mercoledì 31 luglio 2013

Duccio Galimberti parla ai cittadini di Cuneo il 26 luglio 1943

Cittadini di Cuneo, italiani,
la notizia che da tanto tempo attendevamo è giunta. Mussolini è stato deposto o, come dice l'eufemistico comunicato di Sua Maestà il Re, ha rassegnato le dimissioni. Da giorni aspettavamo qualcosa del genere. La situazione militare e sociale dell'Italia si era fatta insostenibile. Ogni giorno nuove sconfitte si aggiungevano a quelle patite sul fronte africano e su quello russo. Metà della Sicilia è stata occupata dagli Angloamericani. Ogni giorno centinaia di soldati italiani cadono in combattimento e tanti civili muoiono sotto i bombardamenti. Molte città sono colme di macerie. Dove non si muore per armi, si rischia di morire di fame. Manca il pane, manca l'indispensabile per vivere. Siamo arrivati a questo punto per una guerra assurda imposta al paese da una dittatura che ha distrutto non solo la vita pubblica della nostra patria, ma anche la sua dignità e il suo onore.
L'iniziativa del Re è stata accolta con tripudio dal popolo italiano. Ovunque la folla festante invade le piazze, abbatte i simboli del regime, riscopre la gioia del parlare di politica, di lanciare slogan senza il terrore della denuncia e dell'arresto. Tutti noi partecipiamo a questo sentimento. Tutti noi viviamo il senso di liberazione che la caduta della dittatura suscita.
Ma non lasciamoci prendere dall'entusiasmo ingenuo. La deposizione di Mussolini non riporta indietro le lancette della storia, come se vent'anni di regime non fossero mai esistiti e l'Italia potesse riavere di colpo libertà, pace e benessere.
Il Duce non è stato travolto da una rivoluzione popolare, ma da una manovra di palazzo. Anche noi sentiamo gridare "Viva il Re", "Viva Badoglio", sappiamo però che la rottura tra il Re e Mussolini è giunta molto tardi, dopoché tanto sangue italiano è stato vanamente versato per soddisfare le ambizioni sfrenate di un dittatore. Ancor più siamo preoccupati per gli obiettivi che intende perseguire il nuovo governo e per i metodi con cui vuole agire. Il maresciallo Badoglio, ora primo ministro, nel suo messaggio alla nazione ha dichiarato: "La guerra continua a fianco dell'alleato germanico. L'Italia mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni" e ha aggiunto: "Chiunque turbi l'ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito".
Ora io mi chiedo: come può continuare la guerra a fianco dei tedeschi e come possono al contempo le millenarie, o anche solo secolari, tradizioni nazionali essere rispettate? Il balcone da cui vi parlo, affiancato da tanti amici, sinceri patrioti, di diverso orientamento politico, è quello stesso dal quale nel novembre 1918 mio padre assieme a voi cuneesi salutò la battaglia di Vittorio Veneto, la sconfitta degli Imperi centrali e, con la liberazione di Trento e Trieste, il compimento del Risorgimento. È contro il dominio austrogermanico che il popolo italiano ha dovuto combattere per conquistare la sua indipendenza. E allora, se crediamo nel destino e nel senso della storia dell'Italia, noi ribattiamo che, sì, la guerra continua, ma fino alla cacciata dell'ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista, fino alla vittoria del popolo italiano che si ribella contro la tirannia mussoliniana.
Ma forse, potrebbe obiettare qualcuno, il Re e Badoglio agiscono in modo contraddittorio e occulto perché pensano di poter gradualmente uscire dal conflitto senza che l'Italia debba patire danni ulteriori.
Come pensano di poter ingannare i tedeschi? Da quando gli Angloamericani sono sbarcati in Sicilia, molte divisioni tedesche hanno attraversato le Alpi e non tutte si sono dirette in Sicilia a combattere, ma hanno preso posizione in altri punti strategici della penisola. L'invasione dell'Italia da parte germanica è già cominciata. Per questo non possiamo accodarci a una oligarchia che cerca, buttando a mare Mussolini, di salvare se stessa a spese degli italiani. Il Re e Badoglio con le loro mosse miopi e grette rischiano di consegnarci indifesi e impreparati nelle mani di un feroce occupante. Rischiano anche di far risorgere o lasciar vivere più rigoglioso di prima il fascismo, anche se orfano del Duce. La Milizia è stata messa al sicuro, inserendola nell'esercito: un riconoscimento mai ottenuto neppure negli anni di maggior forza del regime. I fascisti possono continuare a camminare impettiti per le strade e esibire il loro potere. Gli antifascisti che in questi anni hanno osato sfidare il carcere o il confino restano in prigione, e molti altri sono destinati a raggiungerli in quei luoghi di sofferenza.
Mentre io parlo, le autorità militari stanno traducendo in bandi le direttive di Badoglio e del generale Roatta, che impongono il coprifuoco, proibiscono ogni manifestazione e minacciano il ricorso alle armi contro i civili. Sono ordini spietati che vengono motivati con le esigenze di guerra. Ma la loro guerra è incompatibile con la volontà di liberazione e di rinnovamento del paese. L'Italia vuole liberarsi dal giogo della dittatura e vuole anche farla finita con la barbarie nazista che tante rovine ha portato all'Europa. La guerra continuerà, perché i tedeschi e i loro complici fascisti non rinunceranno a perdere le posizioni di forza possedute in Italia. La guerra dovrà quindi continuare, ma non sarà quella di cui parla il maresciallo Badoglio: sarà guerra di Liberazione contro i tedeschi e i fascisti.
Il prezzo da pagare sarà alto e andrà ad aggiungersi a quelli già pagati dall'inizio della guerra, anzi i patrioti saranno costretti a prendere le armi non solo contro i tedeschi, ma anche contro i fascisti. Sarà una pena atroce combattere contro degli italiani, ma inevitabile. Pensate: come è possibile che una nazione la quale per vent'anni ha sopportato le continue violazioni dei diritti e della dignità umana da parte di una dittatura, fino alla proclamazione delle guerre di aggressione, in poche ore ne venga liberata dall'alto da chi fino a ieri spartiva il potere con Mussolini oppure da un esercito straniero, sia pure inviato da paesi democratici?
No, il Risorgimento non sarebbe stato possibile senza il sangue versato dai cospiratori di Mazzini, senza l'eroismo e l'audacia di Garibaldi. Solo una libera scelta, compiuta dal basso, di massa, può riscattare gli italiani dalla vergogna di vent'anni di fascismo.
Sarà una guerra popolare e nazionale; dunque, combattuta volontariamente dal popolo preparato e guidato da chi è consapevole della gravità del momento storico. Una guerra che esige, accetta e anzi cerca, il sacrificio non mai è sterile, mai. Soltanto essa, tramontate le menzogne e le illusioni del regime, può creare i nuovi valori morali di cui l'Italia ha bisogno. Soltanto essa può garantire all'Italia quella vera pace a cui aneliamo, contribuendo alla costruzione di un nuovo ordine europeo democratico e confederale.
Non potrà essere una parte politica sola a costruire o ricostruire quei valori. Proprio qui nel mio studio, si sono or ora incontrati esponenti dei partiti liberale, socialista e comunista, della Democrazia cristiana e del Partito d’Azione. Assieme abbiamo costituito un Comitato provinciale provvisorio che lancerà un appello alla popolazione. Chiediamo giustizia, non vendetta. Vogliamo che le insegne fasciste siano rimosse anche dai luoghi presidiati dalle forze militari, al generale Vasarri comandante di zona avanzeremo questa richiesta e inoltre chiederemo che le direttive sull'ordine pubblico siano applicate con prudenza e buon senso. Dodici ore fa, dopo vent'anni di oppressione, abbiamo riconquistato la libertà. Non vogliamo separarcene mai più.
Viva l'Italia, viva la libertà!

