Voi che leggete con una certa assiduità - e con notevole indulgenza - queste "considerazioni", sapete quanto io valuti positivamente quello che sta avvenendo in Africa settentrionale e in Medio oriente. Sono passati poco più di otto mesi dal 15 dicembre, quando Mohamed Bouazizi si è dato fuoco a Sidi Bouzid, accendendo quella rivolta che ha coinvolto milioni di giovani in tutta la regione. Otto mesi sono un periodo troppo breve per tracciare un bilancio, anche in un'epoca come la nostra dove ci illudiamo, complice la potenza dei mezzi di comunicazione, che tutto possa avvenire e risolversi in pochi giorni. La storia ha tempi più lunghi e non si sottomette alla cronaca, alla nostra volontà di procedere senza memoria.
In alcuni paesi, come la Siria, la rivolta è ancora in atto e rischia di venire soffocata dalla brutalità del regime della famiglia Assad, nell'indifferenza dell'opinione pubblica internazionale che si occupa sempre meno di quello che sta avvenendo nelle coste meridionale e orientale del Mediterraneo. In Egitto qualche commentatore parla già di controrivoluzione, una sorta di Termidoro in salsa araba, dal momento che i militari soffocano ogni spinta progressista. In Algeria e in Marocco la situazione pare normalizzata, a vantaggio del vecchio
establishment. In Arabia Saudita non è stata neppure scalfita la teocrazia della dinastia Saud, uno dei regimi più antidemocratici del mondo. Evidentemente gli elementi negativi sono molti, ma, nonostante tutto, qualcosa è cambiato. I giovani che protestano nelle piazze delle città mediorientali sono diventati uno degli attori politici della regione e non si può più far finta che non ci siano: questo è già un risultato importante.
Io credo che, anche alla luce di quello che sta avvenendo nel mondo, di fronte a questi milioni di persone che si ribellano in nome della democrazia, non sia superfluo da parte nostra - che viviamo in paesi che hanno una più o meno lunga tradizione democratica - ragionare, anche un po' astrattamente, sul concetto di democrazia. Anche perché le democrazie non sono affatto tutte uguali.
Cosa distingue una democrazia da una dittatura? Qualcuno potrebbe rispondere che il regolare svolgimento di elezioni è un indicatore per fare questa distinzione, ma francamente non mi pare sufficiente: sono molti i dittatori "eletti". La presenza di una costituzione è un altro indice importante, ma - anche in questo caso è piuttosto evidente - ci sono splendide costituzioni che rimangono scritte sulla carta. Il riconoscimento degli altri paesi è un argomento ancora più fallace: la Russia viene perfino invitata al vertice G8, nonostante sia notoriamente un regime autocratico. Gli interessi economici prevalgono molto spesso su ogni altra considerazione di carattere politico o ideologico, basti pensare a come le democrazie occidentali si rapportano alla Cina.
Ci sono grandi differenze tra le democrazie. E ci sono grandi differenze nell'idea che ciascuno di noi si fa della democrazia in cui vive. Per molti cittadini che vivono in regimi democratici la democrazia è il semplice esercizio del voto, che si esercita ogni quattro o cinque anni, delegando del tutto, in questo periodo tra un'elezione e l'altra, la gestione della cosa pubblica alle persone che più o meno consapevolmente, più o meno convintamente, hanno votato. Per altri la democrazia si esercita non soltanto con il proprio voto, ma con un controllo continuo sull'attività degli eletti e in forme di vera e propria partecipazione alle scelte. Su questo punto specifico tornerò dopo, commentando alcune riflessioni di Umberto Eco.
Di fatto molte democrazie sono molto più simili all'oligarchia descritta da Megabizo nel cosiddetto
logos tripolitikos erodoteo - uno dei testi fondamentali della teoria politica dell'antichità - che alla forma di governo che "ha il nome più bello di tutti, l’uguaglianza dinanzi alla legge", descritta da Otane. Senza arrivare alle degenerazioni della "casta" italiana, la politica è sempre più il campo specialistico di una categoria di persone professionalmente preparate allo scopo. In questi anni, nelle democrazie, anche di lunga tradizione, assistiamo a una vera e propria tendenza dinastica. Come noto, negli Stati Uniti Bush jr. è succeduto al padre e, se non fosse spuntata la stella di Obama, probabilmente Hillary Clinton sarebbe diventata presidente dopo il marito: sarebbe potuto succedere che per quasi trent'anni due sole famiglie si fossero alternate al governo degli Stati Uniti, la più importante democrazia del mondo. L'attuale primo ministro greco, socialista, è figlio di un ex primo ministro e lo stesso il suo predecessore del partito conservatore. L'attuale presidente dell'Argentina è la moglie, ora vedova, del precedente presidente; e gli esempi potrebbero continuare. In Italia, dove solitamente la storia si trasforma in farsa, assistiamo all'irresistibile ascesa politica del figlio di Bossi.
