Marino ha vinto: viva Marino. La gioia di veder piangere lo sconfitto Alemanno - che vorrei tornasse nelle sedi sotterranee consone alla sua genia, ma che immagino troverà qualche più comodo incarico - non può far velo sul fatto che si è trattato di una mezza vittoria. Commento con qualche ritardo l'esito di questo turno di ballottaggio, perché oggettivamente credo che in questi giorni sia più importante quello che avviene in Turchia e che ho cercato di accompagnare in questo blog non con delle mie riflessioni - non sono ancora pronto - ma con le parole di alcuni poeti di quella terra, a cominciare dal grande Nazim Hikmet.
Per tornare all'Italia, dunque, da domenica scorsa le prime dieci città per numero di abitanti sono governate tutte da esponenti del centrosinistra; vado a memoria - e quindi potrei sbagliarmi - ma credo non sia mai successo nella storia di quella che ci siamo abituati a chiamare "seconda Repubblica", ossia quella stagione politica nata vent'anni fa, dopo la fine della "guerra fredda" e, di conseguenza, la fine o la trasformazione dei tre grandi partiti di massa della Costituente. Per altro uno degli elementi che caratterizzò la nascita della seconda Repubblica fu la tornata elettorale amministrativa in cui vennero alla ribalta molti nuovi sindaci, grazie alla legge elettorale che ne introduceva l'elezione diretta. A Milano venne eletto Marco Formentini, il primo leghista ad assumere un incarico istituzionale di quel livello, a Roma venne eletto il verde Francesco Rutelli - arrivato al ballottaggio con Gianfranco Fini, allora ancora segretario del Msi, anche in questo caso il primo di quel partito, fino a quel momento tenuto ai margini della vita politica, a raggiungere questo obiettivo - a Venezia venne eletto il filosofo Massimo Cacciari, a Palermo l'esponente della Rete Leoluca Orlando. Allora c'era nell'aria un certo ottimismo e sembrava che tutto dovesse cambiare in meglio - anche grazie a questo nuovo protagonismo delle città e dei loro rappresentanti - poi è cominciato il buio del lungo ventennio berlusconiano, di cui sconteremo gli effetti nefasti per ancora molto tempo. Quel rinnovamento sperato è mancato anche per colpa delle persone che l'avrebbero dovuto fare: non è normale che Orlando sia tornato a essere sindaco a Palerno, come Cacciari di Venezia: troppo spesso quei sindaci sono diventati piccoli sultani di provincia. Le elezioni politiche di febbraio e queste ultime amministrative hanno segnato invece la fine anche di questa ingloriosa seconda Repubblica. Non mi sembra di vedere in giro lo stesso ottimismo e lo stesso entusiasmo di vent'anni fa. Comprensibilmente, perché la stagione che sta per cominciare sappiamo già che sarà peggiore - se possibile - di quella che ci siamo lasciati alle spalle; non abbiamo neppure l'illusione, questa volta.
C'è un curioso paradosso nelle vicende di questi mesi. Il partito di B. - e il ragionamento vale anche per il suo fiacco satellite, la Lega di Roberto Maroni - è un partito che esiste - o che resiste - a livello nazionale, mentre è sparito a livello locale - emblematico è il caso di Treviso - invece il suo principale antagonista, che in questi anni ha cambiato nome alcune volte e ora si chiama Pd, non esiste più a livello nazionale - o meglio fatica moltissimo a resistere - mentre stravince a livello locale. Fa sorridere quindi il nuovo ex-segretario di quel partito che, dismesso per un giorno il tono funereo che lo contraddistingue, ha cominciato a fischiettare, forse convinto di aver vinto davvero le elezioni; se si accontentano di vincere così, perdendo milioni di voti, non hanno capito molto, e naturalmente domani possono essere di nuovo sconfitti, perché una vittoria di questo genere è fragile come un castello di carte. Evidentemente questo paradosso è il segno che il bipolarismo che è stato l'elemento caratterizzante di questi vent'anni è finito. Ed è finito male. La fine di questa stagione si è accompagnata con la crescita dell'astensione, oltre il livello di guardia, e con il fenomeno del Movimento Cinque stelle, destinato a ballare un solo giro per poi tornare a fare tappezzeria. Questa disillusione, raccolta nel non voto o dispersa nel voto a Grillo e ai suoi illusi adepti - spesso purtroppo per loro in buona fede - è tutta lì ed è destinata a crescere, a disposizione del prossimo movimento populista capace di smuoverla. Una parte di questi rancorosi - per fortuna sono in diminuzione, anche se molto lenta - aspetta il ritorno di B.; altri sono lì che aspettano un nuovo inizio fatto di insulti e volgarità - è una parte del voto leghista passato direttamente dal medio di Bossi ai vaffa grilleschi. Comunque tutti costoro, qualunque sia il loro sbocco, sono destinati a rimanere lì, in questa sorta di limbo elettorale. Anche perché nel frattempo, con una certa velocità e con forte determinazione, è nata la "terza Repubblica", che degli elettori non sa bene che farsene: anzi meno sono, meglio è. Il sacerdote di questo elitismo della politica è l'anziano ed eterno inquilino del Quirinale, attorniato da tutti i suoi saggi di corte. Bisogna fare le riforme istituzionali? Chiamiamo un gruppo di saggi. Bisogna fare delle proposte sull'economia e sul lavoro? Chiamiamo un altro gruppo di saggi, che peraltro sono sempre gli stessi, riciclati con nuovi titoli accademici. E' la repubblica della saggezza quirinalizia e della pacificazione nazionale, incarnata dal giovane Letta, nipote del vecchio Letta, ossia - per parafrasare una vecchia formula - la pacificazione in una sola famiglia.
Sarà molto difficile uscirne, quasi impossibile, perché noi italiani non abbiamo la capacità di arrabbiarci e di dimostrare che hanno avuto in questi giorni i greci e i turchi. Sbaglia quel personaggio di Mediterraneo che dice "italiani, greci, una faccia, una razza"; noi ci siamo ormai assuefatti a questo stato di cose, abbiamo accettato la svolta autoritaria che Napolitano e chi per lui ha ha voluto dare alla nostra Costituzione e che sarà sancita dalle prossime riforme costituzionali, fatte naturalmente dal solito gruppo di saggi pacificati. Una parte del centrosinistra di questo paese è perso nel dibattitto pre e post-congressuale dell'ex-Pd, una parte aspetta una palingenesi, magari affidandosi a qualche vecchio saggio - perché i saggi li abbiamo anche noi, naturalmente. Io, come sapete, ho grande rispetto per la figura, il pensiero e l'azione di Stefano Rodotà, ascolto con attenzione le sue parole e cerco di diffonderle, ma sinceramente credo sia un errore personalizzare - come mi pare che da qualche parte si voglia fare - su di lui la rinascita della sinistra in Italia; credo che lui per primo non voglia questa deriva personalistica, che finirebbe per cadere nell'errore che vogliamo combattere. La sinistra che vogliamo rifare - se ne avremo la capacità - dovrà essere plurale, o non sarà, e quindi non si può partire dal leader. Si deve partire dalle idee e dalla cose. Anche dalle battaglie, ce lo stanno insegnando le donne e gli uomini della Turchia che, partendo dalla difesa di un parco di Istanbul, provano a difendere un'idea di società e di cultura. Aspettiamo il nostro Gezi park.
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