martedì 30 luglio 2013

"Lezione su Omero" di Charles Reznikoff


Il corpo di Ettore avrebbe anche potuto riportarlo un dio,
magari Febo stesso che gli impediva di decomporsi,
invece dovette andare Priamo in persona a prenderlo;
alla stessa maniera Pallade avrebbe potuto facilmente uccidere Ettore,
e invece dovette farlo Achille.
Quando lui mancò il colpo fu lei a passargli la lancia
ma dovette scagliarla lui, una seconda volta.

Alle porte di Troia, secondo Omero, i greci vittoriosi
parlarono "parole alate" e Achille
era detto "piè-veloce".
Perché dunque noi di New York
dovremmo rimproverarci
di avere sempre fretta?

Quando l'augure dei greci, Calcante,
fu convocato da Achille
per dar conto della pestilenza
che decimava i greci più rapidamente dei troiani
per prima cosa chiese
protezione al gran comandante; poi, come racconta Omero,
si decise a dar la colpa al re Agamennone.
Ora quando mai
profeti ebrei dello stampo di Nathan, Amos o Geremia,
avrebbero avuto esitazioni
o avrebbero chiesto protezione a un semplice mortale,
forti com'erano della loro fede nel Signore?

È certo che l'uomo di Dio che venne dal regno di Giuda
per gettare biasimo sul re Gereboamo d'Israele
venne ucciso al ritorno da Bet-El.
Chissà che a ucciderlo non sia stato un soldato del re?

sabato 27 luglio 2013

"Salve e addio" di Charles Reznikoff


Mentre aspettavo di attraversare,
vidi un uomo che era stato a scuola con me:
eravamo stati amici
e ci riconoscemmo all'istante.
"Caldo, eh?" dissi,
come se ci fossimo appena conosciuti.
"Ha toccato i novantacinque."
"Oh no" rispose lui. "I novantacinque non li ho ancora toccati!"
Poi sorrise un po' tristemente e disse:
"Sai, sono così stanco
che per un attimo ho pensato che stessi parlando della mia età."

Camminammo ancora un po' insieme e s'informò su cosa facevo.
Ma, naturalmente, non gliene importava nulla.
A mia volta, per cortesia, gli chiesi sue notizie
e anche lui rispose sbrigativamente,
In cima alle scale della stazione della metro disse:
"Mi dovrei vergognare, lo so,
ma non mi ricordo più come ti chiami."
" Non ti vergognare" risposi
"io neanch'io mi ricordo come ti chiami tu."
Dopodiché entrambi sorridemmo amaramente
ci scambiammo i nomi e ci lasciammo.

venerdì 26 luglio 2013

Considerazioni libere (373): a proposito di scandalo kazako...