Proviamo a definire "democrazie elettorali" questi regimi che sono tali soltanto un giorno ogni quattro anni. Ci sono paesi democratici in cui non sono rispettati i diritti umani o il principio di uguaglianza di fronte alla legge: proviamo a definire questi altri paesi "democrazie illiberali". Ci sono altre democrazie, come quella israeliana o - fino all'inizio degli anni Novanta - quella sudafricana, che prevedono che ci siano cittadini a pieno diritto e cittadini con un minor grado di diritti e garanzie costituzionali. Se poi, in un paese di democrazia recente come la Spagna ha un tale successo il movimento
Democracia real ya, ossia "democrazia reale subito", significa che questioni come la legittimità, la rappresentatività o la responsabilità sono così in crisi che la parola democrazia a volte sembra una formula priva di significato. Poi c'è la questione del ruolo delle donne: c'è una grande differenza tra i paesi scandinavi e, ad esempio, una democrazia come l'Italia, tanto da far nascere nel nostro paese un movimento come
Se non ora quando, che intreccia questioni di genere a critiche più generali al sistema della rappresentanza.
Ci sono organizzazioni e studiosi che cercano di individuare le misure empiriche per verificare il grado di democrazia di un paese. L’organizzazione
Freedom house classifica i paesi del mondo, dal punto di vista dell'adesione ai principi democratici, utilizzando una scala da uno a sette, da più a meno libero. Il progetto
Polity IV analizza diversi dati sui regimi politici e assegna un punteggio su ventuno indicatori che oscilla tra -10 e +10. Il
Democracy Index dell’
Economist esamina i 167 paesi del mondo in base a cinque categorie, dividendoli poi tra democrazie complete, imperfette, regimi ibridi e regimi autoritari. Come è evidente la scala di grigi tra democrazia e dittatura è piuttosto vasta.
Torno un momento sul rapporto tra cittadini e politica. All'indomani del voto amministrativo, Umberto Eco ha scritto un articolo estremamente interessante, ricordando un episodio del 1997, successivo alla vittoria elettorale dell'Ulivo. Eco riporta un lungo passo di Massimo D'Alema, in cui egli rivendica il primato della politica come "un ramo specialistico delle professioni intellettuali", concludendo che "l'idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico per restituirla
tout-court ai cittadini è un mito estremista". Il professore risponde, seppur dopo molti anni, al politico, con un ragionamento, la cui conclusione credo meriti di essere riportata integralmente e possa essere utile a questa mia "considerazione".
Quale rimane dunque la funzione, certamente insostituibile, dei partiti e della "politica" nel momento in cui si dà voce a elementi non professionalmente politici? Non solo quella di interrogare e comprendere le pulsioni, le idee, le aspirazioni che animano la società civile, ma di garantire la continuità di queste espressioni, perché certamente la società civile può aggregarsi e disgregarsi a seconda della situazione di un paese, può mobilitarsi in casi di estrema urgenza (come è avvenuto) ma disperdersi o impigrirsi nel momento successivo. Ed ecco che i partiti devono sentire non solo il dovere di rispondere alle sollecitazioni della società civile, ma anche quello di sollecitare queste sollecitazioni. Per poi ovviamente incanalarle nelle forme parlamentari e governative l'accesso alle quali non può che avvenire tramite i partiti.
Probabilmente tutte queste riflessioni sono lontane dalle rivendicazioni più elementari - e anche più "alimentari" dei dimostranti di piazza Tahir - ma noi, i nostri governi, i nostri politici, non possono eluderle, tanto più quanto si ha l'obiettivo di insegnare o di "esportare"" la democrazia. Ma quale democrazia?
Personalmente ritengo che il punto fondamentale sia richiamare non soltanto i processi di decisione costituzionali propri di un regime democratico, ma anche i principi della
Dichiarazione universale dei diritti umani. Non c'è vera democrazia in un paese in cui le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini, in cui le bambine e i bambini non vanno a scuola, in cui la maggioranza della popolazione vive sotto il livello di povertà.
Concludo con queste parole di Norberto Bobbio.
Diritti dell'uomo, democrazia, pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico. Senza diritti dell'uomo riconosciuti ed effettivamente protetti non c'è democrazia. Senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti che sorgono tra individui, tra gruppi, e tra quei grandi gruppi che sono gli Stati, tradizionalmente indocili e tendenzialmente critici rispetto agli altri Stati, anche quando sono democratici al proprio interno. Non sarà inutile ricordare che la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo comincia affermando che "Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo".