domenica 31 dicembre 2017

"Fine d'anno" di Jorge Luis Borges


Né la minuzia simbolica
di sostituire un tre con un due
né quella metafora inutile
che convoca un attimo che muore e un altro che sorge
né il compimento di un processo astronomico
sconcertano e scavano
l’altopiano di questa notte
e ci obbligano ad attendere
i dodici e irreparabili rintocchi.
La causa vera
è il sospetto generale e confuso
dell’enigma del Tempo;
è lo stupore davanti al miracolo
che malgrado gli infiniti azzardi,
che malgrado siamo
le gocce del fiume di Eraclito,
perduri qualcosa in noi:
immobile.

Verba volant (471): anno...

Anno, sost. m.

Tutti noi sappiamo cosa sia un anno. In questi giorni ce ne lasciamo indietro uno e ne aspettiamo un altro: così è la vita. In latino annus significa cerchio - e dal suo diminutivo annulus deriva infatti l'italiano anello - e infatti l'anno è il tempo che impiega il sole a compiere il suo giro intorno alla terra.
Errore blu. Lo so che ci hanno insegnato che è la terra che gira intorno al sole, con tutte le implicazioni del caso, ma visto che da qua sembra proprio che sia il sole a compiere il suo giro, avvicinandosi e allontanandosi alternativamente dalla terra, credo che Galileo mi perdonerà questa licenza letteraria. Il dottor Watson ci racconta che Sherlock Holmes non conosceva la teoria copernicana e anzi che un giorno si spazientì quando cercò di spiegargliela. "Lei dice che giriamo intorno al sole. Anche se girassimo intorno alla luna non farebbe un soldo di differenza per me o per il mio lavoro."
Francamente Holmes non ha tutti i torti. E' più pericoloso credere che su questo pianeta ci siano - e che ci saranno sempre - le risorse che permettono a pochissimi di noi di vivere come viviamo, di stare al caldo d'inverno e al fresco d'estate, di avere tutta l'energia che vogliamo, in qualunque luogo e in qualunque ora, di essere sempre e continuamente connessi, magari per scambiarci inutili e ipocriti auguri di capodanno. E' più pericoloso credere che non possiamo fare a meno di tutte le cose che poi il giorno dopo scartiamo. E' più pericoloso dimenticare che il benessere di noi che siamo sempre meno si basa unicamente sul fatto che gli altri, che sono sempre di più, stanno male, e soffrono per garantire a noi il superfluo.
Che la terra giri o stia ferma poco importa a chi vive rovistando nelle discariche dove noi abbiamo buttato il nostro vecchio telefonino perché volevamo un modello nuovo che ci permettesse di conoscere i nomi delle stelle, nomi che ci dimenticheremo un minuto dopo averle viste perché distratti da un nuovo gioco. Che la terra giri o stia ferma poco importa a chi viene cacciato dalla propria terra perché noi lì dobbiamo costruire una grande diga o perché noi abbiamo inquinato un fiume e reso irrespirabile l'aria. Che la terra giri o stia ferma poco importa a chi viene sfruttato.
E forse a tutti loro importa poco anche sapere che anno sarà quest'anno che sta per iniziare, che noi scrutiamo con tanta attesa, perdendoci in vaticini sempre uguali ogni anno. Almeno evitiamo di dire le frasi che sempre si dicono in queste occasioni: per fortuna che quest'anno sta per finire e altre banalità del genere; per decenza faremmo meglio a tacere. Forse tutti loro non si accorgeranno nemmeno che è arrivato questo nuovo anno: sono troppo lontani per sentire i botti, di cui noi ci scandalizziamo solo perché rendono nervosi i nostri animali, di cui ci importa molto di più delle persone che sopravvivono per garantire che anche quest'anno possiamo brindare.
Francamente non so bene cosa augurarvi, cosa augurarci. Forse che il 2018 sia davvero peggiore.

mercoledì 27 dicembre 2017

Verba volant (470): surgelato...

Surgelato, sost. m.

