché la crescita del benessere si accompagni alla democrazia, ossia a una redistribuzione della ricchezza. Per questo dobbiamo partecipare alla discussione sul presidenzialismo, perché anche questo è un aspetto della crisi. E non secondario.
Sul tema io non sono favorevole al presidenzialismo o al semipresidenzialismo, per un motivo semplice, fin banale: perché in Italia c'è B. e soprattutto c'è una potenziale maggioranza pronta a eleggerlo, a qualunque carica, da caposcala a papa. In questo paese purtroppo i demagoghi trovano da sempre terreno fertile, ce lo ha insegnato Thomas Mann in Mario e il mago, e ce lo mostra la cronaca di questi anni. E poi in Italia c'è una criminalità organizzata molto forte, che non avrebbe troppe difficoltà a eleggersi un "proprio" presidente, naturalmente quando B. non sarà più un interlocutore credibile. In una parola, non possiamo fidarci dell'Italia. Credo che questo sia un argomento molto forte, capace di convincere perfino una parte degli elettori dell'ex-Pd, anche se il loro partito è ormai avviato verso la strada del presidenzialismo, nell'illusione di avere un "campione" capace di vincerle queste nuove elezioni presidenziali, magari perché "giovane". Il problema però non è neppure quello di vincere le elezioni, come dimostra il caso francese, dove c'è un presidente a cui la loro costituzione assegna ampi poteri e a cui i cittadini hanno consegnato un mandato elettorale pieno, con un'ampia maggioranza parlamentare. E' teoricamente un uomo della sinistra, non ha nemmeno problemi a definirsi socialista, ma è come se fosse un Renzi qualsiasi. Il problema non è la forma di governo, ma le forme con cui si esercita il governo di un paese, come è evidente in questi giorni in Turchia, dove un governo formalmente parlamentare ha reagito con una durezza da stato autoritario davanti alle manifestazioni di piazza. A proposito, non ho ancora ben capito cosa sia successo oggi a Terni, ma certamente non è stata una bella pagina per le nostre forze dell'ordine, purtroppo non la prima. In sintesi il pericolo alla democrazia non viene necessariamente dall'introduzione di un presidenzialismo, più o meno mascherato, e non è che il mantenimento del sistema parlamentare attuale sia una garanzia, come è evidente in questi giorni. Occorre fare un passo in più. Pensare a un sistema alternativo all'attuale sistema economico, capace soltanto di far aumentare le diseguaglianze e di far crescere la povertà, richiede la partecipazione attiva dei cittadini alle scelte fondamentali, in un sistema di democrazia partecipata di cui si devono trovare gli strumenti, per rafforzare finalmente anche le inevitabili forme della democrazia rappresentativa e basata sulla delega. Per una parte importante della nostra storia questo ruolo essenziale della vita democratica, questa cerniera tra le due forme della democrazia, è stato svolto dai partiti, che però hanno abdicato e adesso sono assolutamente incapaci di riprendere tale funzione, oltre al fatto che non ne hanno alcuna legittimazione. La democrazia partecipativa, solo perché non siamo riusciti ancora a trovarne i modi e tempi - che peraltro non possono essere individuati soltanto nella rete, pena il cadere in un'altra forma di populismo - non può essere considerata un'utopia; certo metterla in piedi è difficile perché molti possono considerarla una perdita di tempo, visto che le loro decisioni non vengono mai rispettate. I referendum sull'acqua pubblica non sono stati rispettati, il voto di febbraio è stato tradito: è comprensibile che una metà dell'elettorato - quella dei meno garantiti dalla politica - decida di non andare a votare. Qui è il nodo, non nella presunta dicotomia tra parlamento e presidente; occorre che chi non vota e chi vota con sempre maggiore sfiducia torni a partecipare. Su questo giocheremo la vera battaglia.