Giustamente in questi giorni la nostra attenzione è stata rivolta alla maniera vergognosa e indegna in cui il sedicente governo italiano ha gestito, su ordine di quello kazako, l'arresto e l'espulsione della moglie e della figlia di un esponente dell'opposizione di quella apparentemente lontana repubblica asiatica, nata dalle ceneri dell'Unione sovietica. Non torno sull'argomento, su cui ho già avuto occasione di fare qualche breve commento su facebook: i penosi farfugliamenti del ministro dell'interno, l'imbarazzato silenzio del ministro degli esteri - solitamente loquace quando c'è da difendere i diritti delle donne - la difesa di entrambi da parte dell'anziano caudillo del Quirinale, nel nome della "sacra" governabilità, bastano da soli a commentare questo triste episodio della nostra storia recente, che - sappiamo bene - non sarà l'ultimo. Sottolineo un'interessante lettura "femminista" del caso fatta oggi da Ida Dominijanni, nell'editoriale di Internazionale; ne riporto un breve passo.
L'Italia ha di fatto consentito l'espulsione di una donna in quanto moglie, dando per scontato, in barba alla titolarità individuale dei diritti fondamentali, che il destino di Alma Shalabayeva si giocasse di riflesso a quello del marito.
Per amore di sintesi i mezzi di informazione hanno cominciato a parlare di "scandalo kazako"; per una volta concordo sull'uso di questo termine, ma non sono affatto d'accordo sull'oggetto. Il vero scandalo non si è consumato qualche settimana fa tra una villetta di Casal Palocco, le segrete stanze dell'ambasciata kazaka e gli uffici di anonimi e incompetenti passacarte della burocrazia italiana; il vero "scandalo kazako" si consuma da anni, perché è da molto tempo che il nostro paese considera quella dittatura asiatica come un partner privilegiato, dal punto di vista politico ed economico.
Le cose infatti bisogna cominciare a chiamarle con il loro nome: il Kazakistan è una dittatura. Punto. Nursultan Nazarbayev guida, con modi decisamente autoritari, quel paese, fin dalla sua indipendenza, nell'ottobre del 1990, come prima lo governava, con toni ugualmente autoritari, come segretario del Partito e quindi rappresentante del regime comunista: di fatto per il popolo kazako l'89 è passato invano. Nel 1994, quando, a seguito di forti contestazioni delle opposizioni, la Corte costituzionale decise di invalidare le elezioni nelle quali aveva vinto, grazie a dei brogli, il partito del presidente, Nazarbayev sciolse il parlamento e si attribuì per decreto il potere legislativo; la successiva "nuova" costituzione ampliò i già ampi poteri del presidente e un referendum ha prorogato il mandato presidenziale fino al 2022; considerato che il presidente è nato nel 1940, il "nuovo" mandato è quasi a vita, anche se Napolitano insegna che è proprio superati gli ottant'anni che si comincia ad assaporare la gioia del potere, facendo di tutto - lecito ed illecito - per rimanerci.
La fortuna di Nazarbayev, oltre alla longevità e alla buona salute, è la ricchezza petrolifera del suo paese. Il petrolio ha reso Nazarbayev un interlocutore affidabile per tutte le cancellerie europee, in particolare per i governi di centrosinistra. L'ex presidente del consiglio italiano Prodi, l'ex cancelliere austriaco Gusenbauer, l'ex presidente polacco Kwaśniewski fanno tutti parte di un comitato, l'International advisory board, istituito da Nazarbayev; Tony Blair è consulente del presidente kazako, un incarico che gli richiede un certo impegno, visto che riceve, secondo quanto riferito dalla stampa britannica, 9 milioni di euro all'anno. I buoni rapporti che Nazarbayev intrattiene con tutte queste persone altolocate ha permesso all'Europa, vincendo la concorrenza russa e cinese, di poter sfruttare il giacimento di Kashagan, il più grande scoperto negli ultimi dieci anni, con un potenziale enorme, ancora da quantificare esattamente. E la "nostra" Eni in questo affare fa la parte del leone, dal momento che guida il consorzio incaricato dell'esplorazione e dello sfruttamento. Nell'ottobre del 2007 il presidente del consiglio e il ministro per il commercio con l'estero italiani, allora rispettivamente Prodi e Bonino - vedi le coincidenze a volte - hanno guidato una delegazione di duecento imprenditori italiani con l'obiettivo di rendere sempre più stretti i rapporti tra i due paesi. Italia, Kazakistan; una faccia, una razza. Di cosa sia la faccia è facile indovinare.
Il giacimento di Kashagan si trova vicino al delta del fiume Ural, la frontiera geografica tra Europa e Asia; si tratta di un'isola, nella parte settentrionale del Mar Caspio: il petrolio si trova nel mare là sotto. I rischi ambientali e sociali legati a questo progetto sono altissimi, come da anni cercano di far sapere associazioni internazionali e, naturalmente inascoltati, alcuni cittadini di quel territorio. Attualmente non ci sono tecnologie abbastanza avanzate per garantire la sostenibilità dell'estrazione del petrolio, in particolare nella parte collegata alle emissioni di solfati; il problema non è solo un'ipotesi di scuola, ma una realtà già presente in quel territorio, perché da dieci anni è in funzione, a circa duecento chilometri da lì, sempre in territorio kazako, il giacimento di Tengiz, con danni molto gravi per la salute di quella popolazione. A Tengiz ci fu un primo incidente già nel luglio del 1985: morì un operaio e centinaia di persone furono costrette a lasciare le proprie case, dal momento che il pozzo continuò a bruciare per oltre un anno. A causa delle esalazioni di zolfo nel corso degli anni alcuni paesi sono stati sfollati nella periferia di Atyrau, la città più vicina a Kashagan; secondo i medici locali c'è il rischio che questa stessa città, che è diventata una "capitale del petrolio", debba essere evacuata, quando cominceranno le estrazioni nel grande giacimento marino. Atyrau, fino ad ora una remota città sul Caspio, in pochi anni ha decuplicato la popolazione e ha un collegamento aereo giornaliero con Amsterdam. Dal momento che ci vivono molti uomini d'affari e molti tecnici occidentali dipendenti delle compagnie petrolifere, il costo della vita è salito alle stelle, senza naturalmente che ciò abbia avuto un beneficio sulla popolazione locale, i cui salari non sono stati adeguati. Il 90% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, senza accesso ai servizi di base e nella maggior parte dei casi senza energia per cucinare e riscaldarsi: nella capitale del petrolio i poveri continuano a usare il carbone.
Nazarbayev riesce comunque a tenere sotto controllo la situazione. Nel 2010 i lavoratori della KazMunaiGas e della Ersai Caspian Contractor, una società di cui è proprietaria anche Eni, nella città di Zhanaozen hanno scioperato per sei mesi, per chiedere aumenti salariali e per denunciare le loro pessime condizioni di lavoro; in vista delle elezioni del gennaio 2011 la reazione della polizia ha stroncato queste proteste. Ci sono stati dieci morti durante gli scontri tra la polizia e i lavoratori del petrolio in sciopero. Come credo sia evidente anche da queste note - che ho raccolto velocemente in rete e che potete controllare - lo scandalo legato alla vicenda di Ablyazov, personaggio per cui non ho nessuna simpatia e che probabilmente sarebbe perfino peggiore e più corrotto di chi vuol sostituire - ne abbiamo viste di situazioni come queste purtroppo, in particolare in quei paesi - impallidisce di fronte a queste vicende. I governi occidentali sanno benissimo che in Kazakistan il settore petrolifero è considerato una questione di priorità nazionale e che quindi le libertà di stampa e di espressione in merito alle questioni legate al petrolio sono nulle. Lo "scandalo kazako" non riguarda la storia di queste due donne, a cui comunque deve andare la nostra solidarietà - quantomeno per essere incappate nella nostra polizia, a cui fa ancora difetto un'acquisita e autentica sensibilità democratica, nonostante la buona volontà di tanti agenti e di tanti dirigenti, spesso donne, che ci lavorano - ma riguarda la confusione tra la politica estera italiana e gli interessi - legittimi, ma privati - di un'azienda come Eni, una multinazionale come le altre, forse peggiore delle altre, perché abituata a "lavorare" in Italia. Alla politica estera - ripassi un po' signora Bonino - dovrebbero interessare i vincoli internazionali nel rispetto dei diritti umani, nella cooperazione allo sviluppo e nella protezione dell'ambiente, cose di cui non c'è traccia nei rapporti tra Italia e Kazakistan. Figuratevi quindi se le autorità kazake si fanno problema di dettar legge nel nostro ministero dell'interno: sono loro che hanno il coltello dalla parte del manico e lo sanno benissimo. Noi, come al solito, ci siamo arresi, in nome della governabilità o degli interessi nazionali o di chissà cos'altro.

giovedì 25 luglio 2013

da "I miei sette figli" di Alcide Cervi

Il 25 luglio 1943 eravamo sui campi e non avevamo sentito la radio.
Vengono degli amici e ci dicono che il fascismo è caduto, che Mussolini è in galera. E' festa per tutti. La notte canti e balli sull'aia. Dovevano cadere così. Sembrava chissà che, e sono caduti con uno scherzetto. Ma è perché mentre loro parlavano di impero e costruivano propagande, il popolo faceva come Forbicino, e tagliava tagliava, finché tutto il castello era posato sull'aria, e molti non se ne accorgevano, e dicevano: che bel castello. E invece era tutta finzione e vergogna.
Facciamo subito un gruppo di contadini e andiamo a Reggio, per la strada tutti si aggiungono e la colonna diventa un popolo. Ognuno sembrava che aveva vinto lui, e questa era la forza. Ci sentivamo tutti capi di governo.
Arriviamo sotto le carceri di San Tommaso e chiediamo la liberazione dei fratelli antifascisti. Si aprono le porte ed escono i patiti, i sofferenti, i testardi antiregime, i controcorrente, quelli insomma che avevano misurato col cervello dove andava veramente la corrente sotto l'increspata. Hanno barbe e occhi frizzanti, ci abbracciano e sono tuttossa, altri invece sono grassi e acquosi, andati a male nel buio. Ma il piacere è breve, perché bisogna pensare alla situazione. E' Aldo che ci ricorda la frase di Badoglio: "la guerra continua a fianco dei tedeschi". I rospi verdi infatti ci guardano da fermi e sembra che aspettino. Ma è pure Aldo che ci dice di far esplodere la contentezza, intanto si vedrà. E propone: - Papà, offriamo una pastasciutta a tutto il paese.
- Bene - dico io - almeno la mangia.
E subito all'organizzazione. Prendiamo il formaggio dalla latteria, in conto del burro che Alcide Cervi si impegna a consegnare gratuitamente per un certo tempo quanto basta. La farina l'avevamo in casa, altri contadini l'hanno pure data, e sembrava che dicesse mangiami, ora che il fascismo e la tristizia erano andati a ramengo. Facciamo vari quintali di pastasciutta insieme alle altre famiglie. Le donne si mobilitano nelle case intorno alle caldaie, c'è un grande assaggiare la cottura, e il bollire suonava come una sinfonia. Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo ma la più bella parlata è stata quella della pastasciutta in bollore. Guardavo i miei ragazzi che saltavano e baciavano le putele, e dicevo: beati loro sono giovani e vivranno in democrazia, vedranno lo Stato del Popolo. Io sono vecchio e per me questa è l'ultima domenica.
Ma intanto la pastasciutta è cotta, e colmiamo i carri con i paioli. Per la strada i contadini salutano, tanti si accodano al carro, è il più bel funerale del fascismo. Un po' di pastasciutta si perde per la strada per via delle buche, e i ragazzoli se la incollano sotto il naso e sui capelli. Arriviamo a Campegine tra braccia di popolo e scarichiamo la trattoria. Uno dice: mettiamoli tutti in fila, per la razione. Nando interviene:- Perchè? Se uno passa due volte è segno che ha fame per due.
E allora pastasciutta allo sbrago, finché va. Chi in piedi e chi seduto, il pranzo ha riempito la piazza grande, e tutti fanno onore alla pastasciutta celebrativa. Ma si avvicinano i carabinieri, e vogliono disperdere l'assembramento. Gelindo si fa avanti e dice: - Maresciallo, rispondo io di tutta questa gente. Accomodatevi anche voi. E i carabinieri si mettono a mangiare.

sabato 20 luglio 2013

"Mura" di Costantino Kavafis


Senza riguardo, senza pudore né pietà,
m'han fabbricato intorno erte, solide mura.
E ora mi dispero, inerte, qua.
Altro non penso: tutto mi rode questa dura
sorte. Avevo da fare tante cose là fuori.
Ma quando fabbricavano come fui così assente!
Non ho sentito mai né voci né rumori.
M'hanno escluso dal mondo inavvertitamente.

giovedì 18 luglio 2013

"Assemblea" di Juan Carlos Mestre


Cari compagni carpentieri ed ebanisti,
vi porto il saluto solidale dei metafisici.
Anche per noi la situazione è diventata insostenibile,
i soci rifiutano di continuare a pagare le quote.
A partire da questo momento la lirica non esiste,
con il vostro permesso la poesia
ha deciso di dare per concluse le sue funzioni questo inverno.
Non prendetela a male,
ma vorremmo ancora chiedervi una cosa,
miei vecchi compagni amici degli alberi
ricordatevi di noi quando canterete L'Internazionale.

sabato 13 luglio 2013

Considerazioni libere (372): a proposito di Erode...

Ci sono discorsi destinati a segnare la memoria delle persone che li hanno pronunciati e anche i ricordi di quelli che hanno avuto l'opportunità e la fortuna di ascoltarli. Come sapete, io sono ateo, pur avendo rispetto per chi crede, ho escluso da tempo questa dimensione dalla mia vita, eppure sono convinto che l'omelia pronunciata da papa Francesco durante la messa penitenziale, che ha voluto celebrare - in maniera inaspettata e irrituale - lunedì scorso, a Lampedusa, sia uno di questi discorsi. Qualcosa su cui riflettere e di cui ci ricorderemo. Su facebook ho fatto un commento a caldo sulle cose dette dal papa, e ringrazio i molti di voi che lo hanno apprezzato e condiviso. In sostanza ho detto che le parole di questo papa "nuovo" impegnano noi che cristiani non siamo - e infatti è più difficile essere anticlericali da quando c'è Bergoglio, quantomeno perché si rimane spiazzati dai suoi modi gentili - ma soprattutto impegnano moltissimo i cattolici, perché è difficile seguire gli insegnamenti di questo papa, richiede una determinazione e una forza che non possono esaurirsi in una pratica domenicale, in una qualche preghiera serale o in un gesto di frettolosa elemosina.
In quel discorso, nonostante l'apparente semplicità delle parole e l'assenza calcolata e calibrata di retorica, ci sono livelli diversi: naturalmente papa Francesco parla ai cattolici e lo fa con l'autorità del suo ruolo e l'autorevolezza della sua persona, ma parla anche al resto del pianeta e lo fa affrontando un nodo complicato di questi anni, quello dell'emigrazione, che mette a nudo il contrasto tra il nord e il sud del mondo, tra i pochi che hanno molto e i molti che hanno poco. Anche qui però credo sia importante non fermarsi alla prima lettura delle parole del papa, come ha fatto ad esempio Fabrizio Cicchitto. Al di là della meschinità e della piccineria della persona, questo servo sciocco del centrodestra vede nel papa che piange per i migranti morti in mare solo il monito verso una politica - la loro, soprattutto, ma non solo - che per anni ha criminalizzato quelle persone, tanto da inventarsi un'aberrazione giuridica come il reato di immigrazione clandestina. Naturalmente c'è anche questo nelle parole e nei gesti del papa, ma sbagliano pure quelli che si sono sentiti per così dire legittimati dall'omelia di Lampedusa: per intenderci, mi pare che al papa poco importi del dibattito italiano sullo ius soli e sarebbe ingiusto "tirare" le sue parole per far propaganda a questa idea. Capisco che sia difficile, perché sono vent'anni che siamo immersi in questa "merda", ma ogni tanto proviamo a parlare di politica senza tirare in ballo B., che per altro con la politica poco c'entra. Per tornare al papa, a me pare che ci sia qualcosa di molto di più nelle sue parole e su questo vorrei soffermarmi in questa mia "considerazione". Dice Francesco, in quello che secondo me è il passaggio chiave dell'omelia di Lampedusa:
Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi. Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c'è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell'anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo.
Ovviamente papa Francesco parla prima di tutto alle coscienze, anzi alla coscienza di ciascuno di noi, chiedendoci conto delle nostre azioni. Ma se allarghiamo un po' la prospettiva ha toccato un altro punto, con estrema chiarezza. I drammi che coinvolgono le donne e gli uomini di gran parte del mondo, le tragedie che spingono queste donne e questi uomini a fuggire dalle loro terre, non sono eventi accidentali, casuali fenomeni naturali, come un terremoto o un'alluvione. Questi drammi sono provocati dall'avidità e dalla brama di potere di pochi altri uomini; i responsabili ci sono, sono uomini in carne e ossa, ma il problema è che non hanno nome e proprio questo loro anonimato finisce per rendere meno efficace la nostra lotta, fino al punto di farcela considerare vana, fino al punto di spingerci ad arrenderci.
Contro Erode ci si può ribellare, anzi lo si deve fare - questo naturalmente il papa non lo dice, lo dico io e non voglio certo attribuire a Bergoglio cose su cui probabilmente non è d'accordo; dal momento che non credo nella Gerusalemme celeste che verrà, penso che intanto occorra fare tutto il possibile per rendere più giusta la Gerusalemme che c'è, quella degli uomini, e delle donne. Infatti nel corso dei secoli gli uomini molte volte si sono ribellati contro l'Erode di turno, riuscendo spesso a fare un passo in avanti nel cammino, difficile e travagliato, verso la conquista dei loro diritti. Erode aveva eretto la Bastiglia, ma i francesi si ribellarono, distrussero quella fortezza, e riuscirono anche a far cadere la sua testa, non solo metaforicamente. Erode aveva conquistato l'India e l'aveva fatta diventare una colonia, ma la determinazione di un uomo scalzo fece sì che fosse costretto a ritirarsi e a concedere l'indipendenza a quel grande paese. In Europa, nelle fabbriche di Erode, fino a un secolo fa, lavoravano anche i bambini, ma i lavoratori hanno fatto molti scioperi, fino a che le leggi non sono cambiate; purtroppo Erode ha aperto molte altre fabbriche, in Africa e in Asia, dove queste leggi non sono ancora arrivate. In tempi recenti Erode ha deciso di sterminare il popolo degli ebrei, ma tanti uomini hanno combattuto contro di lui, l'hanno sconfitto e i cancelli di Auschwitz sono stati aperti.