Una vita fa, quando facevo un altro mestiere, avevo la responsabilità di diversi ristoranti e ogni sera, seppur per un solo mese all'anno, davo da mangiare a qualche migliaio di persone. E credo di poter dire che in quei ristoranti si mangiava bene, spesso molto bene. Ovviamente non per merito mio, ma grazie al lavoro di un esercito di volontarie e volontari che mettevano a disposizione, oltre al loro tempo, il loro saper fare.
C'erano - com'è giusto che sia - delle regole che dovevamo rispettare e venivamo controllati affinché le rispettassimo; e in quegli anni chi doveva controllarci lo faceva con particolare zelo, visto che non ci era molto amico.
Quando una coppia disse di essere stata male dopo aver cenato da noi, fui dispiaciuto per loro, ma non ero affatto preoccupato delle possibili conseguenze, non perché sapessi che avevamo formalmente rispettato le regole, come avevamo fatto, ma perché sapevo che eravamo capaci e scrupolosi. E infatti le autorità sanitarie che avevano ricevuto quella denuncia accertarono che quei due erano stati male perché in una sola serata avevano incautamente mangiato e bevuto quello che avrebbero dovuto consumare in alcuni giorni.
Non ho idea di come sia andata nel caso del cuoco stellato e personaggio televisivo di cui si parla in questi giorni, il cui errore pare sia stato omettere qualche informazione dal menù e tenere in frigorifero alimenti non tracciati. Certamente quel ristorante ha le risorse per garantire il rispetto formale delle regole. E immagino che chi ci lavora sappia lavorare, ossia abbia la passione e la cura delle sfogline che ai miei tempi facevano i tortellini per le Feste dell'Unità: se è così Cannavacciuolo è a posto.
Le regole sono naturalmente importanti, anzi è indispensabile che ci siano per tutelare sia i consumatori sia coloro che lavorano con scrupolo e coscienza. Ma non pensiamo che un sistema articolato e complesso di regole serva a garantirci quando andiamo a mangiare in un ristorante. Anzi rischiamo che troppe regole - come spesso succede nel nostro paese, non solo in questo settore - creino l'effetto opposto. Chi vuole servirci porcherie potrà continuare a farlo, riuscendo a dimostrare  che sulla carta tutto è in regola e, se scoperto, che le norme sono così complesse da dar adito a lunghi contenziosi. Chi, al contrario, è capace di fare e fa bene perché è l'unico modo in cui lo sa fare, rischia di perdere tempo e risorse per sistemare le carte, magari facendo un po' meno bene quello che saprebbe fare così bene oppure decide di lasciar perdere perché seguire tutte le regole formali gli costerebbe troppo. Non è il caso dello chef di cui si parla, che non ha il diritto di fare l'offeso: può permettersi di lavorare bene e di rispettare le regole. Ma per molti - meno personaggi - non è sempre così.
Il problema anche in questo caso è il valore che diamo al lavoro e al saper fare un lavoro. In una società come la nostra in cui il lavoro non ha valore, non è riconosciuto e infatti non viene pagato in maniera equa, rischiamo di considerare un sistema di regole come l'unico modo per garantire che qualcosa venga fatto bene. Ma non è mai così: una serie di regole - anche se fossero ben scritte, cosa peraltro rarissima - non può sostituire la capacità e la passione, non sostituisce quel quid che ad esempio garantisce che quello che mangiamo sia fatto come deve essere fatto. Surgelato o meno.

domenica 17 dicembre 2017

Verba volant (469): vagina...

Vagina, sost. f.

Perdonatemi: questa definizione è un trucco.
So bene che non avete bisogno di Verba volant per sapere cosa sia e come funzioni questo organo che il Pianigiani, richiamandone l'etimologia dal sostantivo vasvaso, o dall'aggettivo vacuus, vuoto, definisce il "canale che conduce nella matrice".
Ma ormai siete qui e spero abbiate qualche minuto per continuare la lettura.
Credo che conosciate Internazionale, il settimanale d'informazione - ispirato dall'equivalente francese Courrier International - che pubblica articoli della stampa straniera tradotti in italiano. Ovviamente ha anche un sito, davvero ben fatto, in cui ospita articoli e commenti. Sabato 16 dicembre, dando una veloce occhiata al sito, ho visto l'elenco dei sei articoli più letti. Li riporto nello stesso ordine:

Lettere dalla vagina: perché è così difficile raggiungere l’orgasmo
Rinunciando ai toast all’avocado potremo comprare casa?
I sogni senza limiti di Alexander Langer
Si può rimanere amici degli ex?
I nodi della Brexit vengono al pettine
Come sedurre qualcuno al primo appuntamento