p.s. Mentre ho scritto questa "considerazione" ho saputo che è finita la "guerra civile". Io credo che il termine sia appropriato; in Italia c'è stata in questi anni una guerra civile, in cui nessuno dei due contendenti ha riconosciuto legittimità all'altro: noi consideriamo B. un corpo estraneo alla democrazia e lui fa altrettanto con noi. Ho qualche dubbio però che sia finita. Di solito una guerra civile finisce in due modi: o le parti trovano un accordo ragionevolmente accettabile per entrambi - come è successo in Irlanda del nord - o uno vince e l'altro perde, e in genere quello che perde muore. Visto che l'annuncio della fine della guerra è stato dato unilteralmente da colui che questa guerra l'ha dichiarata - circa vent'anni fa - vuol dire o che si sbaglia lui o che noi l'abbiamo definitivamente persa. Certamente la resa, senza condizioni, del gruppo dirigente dell'ex-Pd è stato per noi un duro colpo e renderà più difficile la guerra nei prossimi anni, forse perfino velleitaria. Ma non è un buon motivo per smettere di combattere, contro B. e contro quelli che la pensano come lui.   

lunedì 3 giugno 2013

"Io sono comunista" di Nazim Hikmet

Io sono comunista
Perché non vedo una economia migliore nel mondo che il comunismo.
Io sono comunista
Perché soffro nel vedere le persone soffrire.
Io sono comunista
Perché credo fermamente nell'utopia d'una società giusta.
Io sono comunista
Perché ognuno deve avere ciò di cui ha bisogno e dare ciò che può.
Io sono comunista
Perché credo fermamente che la felicità dell'uomo sia nella solidarietà.
Io sono comunista
Perché credo che tutte le persone abbiano diritto a una casa, alla salute, all'istruzione, ad un lavoro dignitoso, alla pensione.
Io sono comunista
Perché non credo in nessun dio.
Io sono comunista
Perché nessuno ha ancora trovato un'idea migliore.
Io sono comunista
Perché credo negli esseri umani.
Io sono comunista
Perché spero che un giorno tutta l'umanità sia comunista.
Io sono comunista
Perché molte delle persone migliori del mondo erano e sono comuniste.
Io sono comunista
Perché detesto l'ipocrisia e amo la verità.
Io sono comunista
Perché non c'è nessuna distinzione tra me e gli altri.
Io sono comunista
Perché sono contro il libero mercato.
Io sono comunista
Perché desidero lottare tutta la vita per il bene dell'umanità.
Io sono comunista
Perché il popolo unito non sarà mai vinto.
Io sono comunista
Perché si può sbagliare, ma non fino al punto di essere capitalista.
Io sono comunista
Perché amo la vita e lotto al suo fianco.
Io sono comunista
Perché troppe poche persone sono comuniste.
Io sono comunista
Perché c'è chi dice di essere comunista e non lo è.
Io sono comunista
Perché lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo esiste perché non c'è il comunismo.
Io sono comunista
Perché la mia mente e il mio cuore sono comunisti.
Io sono comunista
Perché mi critico tutti i giorni.
Io sono comunista
Perché la cooperazione tra i popoli è l'unica via di pace tra gli uomini.
Io sono comunista
Perché la responsabilità di tanta miseria nell'umanità è di tutti coloro che non sono comunisti.
Io sono comunista
Perché non voglio potere personale, voglio il potere del popolo.
Io sono comunista
Perché nessuno è mai riuscito a convincermi di non esserlo.

domenica 2 giugno 2013

"C'è un albero dentro di me" di Nazim Hikmet


C'è un albero dentro di me
trapiantato dal sole
le sue foglie oscillano
come pesci di fuoco
le sue foglie cantano come usignoli...
è un pezzo già
che i viaggiatori sono discesi
dai razzi del pianeta chè in me
parlano una lingua che lo udito in sogno
non ordini non vanterie non preghiere...
in me c'è una strada bianca
le formiche passano coi semi di grano
i camion passano col chiasso delle feste
ma il carro funebre
- è proibito -
non può passare
in me il tempo rimane
come una rossa rosa odorosa
che oggi sia venerdì domani sabato
che il più di me sia passato
che resti il meglio
me ne infischio.

sabato 1 giugno 2013

Considerazioni libere (365): a proposito della nazionalizzazione dell'Ilva...