Contro Erode si può lottare e, a volte, anche vincere; in fondo la storia degli uomini è la storia di questa lotta. Io, nonostante il mio notorio pessimismo, sono uno che vede nella storia un cammino positivo, perché - anche grazie alle rivoluzioni, grazie ai sacrifici di tanti eroi, spesso misconosciuti - la storia dei diritti è andata avanti, anche se molto lentamente, anche se soltanto in alcuni paesi. Nell'Atene di Pericle e di Protagora, dove pure vigeva uno dei sistemi politici più democratici dell'antichità, esistevano gli schiavi, anzi questa cosa appariva normale, perfino agli schiavi stessi. E perché le donne potessero votare abbiamo dovuto aspettare dall'età di Pericle almeno ventitré secoli. Ho l'impressione che quel cammino abbia subito adesso una battuta d'arresto, anche se negli anni recenti abbiamo potuto festeggiare ancora grandi vittorie, come la fine del regime segregazionista sudafricano e l'elezione di un presidente nero negli Stati Uniti. Eppure sono troppi gli schiavi - sono milioni - anche se apparentemente la schiavitù non esiste più. Il papa, con il suo tono pacato, ci ha ricordato che Erode è sempre lì, pronto a sfruttare la miseria degli altri per far crescere la propria ricchezza.
Credo infine che proprio l'apparente mancanza di qualcuno contro cui combattere - dal momento che Erode alla fine si è fatto furbo ed è diventato appunto "anonimo" - ci abbia portato a credere o che la lotta non serva più o che sia comunque vana, visto che non riusciamo a vederne i risultati concreti: non c'è più una Bastiglia da prendere e neppure teste da tagliare, se non quelle di qualche ex-collaboratore del re, ormai non più utile alla "causa". Erode infine, che nel frattempo si è dotato di un efficacissimo ufficio stampa, è riuscito a convincerci che il mondo va così, che non si può più cambiare, che la rivoluzione non serve. Il capitalismo è diventato una legge di natura e contro la natura non ci si può ribellare, si possono soltanto limitare i danni; questa è ormai la posizione di gran parte della sinistra europea, per tacere di quella italiana, che da alcuni anni ormai ha smesso di avere idee proprie. Una delle caratteristiche delle ribellioni di questi mesi è quella di partire da piccoli nuclei, di coinvolgere in poco tempo - anche grazie alle nuove tecnologie - molte altre persone, di accendere grandi entusiasmi e poi di spegnersi rapidamente, senza riuscire ad incidere veramente sullo status quo. Nonostante i movimenti di piazza Tahrir l'esercito è ancora l'elemento centrale della politica egiziana, come lo era al tempo di Mubarak, nonostante il movimento Occupy le grandi multinazionali non hanno ceduto nulla del loro potere.
In sostanza il nemico c'è, c'è ancora, e - forse confusamente, certo con scarsa consapevolezza - i tanti giovani che in questi mesi sono scesi in piazza lo hanno riconosciuto come tale, seppur non sapendo trovare il modo per colpirlo o danneggiarlo. Il capitalismo è un fenomeno globale e complesso che agisce in maniera diversa in paesi diversi. Comunque alcune tendenze sono chiare e ben definite: il capitalismo oggi cerca di imporre, a ogni livello, le regole del mercato, sottraendosi a qualsiasi tipo di controllo e di costrizione, tende a chiudere progressivamente ogni spazio pubblico - dall'eliminazione di un parco alla privatizzazione dei beni pubblici, come l'acqua - riduce i servizi, a partire dalla sanità e dalla scuola, e impone una gestione sempre più autoritaria del potere. Le proteste che in questi mesi agitano il mondo cercano di opporsi, in maniera più o meno consapevole, a questo strapotere. Il filo rosso che unisce piazze così differenti, di paesi poveri e di paesi ricchi, del nord e del sud del mondo, è da un lato la critica al capitalismo come sistema e dall'altro la consapevolezza che la democrazia rappresentativa, nelle sue forme attuali, non è sufficiente neppure a contenere gli eccessi del capitalismo.
Allora, proprio perché non vogliamo più che milioni di donne e di uomini siano costrette a lasciare i loro paesi, perché non vogliamo che continuinino a morire in un viaggio che li porterà comunque a essere sfruttati, abbiamo bisogno di ribellarci contro questa forma di capitalismo. E ricordiamoci che Erode ha sempre una faccia e un nome; e quindi tutte le nostre proteste devono essere rivolte contro questo unico nemico, che agisce in maniera globale. Per questo la nostra deve essere una risposta globale. Credo infatti che questa rivoluzione potrebbe avere, alla lunga, un qualche successo, se acquisterà la consapevolezza di dover essere globale, se riuscirà a conquistare una nuova dimensione solidale; la battaglia dei greci e dei turchi, nonostante i loro paesi siano nemici da sempre, è la stessa battaglia contro le leggi imperanti del capitalismo, che pure si sono manifestate nei loro paesi in forme e modi diversi, così come la battaglia degli egiziani di piazza Tahrir è la stessa di OccupyWallstreet. Una volta questo spirito lo chiamavano Internazionale, adesso potremmo definirlo solidarietà globale. Senza saremo comunque destinati alla sconfitta.