Al di là della gioia di vedere che qualcuno parla ancora di quel politico visionario che è stato Alexander Langer, questa lista mi ha fatto riflettere. Il primo titolo richiama un video realizzato dalla giornalista Mona Chalabi e dalla regista Mae Ryan in cui le due autrici incontrano un’educatrice sessuale, una neuroscienziata, una sessuologa e un’esperta di disfunzioni sessuali, per capire come mai per le donne sia più difficile provare piacere rispetto agli uomini. Si tratta di un argomento serio, trattato con competenza, che non concede nulla alla pruderie. Quante delle persone che hanno cliccato su quel titolo hanno effettivamente guardato fino alla fine il video, che dura sedici minuti e fa parte di un ciclo di quattro?
Il secondo titolo apre un articolo di sociologia: una cosa seria nonostante il titolo curioso. Il quarto e il sesto titolo richiamano gli articoli di uno stesso autore, Alain de Botton, uno scrittore svizzero che cerca di applicare i concetti della filosofia alla vita di tutti i giorni: nulla di eccezionale, i suoi articoli sono piccoli concentrati di consigli di buon senso, non rendono migliore la vita, ma neppure peggiore.
Perché i lettori di Internazionale, nella scelta piuttosto vasta di articoli che avevano a disposizione, hanno scelto in maggioranza proprio questi sei? Immagino non siano maniaci sessuali, né fanatici dei toast all'avocado. Probabilmente per la stessa ragione per cui qualcuno di voi - qualcuno più del solito immagino - cliccherà sulla parola vagina guardando il mio blog. Ed è la stessa ragione per cui io l'ho messa, perché se avessi scelto un altro titolo - magari più attinente alla cosa di cui effettivamente ho scritto - non lo avreste cliccato. Io, come sapete, non vivo di quello che scrivo: il numero di voi lettori al massimo solletica la mia vanità, ma per chi ci vive evidentemente questo è un tema dirimente, perché quei clic in più fanno la differenza.
Ho già scritto che mi appassiona poco il tema delle fake news, mi sembra un modo per distrarci da questioni più serie. Ad esempio mi sembra più interessante capire quali sono i criteri secondo cui le notizie, quelle vere e anche quelle false, ci vengono presentate, specialmente nell'informazione sulla rete. Chi decide se un titolo va in alto o in basso? Chi decide se in quel titolo c'è una parola - come vagina - che attirerà la nostra attenzione? Chi decide che per accompagnare quella notizia ci sarà una foto? E che foto? Perché ovviamente la notizia con la foto di una bella donna avrà più possibilità di essere cliccata. Quali sono i criteri attraverso cui chi può ci guida attraverso le notizie?
Apparentemente abbiamo davanti una quantità sterminata di informazioni e apparentemente abbiamo la libertà di sapere tutto. Ma alla fine sappiamo davvero tanto di più di quello che sapeva la generazione che non si informava con la rete? Davvero siamo così liberi di scovare tutte le notizie che vogliamo? O finiamo per cliccare sempre sulle stesse? Ad esempio, una notizia che appare in cima alla lista delle "più lette" la leggiamo perché ci interessa davvero o perché è in quella lista? E cliccando alimentiamo la curiosità di quello che verrà dopo di noi. 
Quanto siamo effettivamente liberi e quanto le nostre scelte sono condizionate? Credo dovremmo cominciare a farci qualche domanda, se non vogliamo essere un vaso vuoto, che qualcuno si prenderà il compito di riempire.

venerdì 15 dicembre 2017

Verba volant (468): materna...

Materna, sost. f.