In quest'epoca della grande pacificazione, in cui tutti dobbiamo stare allegri, visto "che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale", in cui è abolita, per decreto presidenziale, la contestazione sociale, nessuno ha più colpa di nulla. E' emblematica la vicenda dell'Ilva: quella fabbrica sembra spuntata lì, a Taranto, come un fungo e altrettanto all'improvviso ci siamo accorti che provoca la morte di chi ci lavora e di chi ci vive accanto, che sono poi le stesse persone. Solo un'informazione complice è riuscita a costruire la favola della contrapposizione tra lavoratori e cittadini, come se si trattasse di due corpi estranei, ciascuno portatore di un diritto, quello al lavoro e quello alla salute, contrapposti tra di loro e tra i quali è necessario scegliere. L'ho già ricordato in un'altra "considerazione", ma non mi sembra inutile sottolinearlo ancora una volta: quell'acciaieria è nata lì nel 1961, quasi una generazione fa. 
Per venire alla storia più recente, la famiglia Riva ha comprato l'allora Italsider di Taranto, circa vent'anni fa, per pochi miliardi di lire - ossia milioni, in euro - con il ringraziamento del governo e il plauso del paese, visto che ci liberava di un "ferrovecchio". In questi vent'anni i Riva hanno gestito quella fabbrica secondo una logica ottocentesca, tanto da avere due condanne per discriminazione; ne avrebbero meritate di più, se la magistratura avesse avuto più coraggio e non avesse avuto paura di disturbare il manovratore. A quelli che sbraitano adesso contro la magistratura politicizzata, dovremmo ricordare che in Italia ci sono stati davvero i giudici che hanno sempre tenuto la parte delle classi dirigenti, al di là di ogni ragionevole dubbio. Comunque, per tornare al caso di Taranto, il bilancio "sociale" dell'Ilva, anche per questo disprezzo dei Riva per le regole, conta alcune centinaia di operai morti sul lavoro; inoltre le emissioni di polvere e di gas hanno provocato migliaia di malattie e centinaia di morti tra gli abitanti della città, ossia tra i familiari degli stessi lavoratori. Il bilancio finanziario della famiglia ha tutti altri numeri, i profitti si calcolano in miliardi di lire e questa volta anche di euro; molti di questi soldi sono stati dirottati verso compiacenti paradisi fiscali, per poi essere "rimpatriati", esentasse, grazie alla scudo fiscale di Tremonti. La famiglia Riva ha sfruttato al massimo quei lavoratori e quegli impianti, senza fare investimenti, se non quelli strettamente necessari per tenerli in funzione, mettendo in conto di abbandonarli, quando non sarebbero più stati redditizi. Questi "campioni" del capitalismo italiano sono attualmente arrestati o latitanti; eppure con questi personaggi, seppur attraverso dei prestanome - come il prefetto Ferrante, già candidato del centrosinistra a Milano - il governo italiano sta negoziando la soluzione del "caso Ilva". Forse, se vent'anni fa la mafia avesse avviato le trattative con lo stato, minacciando di lasciare senza lavoro migliaia di manovalanza mafiosa, si sarebbe svolto tutto alla luce del sole: il caso dei Riva non è molto diverso. Quindi le responsabilità ci sono e chi è responsabile deve pagare. Accettando queste premesse, la soluzione dei problemi dell'Ilva diventa fin semplice: si nazionalizza l'azienda e si usano i soldi sequestrati alla famiglia Riva per fare il risanamento ambientale e per riconvertire in maniera ecocompatibile la produzione di acciaio, che rimane un elemento indispensabile per l'economia del nostro paese. Naturalmente non sarà questa la soluzione, perché è con tutta evidenza contraria al pensiero ultraliberista che è egemone nelle nostre istituzioni e che guida le scelte politiche delle autorità finanziarie internazionali che hanno commissariato di fatto il governo italiano.