venerdì 12 luglio 2013

da "Ho un nome musicale" di Iman Mersal


Pensavo di intitolarmi la nostra via
a condizione che le nostre case venissero ampliate
e che venissero costruite stanze segrete
affinché i miei amici potessero fumare a letto
senza essere visti dai fratelli maggiori.
Dopo aver abbattuto i soffitti per alleggerire le pareti
e avere tolto le scarpe delle nonne defunte, i vasi
e le scatole vuote che le madri hanno estratto dalla vita
dopo avere a lungo servito in altre strade.
È anche possibile colorare le porte d'arancione
come simbolo di gioia…
e aprire dei fori affinché ciascuno
possa osservare le famiglie numerose
cosicché nessuno possa sentirsi più solo nella nostra strada.
"Gli esperimenti storici
sono frutto di grandi menti".
Così mi descriverebbero i passanti
mentre passeggiano sul bianco marciapiede
della strada che reca il mio nome.

domenica 7 luglio 2013

"Forma di probabilità" di Wafaa Lamrani

Dissemino le stelle intorno al mio corpo
comunicando con ogni fibra sensibile, con ogni cellula:
che cosa sono il nome, il verbo, l'identità?
Né il divieto mi annulla
né l'imperativo mi plasma
né il nome mi contiene.

venerdì 5 luglio 2013

Considerazioni libere (371): a proposito di chi è sceso in piazza...