Nei giorni scorsi il Comune di Bologna ha deciso di cancellare questa frase dalla carta dei propri servizi educativi: "La frequenza alla scuola dell'infanzia è gratuita".
Per i cittadini non cambia nulla: si sono affrettati a spiegare da Palazzo d'Accursio. Ed è vero, almeno per quest'anno: fino a questa decisione le famiglie pagavano soltanto per la mensa, mentre adesso pagheranno la stessa cifra, senza alcun aumento, ma come una retta per la frequenza. Formalmente Merola e i suoi assessori dicono la verità, se si guarda solo all'aspetto strettamente contabile della questione, ma purtroppo non stiamo parlando solo di questo. E non è qualcosa che interessa solo le famiglie che usufruiscono di quel servizio e pochi altri addetti ai lavori, è un tema che dovrebbe coinvolgerci tutti, perché viola un principio e su una questione così centrale come l'educazione.
Dire che la scuola dell'infanzia - quella che frequentano le nostre figlie e i nostri figli dai tre ai sei anni e che noi chiamavamo materna - deve essere gratuita significa dire che quella è scuola, a tutti gli effetti, e quindi, a norma della Costituzione, deve essere "aperta a tutti" e "gratuita". Poi le famiglie possono scegliere anche di non farla frequentare ai propri figli, perché non è obbligatoria, oppure possono scegliere una scuola privata, ma lo stato, in tutte le sue articolazioni, deve garantirne la gratuità. 
Credo sia utile fare un po' di storia, visto che evidentemente anche chi la dovrebbe conoscere pare l'abbia dimenticata. In Italia la scuola materna nasce con la legge n. 444 del 1968. Sono gli anni del centro-sinistra, gli anni in cui - grazie al ruolo del Psi - vengono approvate alcune riforme importanti che segneranno gli anni successivi della vita del nostro paese: la legge sulla scuola media unica, quella sul divorzio, lo Statuto dei lavoratori, sono gli stessi anni in cui si diede finalmente avvio all'autonomia regionale. In questo contesto nacque la scuola materna statale, che si volle appunto "gratuita". Dal momento che però questa legge faticava a diventare pienamente operativa, perché venivano aperte poche materne - visto che la Dc frenava nell'applicazione, perché fino ad allora questo settore era monopolio della chiesa cattolica - le amministrazioni comunali, specialmente nelle cosiddette "regioni rosse", decisero di investire su questo servizio e nacquero quindi le materne comunali, anch'esse ovviamente gratuite. Eliminare questo principio della gratuità significa d'un tratto cancellare tutta questa storia. 
Ricordo che alla fine del secolo scorso, quando l'amministrazione di sinistra di Granarolo, alle porte di Bologna, provò a ragionare sul passaggio delle materne comunali allo stato, perché già allora quei servizi gravavano davvero molto sul bilancio comunale e quella ci sembrava un'opportunità per investire in altri settori, ci fu una levata di scudi da parte delle famiglie e in generale della nostra comunità. Quelle scuole erano sentite parte della vita della nostra piccolissima città e quindi decidemmo di continuare a tenerle, spiegando ogni anno ai cittadini che parte delle loro tasse andavano a coprire i costi di quel servizio, indipendentemente dal fatto che loro ne godessero o meno, perché quello che le famiglie pagavano per la refezione era assolutamente insufficiente a coprire tutte le spese. Il principio che noi che facevamo politica difendevamo - e che la nostra comunità difendeva insieme a noi - era che l'educazione era un bene primario e che, come tale, doveva essere a carico della collettività. 
Decidere che invece è qualcosa che le famiglie devono pagare - al di là della cifra che effettivamente spendono - significa dire che si tratta di qualcosa che la collettività non può e non deve garantire e che le famiglie devono in qualche modo organizzarsi. Le famiglie ricche potranno scegliere se mandare i loro figli a una scuola privata - e di fatto la materna comunale è diventata tale, secondo quello che ha deciso il Comune di Bologna - mentre le famiglie povere dovranno tenere i figli a casa. In fondo è compito delle madri tenere i figli: cosa vogliono queste donne? La parità?
Da persona che ha avuto la bella opportunità di occuparsi dell'amministrazione delle scuole dell'infanzia sento questa decisione come un dolore. Prima di tutto perché sta passando nell'indifferenza generale, senza che scateni una reazione per una scelta politicamente grave. L'assicurazione che le tariffe non cresceranno è bastata a tacitare ogni dubbio. Evidentemente noi "vecchi" - o noi "di prima", come preferite - abbiamo una qualche responsabilità, se non siamo riusciti a trasmettere l'idea. In qualche modo abbiamo difeso quei servizi, in qualche caso li abbiamo ampliati e migliorati, abbiamo fatto degli investimenti, ma non siamo riusciti a raccontare la politica, a dire che non si trattava solo di bilanciare costi e ricavi, ma era una bandiera della nostra politica, del nostro essere amministratori della cosa pubblica. E anche alcune nostre decisioni di allora sono andate nella direzione che ha portato alla cancellazione della gratuità di oggi: la scelta di finanziarie le scuole private, perché quando non riuscivamo più a garantire il servizio a tutti, abbiamo preferito appoggiarci alle strutture private che già c'erano, la scelta di preferire il personale del privato rispetto a quello del pubblico, perché costava meno - ma perché aveva e ha meno diritti - la scelta di allontanarci dall'idea iniziale, che la materna - come il nido per altro - è scuola e quindi ogni investimento in educazione non è una spesa, ma un modo di rendere migliore il futuro della comunità. Quando abbiamo smesso di fare i politici e abbiamo cominciato a fare i ragionieri abbiamo fatto partire la macchina che è arrivata agli attuali amministratori di Bologna, che giustificano la loro decisione, spiegando che più bambini si portano il pasto da casa e quindi non pagano la refezione e quindi i conti non tornano: per questo tutti devono pagare la retta di frequenza. Ma le famiglie decidono di non servirsi della refezione scolastica, perché è cara ed è scadente, perché è in mano a privati che hanno il solo obiettivo di guadagnare. 
E' il cane che si morde la coda: il Comune offre un servizio scarso, meno persone lo usano, quelle poche che lo usano lo devono pagare di più, intanto il Comune ha sempre meno soldi da spendere - perché i guadagni se li intasca il privato gestore - e il servizio diventa sempre più scarso. E' il modo per smantellare la scuola pubblica, a favore dei privati, che ci guadagnano due volte: oggi, perché sono gli unici beneficiari delle rette alte e dei servizi scadenti e soprattutto domani, perché, chiuse o ridotte al lumicino le scuole pubbliche, loro potranno avere, ancora una volta, il monopolio dell'educazione delle nostre figlie e dei nostri figli. 
Se solo volessimo saremmo in grado di fermare questo meccanismo perverso. Il Comune di Bologna ha deciso che non vuole farlo, che vuole la scuola in mano ai privati. Noi dobbiamo tornare a sventolare la bandiera della scuola "aperta a tutti" e "gratuita". E dovremmo rilanciare: se oggi riscrivessimo da sinistra la legge n. 444 dovremmo dire che la materna deve anche essere obbligatoria, perché fondamentale per la crescita delle nostre figlie e dei nostri figli, specialmente in una società come la nostra, fatta di tante famiglie che arrivano da tante parti del mondo.
La materna gratuita e obbligatoria sarebbe davvero una bella battaglia.   

mercoledì 13 dicembre 2017

Verba volant (467): alibi...

Alibi, sost. m.

Come recita un antico adagio: la mamma dei creativi è sempre incinta. A me piace guardare le pubblicità: mi pare raccontino quello che siamo meglio di molti altri generi letterari.
Da qualche giorno vedo la réclame di una onlus che cerca sostegno economico per finanziare le proprie campagne a favore dei poveri in Italia, perché "nel nostro paese nessuno deve conoscere la fame". Non conosco quell'associazione e non ho motivo per dubitare che il loro lavoro sia utile e prezioso e quindi che i soldi che doneremo saranno impiegati nella maniera giusta. Ma credo sia significativo quell'insistere durante tutto lo spot sul fatto che gli aiuti sono destinati ai poveri in Italia.
Quante volte abbiamo sentito dire: con tutti i problemi che ci sono qui, perché dovremmo aiutare quelli là? E "quelli là" sono di volta in volta le donne e gli uomini dell'Africa o dell'Asia o dell'America latina. Questo spot offre finalmente una risposta: i poveri in Italia ci sono, dacci i soldi che noi li aiutiamo. Una sorta di leghismo della solidarietà che, secondo quell'associazione e quei creativi, dovrebbe smontare l'alibi di chi non vuol donare agli "altri", di chi dice che ci sono altre priorità. Non so quanto questa campagna sia efficace - mi auguro per quell'associazione che lo sia - ma francamente credo che quelli che non donano per le campagne di solidarietà internazionale non lo faranno neppure questa volta. Perché ci sarà sempre un nuovo alibi.
Lo spot racconta la vicenda di Mauro, un clochard come dicono quelli che parlano bene, uno dei tanti che per qualche motivo si è ritrovato in mezzo a una strada. Quelli che cercano una ragione per non tirare fuori neppure un centesimo troveranno subito una giustificazione per la loro grettezza: ma questo Mauro poi come mai si è ridotto così? e non potrebbe cercarsi un lavoro? E poi arriva la madre di tutte le scuse: gli italiani sono così, preferiscono chiedere l'elemosina che lavorare. E questo lo dicono gli stessi che due minuti prima, quando è passato lo spot di Emergency o di Amref, in cui i poveri sono stranieri, hanno detto che bisogna aiutare prima gli italiani.
Alibi in italiano è un sostantivo, ma è una parola presa di peso dal latino: in quella lingua l'avverbio alibi significa in un altro posto. Spesso quando c'è da aiutare gli altri, quelli che per colpa loro o per mera sfortuna o per nostra responsabilità - la maggioranza dei casi - sono in difficoltà, noi siamo da un'altra parte. O forse sono i poveri - italiani o stranieri poco importa - che noi vogliamo sempre che stiano da un'altra parte.

lunedì 11 dicembre 2017

Verba volant (466): gelato...

Gelato, sost. m.

Ci sono storie industriali capaci di raccontare un'epoca. Probabilmente il nome di Giovanni Tanara non vi dice nulla e neppure quello di Italgel, però se vi dico Coppa del nonno e Mottarello scommetto che riesco a strapparvi un sorriso: perché tutti noi abbiamo un ricordo legato ai gelati prodotti nella fabbrica di Parma fondata nel 1960 dall'erede della fiaschetteria Tanara, a cui l'attività di famiglia negli anni del boom cominciò a stare stretta e che riuscì in poco tempo a fare della città emiliana la capitale del gelato.
La storia di questa azienda è un pezzo importante della storia della crescita economica del nostro paese nella seconda metà del Novecento, racconta la capacità di alcuni imprenditori e di moltissimi lavoratori di valorizzare le proprie capacità per realizzare prodotti di qualità. Quando parliamo delle eccellenze del made in Italy in campo alimentare non possiamo farci convincere che il primo sia stato quel paraculo renziano che vediamo negli spot dei telefonini e che vuole convincerci di aver inventato il "mangiar bene", ma dobbiamo pensare a uomini come Tanara e alle centinaia di lavoratrici e di lavoratori che hanno prodotto i gelati nello stabilimento di Parma. Sta lì la vera eccellenza: la capacità di applicare alla produzione industriale e di massa le capacità di una bottega artigiana, la capacità di trasformare il proprio saper fare in una ricchezza condivisa.     
Ma non è solo una storia del passato, perché ancora oggi le vicende industriali sono capaci di raccontare un'epoca, anche se in un modo del tutto diverso e purtroppo drammatico. Ovviamente il nome Froneri non vi dice nulla, ma è una storia che merita di essere raccontata. Così si chiama la joint venture che le multinazionali Nestlé e R&R hanno creato nel 2016 per produrre gelati, compresi tutti quelli dei marchi Italgel e Motta. Tra le prime decisioni di questa nuova azienda c'è stata quella di chiudere lo storico stabilimento di Parma. Perché? A dire il vero nessuno lo ha spiegato, ma verosimilmente perché i padroni della Froneri preferiscono produrre gelati in altri paesi, dove evidentemente spendono meno e quindi contano di guadagnare di più.
La decisione di chiudere lo stabilimento di Parma significa prima di tutto licenziare centoventi persone; insieme a loro perderanno il lavoro anche ottanta stagionali e cinquanta lavoratori dell'indotto: in tutto si tratta di duecentocinquanta persone, duecentocinquanta famiglie che di punto in bianco si ritroveranno a brevissimo senza un lavoro. E non perché lo stabilimento di Parma non produca utili o perché l'azienda sia in perdita, ma semplicemente perché la Froneri, al di là della retorica di quello che è scritto nei loro comunicati stampa e sul loro sito, è nata con il preciso obiettivo di licenziare in Europa - ci sono altri ottocentocinquanta lavoratori a rischio, oltre a quelli di Parma - per portare la produzione in altri paesi.
Il dramma è prima di tutto per la vicenda di queste persone, che stanno lottando con coraggio e con caparbietà - mostrando nella lotta la stessa passione con cui fanno il proprio lavoro - ma anche per un modo di concepire il lavoro in cui il saper fare, la competenza, la passione per quello che si fa e si sa fare non contano nulla. I padroni della Froneri non sono più imprenditori, ma burocrati, che applicano schemi in cui il lavoro ha perso ogni valore.
Per questa ragione - e per la storia che c'è dietro ogni Mottarello - Il tema non è uno scontro tra lavoratori del vecchio mondo e quelli dei paesi cosiddetti emergenti - e per fortuna i lavoratori lo hanno capito, dal momento che ci sono agitazioni e proteste negli stabilimenti Froneri in giro per il mondo contro la decisione di licenziare i loro colleghi di Parma - ma lo scontro tra un potere che non vuole riconoscere valore al lavoro e le persone che non solo vivono di quel lavoro, ma che quel lavoro hanno contribuito a far nascere, crescere e sviluppare. Le lavoratrici e i lavoratori della Froneri sono la ricchezza di quell'azienda, non un costo, perché loro sanno fare il gelato, possono continuare a farlo e possono insegnare ad altri a farlo. E sono una risorsa per il nostro paese, perché difendono - oltre ai nostri ricordi di bambini, per cui quel gelato era il premio per una cosa fatta bene - la forza economica di un settore vitale della produzione industriale italiana. Parma non può perdere la fabbrica di gelati fondata da Giovanni Tanara, duecentocinquanta famiglie non possono perdere quell'impiego, noi, tutti noi, dobbiamo lottare con i lavoratori della Froneri perché cambi l'idea di lavoro nel nostro paese, perché il lavoro torni a essere un valore.