Credo poi sia utile sottolineare un altro punto: il caso Ilva non è un'eccezione, giustificata dal fatto che i Riva sono i delinquenti che sono. Tutte le privatizzazioni italiane degli anni Novanta hanno avuto un andamento sostanzialmente analogo. La parte dell'Italisider ceduta a Lucchini è in via di fallimento. Del manifatturiero dell'Iri, rimane solo Fincantieri, che vive unicamente delle commesse militari e ha liquidato tutto il settore civile; peraltro dei vertici di questa azienda si parla soprattutto per le indagini giudiziarie a loro carico. Telecom ha svenduto pezzi del proprio patrimonio industriale e di ricerca. Le tre banche di interesse nazionale - Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma  - una volta privatizzate, sono state tra le maggiori responsabili della crisi del nostro paese, anche perché hanno investito molto e male, e sono ora le maggiori detentrici di titoli di stato, per cui devono essere "salvate", pena il fallimento del paese. Le privatizzazioni sono un danno tout court? O il problema è che in Italia non le sappiamo fare? Su questo tema si dibatte da tempo, senza venirne a capo, anzi continuando a svendere il patrimonio pubblico, in sordina, senza fare troppo clamore, nello stesso modo in cui lo si è fatto negli anni Novanta.
Siccome l'appetito vien mangiando e il "finanzcapitalismo" - come la pianta carnivora della Piccola bottega degli orrori - ha sempre bisogno di nuovo "sangue", il nuovo oggetto del desiderio sono diventate le aziende che gestiscono i servizi pubblici locali. Il meccanismo messo in piedi da questi "predoni" è piuttosto semplice. I "loro" governi hanno imposto l'adozione del patto di stabilità interno, che di fatto ha tolto ogni potere alle amministrazioni locali; i Comuni non hanno più accesso al credito, anche perché la Cassa depositi e prestiti - creata proprio per finanziare a tassi agevolati gli investimenti degli enti locali - è stata anch'essa privatizzata. L'unico modo per i sindaci di riuscire a gestire un po' di risorse - visto che anche l'Imu è stata loro tolta - è quello di svendere le partecipazioni dei loro Comuni nelle ex-municipalizzate, trasformate da tempo in società per azioni. Curioso è il "nuovo" ruolo della Cassa depositi e prestiti, che ora finanzia di fatto la privatizzazione di queste aziende, concedendo prestiti per favorire la loro concentrazione e l'ingresso in Borsa. Questo passaggio sottrae definitivamente il controllo di queste aziende alle amministrazioni locali; infatti per renderle redditizie e quindi appetibili nel mercato azionario, bisogna alzare le tariffe a carico degli utenti. Quindi noi paghiamo di più e chi compra ci guadagna di più, in un sistema di redistribuzione della ricchezza dai più poveri ai più ricchi. In sostanza questi fanno i liberisti con il culo degli altri; il nostro.
Come sta succedendo in Grecia, il governo delle "larghe intese" è stato messo lì essenzialmente con questo compito, svendere quel che rimane del patrimonio pubblico. In Italia in fondo non sarà neppure troppo difficile, perché quello che c'era prima non è assolutamente da rimpiangere. Per tornare al caso dell'Ilva, da cui sono partito, la gestione statale dell'Italsider era al livello - molto basso - di quella dell'Ilva dei Riva; e per molti cittadini la gestione pubblica delle ex-municipalizzate non è certo sinonimo di efficienza, nonostante se ne comprenda l'utilità e il significato profondo, come è avvenuto nel caso del referendum per l'acqua pubblica, che peraltro viene sempre più disatteso dalle nostre amministrazioni, qualunque sia il loro colore politico. La battaglia per la rinazionalizzazione dell'Ilva deve essere accompagnata dalla richiesta di una legge che preveda il controllo dal basso della gestione di queste società; in questo controllo devono avere parte attiva i lavoratori e i cittadini. Non aspettiamoci che questo controllo lo facciano altri: non ne sono capaci e soprattutto non lo vogliono fare. Ecco, se vogliamo davvero provare a far rinascere la sinistra in Italia, potremmo partire da una proposta così: mi pare sufficientemente rivoluzionaria.