Siamo al Termidoro? O, in un'ipotesi più pessimista, al 18 brumaio? So che questi paralleli storici - per quanto intriganti - finiscono sempre per farci commettere degli errori ed è impossibile fare paragoni tra la Francia della fine del settecento e l'Egitto dei tempi nostri. Certo una rivoluzione si è spezzata e questo merita una qualche riflessione, anche perché le manifestazioni di piazza Tahrir di due anni fa avevano alimentato molte nostre speranze. Ci sono due elementi che, secondo me, hanno caratterizzato quella stagione di proteste, tra il nord Africa e il Medio oriente. Il primo è la disperazione di una massa sempre più grande di giovani, che non riuscivano - e non riescono - a immaginare per se stessi un futuro nel loro paese; e non hanno neppure l'opzione estrema dell'emigrazione, visto che la crisi colpisce con violenza allo stesso modo gli stati di quelli che un tempo era chiamato il "primo mondo", tanto da spingere anche i giovani di quei paesi in piazza, per la stessa ansia verso il futuro. Il secondo elemento è che quelle proteste hanno spezzato il vincolo che tenevano uniti quei paesi - i ceti popolari quanto quelli borghesi - con regimi che giustificavano il loro essere dittature con l'esigenza di fare fronte comune contro un nemico esterno, gli Stati Uniti e Israele prima di tutto; con le "primavere arabe" quei popoli hanno capito che il loro vero nemico erano quei regimi, illiberali, incapaci, corrotti, e hanno così trovato il loro nemico interno, nei tiranni, da Ben Ali a Mubarak, nei loro servi e in quei profittatori che sempre prosperano quando c'è un regime. Così la "primavera egiziana" - come le altre primavere - è stato un misto di lotta di classe e di rivoluzione. Ma si è trattato di una rivolzione sui generis, perché è mancato il soggetto rivoluzionario e quindi la protesta si è presentata con molti volti e altrettante istanze diverse. Una rivoluzione è tale se prevede che chi scende in piazza voglia e possa governare: per questo allora non poteva definirsi tale e purtroppo non può essere chiamata così questa recentissima sollevazione, che pure ha accompagnato - anche se probabilmente non vi ha contribuito in maniera determinante - la caduta del presidente Morsi. Chi è sceso in questi giorni in piazza - come è avvenuto ormai due anni fa - si limita a protestare, ma non cerca davvero di prendere il potere e forse non ne è in grado. Peraltro questa impotenza, questa incapacità di farsi soviet - per voler fare un altro parallelo con l'altra grande rivoluzione della nostra storia - è qualcosa che unisce tutti i momenti di protesta di questi ultimi anni, dagli indignados spagnoli ai turchi di piazza Taksim, dai giovani di OccupyWallstreet a quelli delle "primavere" appunto: questa rinuncia alla rivoluzione è qualcosa su cui dovremo interrogarci, e probabilmente rammaricarci, anche noi della sinistra riformista. Adesso ci sarebbe bisogno di rivoluzione, eppure noi abbiamo fatto tanto per sradicare questa parola perfino dal nostro vocabolario.
E così in Egitto, mentre noi, dalle nostre comode posizioni, ci illudevamo che le proteste portassero in breve tempo verso un nuovo potere, democratico, liberale, popolare, consapevole del ruolo e dei diritti delle donne, ci si è naturalmente affidati a chi c'era già, a chi era riuscito, nonostante il regime di Mubarak, a rimanere in campo, ossia i Fratelli musulmani, forti della loro identità religiosa e soprattutto della rete di assistenza cresciuta intorno alle moschee. Mi è capitato già di fare questo paragone con l'Italia post-bellica: la Democrazia cristiana vinse le elezioni non tanto per il ruolo che ebbe nella guerra di Liberazione - ben inferiore a quello dei comunisti, ma anche a quello degli azionisti, che rapidamente sparirono - ma perché rappresentava un'identità conosciuta e riconosciuta e perché, nella fine caotica di un regime, la rete delle parrocchie aveva comunque rappresentato un legame per tutto il paese, da nord a sud. E adesso, scontati gli errori di Morsi e dell'islamismo politico, ci si è affidati nuovamente a chi c'è da sempre, ossia l'esercito che ha saputo liberarsi degli elementi più compromessi con il regime di Mubarak - che, non bisogna mai dimenticarlo, era un militare, come Sadat prima e Nasser ancora prima, per quanto avesse adottato un più rassicurante completo occidentale - e quindi ha potuto schierarsi con la piazza, contro Morsi. Probabilmente non c'erano molte altre possibilità, perché altrimenti avrebbe dovuto rendersi responsabile di un bagno di sangue.
Io sono convinto che il punto intorno a cui tutto ruota sia comunque sempre quello: la povertà di un numero sempre maggiore di persone. E' la lotta di classe il centro del problema, e non credo sia un caso che la cosiddetta opposizione, dove ci sono sia partiti della sinistra sia esponenti della borghesia non trovi altro punto in comune se non la contrapposizione verso l'islamismo dei Fratelli musulmani. Fino a quando non ci concentreremo su questo e su una rivoluzione - il termine adesso è necessario - che stravolga i rapporti di produzione verso la sostenibilità etica ed ecologica e che abbia come proprio elemento fondante la redistribuzione delle ricchezze, nulla potrà cambiare. Come le "primavere" sono scoppiate a causa della crisi economica e i giovani in piazza Tahrir - come nelle città tunisine, libiche, algerine, yemenite - chiedevano pane prima che diritti, mi sembra che chi protesta oggi non abbia molto interesse per la questione islamica - che invece a noi occidentali "islamofobici" pare essenziale. I giovani che protestano contro Morsi protestano contro un governo, l'ennesimo, corrotto e incapace, che non ha saputo dare risposta alla crisi. Certamente ha pesato nello scollamento tra i Fratelli musulmani e l'altra metà dell'Egitto, quella concentrata nelle città, quella più giovane, quella più a contatto con i modelli occidentali, un moralismo bigotto e un puritanesimo che sembra fuori tempo, come dovevano sembrare anacronistiche a una parte d'Italia le campagne della Dc contro il divorzio e l'aborto alla fine degli anni sessanta. Morsi e i suoi compagni di partito non hanno pensato a come definire una politica economica soddisfacente che potesse in qualche modo mantenere a galla lo stato; già debole per le razzie subite da Mubarak e dai suoi uomini, l'economia egiziana è crollata nel giro di pochi mesi, e i Fratelli hanno aggiunto un forte malcontento sociale al rifiuto politico di cui erano oggetto da un pezzo largo del paese.
Qualunque cosa succederà in queste prossime settimane, non possiamo nasconderci dietro formule ipocrite: in Egitto c'è stato un colpo di stato militare contro un capo di stato legittimo e niente può giustificare gli arresti dei rappresentanti dei Fratelli musulmani. La democrazia non può nascere dalle armi di un esercito, tanto più come quello egiziano, che ha sempre tenuto il potere, che è ricco e corrotto: la dittatura liberale semplicemente non esiste. Certo l'Egitto adesso è un paese in subbuglio, e quel popolo difficilmente si lascerà togliere le libertà che è riuscito a conquistarsi. Intanto però l'esercito è uscito dalle caserme e non sarà facile farcelo tornare. L'ipocrisia degli Stati Uniti e dei paesi europei, pronti a riconoscere il nuovo governo egiziano, magari approfittando della foglia di fico di El Baradei, non aiuterà certamente chi in quel paese sta lottando perché la rivoluzione continui.
C'è un ultimo punto che voglio sottolineare, con preoccupazione: in questi giorni confusi, di sommosse popolari, alcune autentiche, altre che si suppone eterodirette, di matrice diversa e opposta, ci sono state molte vittime. Temo sia inevitabile - is not a dinner party - eppure molte delle vittime di queste violenze sono state donne. Questo naturalmente non è un caso. C'è una parte di quel paese - e non solo tra gli integralisti - che non vuole riconoscere alle donne il ruolo di cui hanno diritto. Anche in questo caso le donne sono uscite dalle case e non sarà facile farcele tornare.

lunedì 1 luglio 2013

"Angelo" di Fatima Na’ut


Mi stupisco di non essere morta oggi
nonostante questa mattina abbia deciso di stringere la mano
a tutti coloro che hanno gettato terra nel mio bicchiere
a tutti coloro che hanno liberato cavallette
per mangiarsi il mio polso fratturato,
quindi
non è stato l'angelo della morte a sollevare il velo all'alba.
E' stato l'angelo della poesia.