martedì 5 dicembre 2017

Verba volant (465): brugola...

Brugola, sost. f.

Gli antichi greci credevano che nell'estremo nord del continente europeo ci fosse un paese perfetto - che chiamavano Iperborea - abitato da un popolo bello e felice, che aveva caratteristiche quasi divine: succede quando si immaginano cose che non si conoscono.
Molti secoli sono passati da allora, anche se spesso continuiamo a vivere in un mondo che ci siamo costruiti da soli, abitato soltanto dai nostri sogni e dalle nostre illusioni. Certo da quelle fredde regioni del nord sono arrivate donne come Greta Garbo, Ingrid Bergam, Anita Ekberg, donne che sono state protagoniste dell'immaginario di intere generazioni. E poi è arrivata la prassi di una socialdemocrazia di governo, che era oggetto di invidia per noi "sinistri" dell'Europa del sud, che dovevamo limitarci alla teoria e all'opposizione. E poi è arrivata Ikea. E così ci siamo svegliati.
Anche Ikea, a suo modo, è stata rivoluzionaria. Proprio in quei grandi magazzini, per la prima volta, noi maschi abbiamo visto nei "nostri" bagni i fasciatoi; e questo avrebbe dovuto interrogarci sulle "virtù" dei nostri omologhi svedesi, che evidentemente non si vergognano di cambiare i loro pupi in un luogo pubblico. Non so quanto quei fasciatoi nei bagni degli uomini in Italia siano stati effettivamente utilizzati, ma sono lì, come una sorta di memento: ricordati che gli svedesi lo fanno. Abbiamo visto nei loro cataloghi famiglie che non definivamo ancora tali; facciamo fatica anche adesso a riconoscere che sono famiglie proprio come la nostra, ma in questo un po' siamo migliorati, anche grazie a Ikea. Ma soprattutto abbiamo visto i prezzi bassi e così abbiamo pian piano riempito le nostre case di mobili svedesi dai nomi impronunciabili, che, armati delle nostre brugole, abbiamo montato, spesso proferendo improperi che anche uno svedese avrebbe capito benissimo. 
C'è qualcosa però che ancora fatichiamo a vedere. Quei prezzi abbordabili sono certo frutto delle lungimiranti scelte imprenditoriali dei padroni di Ikea, che con le loro scatole sempre più piccole hanno ottimizzato i costi di trasporto e di stoccaggio, ma anche delle politiche aziendali tese a ridurre al massimo i diritti dei lavoratori. Ce l'hanno ricordato un paio di anni fa i facchini - rigorosamente immigrati, e non dalla Scandinavia - che lavoravano - e lavorano ancora - nel grande centro di smistamento Ikea di Piacenza; ce l'ha ricordato pochi giorni fa Marica Ricutti, licenziata dopo diciassette anni di lavoro, perché - viste le sue condizioni familiari, madre separata con due figli, di cui uno disabile: una famiglia non da catalogo, ma assolutamente vera - non poteva accettare i nuovi orari imposti dall'azienda; ce l'ha ricordato il dipendente Ikea di Bari, licenziato dopo undici anni di lavoro, perché la sua pausa era durata cinque minuti in più del tempo consentito. Per fortuna ce l'hanno ricordato i loro colleghi che hanno deciso, nonostante tutto, nonostante non sia mai facile, di fare sciopero, hanno deciso di mobilitarsi, anche se adesso rischiano, perché i padroni di Ikea vanno per le spicce, non vogliono piantagrane, e magari vogliono solo lavoratori più giovani e ancora più facilmente licenziabili grazie al jobs act.
E ora quei lavoratori ci chiedono giustamente un aiuto, perché la loro lotta è anche la nostra. E' una nostra lotta non solo perché anche noi siamo lavoratori, ma perché siamo consumatori e, in quanto tali, abbiamo diritto di avere un mobile funzionale a un prezzo ragionevole, ma questo diritto non può tradursi nello sfruttamento di un'altra persona, di quella che lo costruisce, di quella che lo trasporta, di quella che lo vende.
Le grandi dive svedesi ormai le possiamo vedere solo in film in bianco e nero, la socialdemocrazia scandinava non c'è più, perché non è riuscita a capire che quel mondo di cui era stata protagonista è finito e che il capitalismo l'ha spazzata via, senza che fosse capace di organizzare una qualche reazione. Non c'è più un mondo che avevamo idealizzato; e gli Iperborei non sono mai esisti. C'è rimasta Ikea, ci sono rimasti i padroni di Ikea, che possono permettersi di fare quello che vogliono. E noi siamo qui, che brandiamo le nostre brugole.

lunedì 4 dicembre 2017

Verba volant (464): uccidere...


Uccidere, v. tr.

E' passato un anno da quel 4 dicembre. Ed è passato invano.
Non sono pentito del mio NO. Anzi. Sono sempre più convinto che quel voto sia stato importante: non oso pensare cosa sarebbe successo se in quel momento avessero avuto l'opportunità di stravolgere la Costituzione. Meglio che non lo abbiamo sperimentato.
Capita a volte che Davide sconfigga Golia, ma perché la storia finisca con vera vittoria - come avviene nella leggenda biblica - occorre che Golia venga ucciso. Altrimenti alla lunga il più debole è destinato a soccombere. Sempre. Golia non è affatto morto, anzi in qualche modo è stato rafforzato da quella sconfitta, e noi non abbiamo saputo sfruttare le possibilità che quella vittoria ci avrebbe potuto concedere. E quindi, nonostante tutto, siamo noi gli sconfitti del 4 dicembre.
Dobbiamo in qualche modo ringraziare renzi, perché probabilmente se non fosse stato per la sua arrogante presunzione avremmo rischiato di perdere. Immagino abbiano imparato la lezione e la prossima volta il loro attacco alla Costituzione sarà meno volgare, ma non meno violento. Hanno visto che in fondo alle persone importa poco della Costituzione, alla maggioranza bastava dare un calcio in culo a renzi e, ottenuto il risultato, sono stati tutti contenti e se ne sono tornati tranquilli a casa.
Sapevamo che il NO era un fronte eterogeneo, che non avremmo mai potuto sommare pere e mele, ma perché servisse a noi, alla sinistra di questo paese, avremmo dovuto dire che da lì cominciava una pagina nuova, radicalmente diversa. Non lo abbiamo fatto. Di fronte al più violento attacco che il capitalismo abbia sferrato contro le istituzioni democratiche del paese, dopo le stragi di stato degli anni Settanta, noi avremmo dovuto impostare la battaglia su basi nuove: riconoscere il nemico, accettare lo scontro e agire di conseguenza. Avremmo dovuto accettare che il mandante di renzi - e quindi il nostro vero nemico - era il capitalismo che, con lo stravolgimento dei principi fondamentali della Costituzione del '48, voleva anche simbolicamente segnare un cambiamento d'epoca, la fine delle democrazie nate al termine del secondo conflitto mondiale e del primato della politica, a favore della possibilità del capitalismo di rompere gli argini in cui era stato costretto e di scatenare tutta la propria smodata violenza. Quelle costituzioni rappresentano il nostro baluardo, forse l'unico, e quindi la loro abrogazione segnerà la fine della guerra di classe con la vittoria del capitalismo. Invece siamo stati un anno a discutere di nulla e alla fine abbiamo deciso che il problema non è il dominio del capitale, ma il modo in cui in questi vent'anni abbiamo tentato di rapportarci a esso, il modo in cui siamo venuti a patti con esso. E infatti siamo ancora qui che pensiamo come il capitalismo possa essere mitigato.
Paradossalmente - e lo vediamo purtroppo in questi giorni con la nascita dell'ennesimo "nuovo" centrosinistra - abbiamo deciso di riportare indietro le lancette dell'orologio di una ventina d'anni. E' come se di fronte al bandito a cui abbiamo messo in mano la pistola e che con quella ci ha ucciso chiedessimo di rivivere quel momento, ma solo per scegliere un'altra arma e un altro punto in cui indirizzare quello sparo, che per noi sarà sempre e comunque mortale. Non esiste un capitalismo buono, non esiste un modo per temperarne gli esiti, non possiamo continuare a offrire al nemico che ci vuole uccidere l'occasione di farlo, dobbiamo pensare come noi possiamo uccidere lui.
Naturalmente spero che capiate che io uso una metafora quando dico che noi dobbiamo uccidere il capitale: la soluzione non è sparare a un banchiere o a un presidente di una corporation. E' il tragico errore che fecero gli anarchici tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, perché per ogni re ucciso ce n'era un altro pronto a prenderne il posto. E così, ucciso un banchiere, altri ne prenderanno il posto. Ma non è affatto una metafora dire che il capitale ci uccide, lo fa letteralmente, perché ad esempio continuando su questa strada, continuando a privatizzare selvaggiamente la sanità, le cure mediche saranno una possibilità solo per quelli che se le possono permettere, mentre i poveri saranno lasciati morire. Continuare ad aumentare l'età in cui le persone possono andare in pensione significa accettare che ci saranno più morti sul lavoro. Far crescere la povertà - e non è un caso che uccidere etimologicamente significhi tagliare - vuol dire uccidere le persone. Nel Mediterraneo già oggi sono sepolte migliaia di persone uccise dal capitalismo. Gli altri ci uccidono e noi non facciamo nulla. O al massimo cerchiamo di curare le ferite dei superstiti. Non ci può bastare. A me non basta più.
Io per queste ragioni ho votato NO il 4 dicembre dell'anno scorso. E lo rifarei. Forse è l'ultima cosa che noi che portiamo la responsabilità storica di aver ucciso la sinistra, abbiamo potuto fare. Altri dovranno fare quello che noi non abbiamo saputo fare. 

venerdì 1 dicembre 2017

Verba volant (463): albero...

Albero, sost. m.

C'è stato un tempo - meno lontano di quello che potremmo pensare - in cui conoscevamo i nomi degli alberi. In quel tempo non ci bastava dire albero, perché sapevamo che si trattava di una quercia o di un olmo o di una qualche altra specie di pianta perenne legnosa con il fusto. Anzi allora la parola albero - derivando dal latino albus, che significa bianco - indicava il pioppo, la specie più diffusa nella nostra pianura, che era molto più boscosa di quanto adesso possiamo immaginare. E Boccaccio infatti - che conosceva i diversi nomi delle piante - poteva ancora scrivere 
fra gli strabocchevoli balzi, surgeva d’alberi, di querce, di cerri e d’abeti un folto bosco.
Raccontano gli antichi che Ade, il dio degli inferi, si innamorò della ninfa Leuce, la bianca, la più bella delle figlie di Oceano. Leuce divenne la regina degli inferi, ma era mortale e quando il suo tempo arrivò, Ade la fece rinascere nei Campi Elisi, sotto le spoglie di un pioppo bianco, accanto alla fontana di Mnemosine, la dea della memoria. Si tratta di una storia antichissima, probabilmente anteriore a quella di Persefone, anch'essa amata da Ade e divenuta sua sposa. E infatti la foglia del pioppo è scura da una parte e chiara dall'altra, per indicare i due regni a cui Leuce ha avuto accesso, quello della vita e quello della morte. Così come si racconta che Persefone trascorra metà dell'anno negli inferi e metà sulla terra e il suo ritorno porti la primavera e le messi. Gli uomini hanno sempre avuto paura del dio degli inferi, comunque lo abbiano chiamato, ne temevano il giudizio, ma sapevano anche che la morte è indispensabile alla vita, che la natura ha i suoi cicli e che accettarne l'ineluttabilità - e anche l'imponderabilità - è l'unico modo per ritagliarsi un momento di speranza. Sapere che in un qualche luogo a cui non giungeremo mai c'è quel pioppo bianco, simbolo dell'amore, accanto a quella fonte, simbolo della memoria, ci rende un po' meno gravoso vivere su questa terra.  
Anche per questo mi ha preoccupato sapere che in Italia nel 2017 sono andati a fuoco già 141mila ettari di bosco. Il dato va letto insieme a un altro: negli ultimi centocinquant'anni, ossia dall'unità d'Italia, nel nostro paese gli alberi sono aumentati. Nonostante gli incendi, ci sono più alberi, più boschi, ma si tratta troppo spesso di aree che, a differenza di quello che avveniva nel passato, sono senza alcun controllo, sono di fatto impenetrabili ai necessari interventi di manutenzione e di difesa, e quindi da possibile risorsa rischiano di diventare pericoli o comunque soggetti a degrado e incendi. Anche perché sono morti quelli della generazione che conosceva i nomi degli alberi e noi non ci siamo dati la briga di impararli. Per noi sono alberi e basta; non più pioppi, querce, cerri, abeti e così via, in una miriade di varianti, tante quante sono le lingue degli uomini; e le storie che hanno raccontato. E tanti quanti sono gli alberi.