Non correre. Fermati. E guarda.
Guarda con un solo colpo dell’occhio
la formica vicino alla ruota dell’auto veloce
che trascina adagio adagio un chicco di pane
e così cura paziente il suo inverno.
Guarda. Fermati. Non correre.
Tira il freno alza il pedale
abbassa la serranda dell’inferno.
Guarda nel campo fra il grano
lento e bianco il fumo di un camino
con la vecchia casa vicina al grande noce.
Non correre veloce. Guarda ancora.
Almeno per un momento.
Guarda il bambino che passa tenendo la madre per mano
il colore dei muri delle case
le nuvole in un cielo solitario e saggio
le ragazze che transitano in un raggio di sole
il volto con le vene di mille anni
di una donna o di un uomo venuti come Ulisse dal mare.
Fermati. Per un momento. Prima di andare.
Ascoltiamo le grida d’amore
o le grida d’aiuto
il tempo trascinato nella polvere del mondo
se ti fermi e ascolti non sarai mai perduto.
domenica 31 gennaio 2010
sabato 30 gennaio 2010
Considerazioni libere (66): a proposito di internet e di intelligenza...
La rivista statunitense, pubblicata solo on line, "Edge", che si occupa di scienza e di tecnologia, ha posto a scrittori, filosofi, scienziati, artisti, la domanda: "l'uso della rete ha cambiato il nostro modo di pensare?". Nel nr. 831 di "Internazionale" sono tradotte alcune delle risposte, che possono essere lette integralmente sul sito della rivista.
Sinceramente non ho le competenze per rispondere a questa domanda e probabilmente è una domanda a cui è impossibile dare una risposta, dal momento che la cosiddetta rivoluzione digitale è troppo recente per poter aver influito sulle caratteristiche della nostra specie. Eppure mi sembra molto stimolante e mi piacerebbe confrontarmi con i miei lettori su questo tema. Credo sia necessario partire dalle proprie esperienze - gran parte di quelli che hanno risposto su "Edge" hanno fatto così - per provare a tirar fuori qualche considerazione generale.
Io trascorro parecchio del mio tempo libero su internet: tengo aggiornato questo blog - che qualcuno ha perfino la pazienza di leggere -, ho amici con cui parlo e condivido idee attraverso Facebook, leggo i quotidiani on line, cerco informazioni su Wikipedia, ascolto musica grazie ad Accuradio, partecipo a un gioco di ruolo e così via. Mi dà ancora un certo senso di ebbrezza la possibilità di avere a disposizione una massa così incredibile di notizie, di foto, di video, di poter condividere qualcosa con persone che vivono in ogni parte del mondo. Sinceramente penso che senza la rete la mia vita sarebbe meno interessante: conoscerei meno persone, saprei meno cose, avrei meno opportunità.
Però non leggo meno libri. Leggo meno i giornali, ma più per un fattore economico - visto che devo cercare di risparmiare; li leggo comunque in maniera differente: le informazioni le ricevo generalmente dalla rete, ma i commenti, gli approfondimenti, le inchieste li leggo sulla carta. Guardo meno televisione, ma soprattutto perché ci sono sempre meno programmi interessanti da vedere.
Grazie a questo blog ho anche ricominciato a scrivere a mano, con la penna su un foglio di carta. Il desiderio di mantenerlo il più possibile aggiornato e l'impossibilità di essere davanti al computer quando ho qualcosa da raccontare - o perché sono fuori casa o perché non è il mio turno di utilizzo dello strumento - mi ha spinto a recuperare la manualità dello scrivere, che lavorando avevo perduto, perché scrivevo quasi esclusivamente al computer.
Certo navigare nella rete, porta a distrarsi, a passare in maniera non sempre logica da un argomento all'altro, a scartare, più o meno consciamente, i testi troppo lunghi, a evitare gli approfondimenti. Non so se questo influisce anche in qualche modo sull'intelligenza o sulle capacità di attenzione e di memoria; forse lo scopriremo tra qualche tempo. Ma certamente è una grande fonte di opportunità. Penso che se avessi un figlio non avrei timore a insegnargli a navigare.
C'è comunque un aspetto che mi preoccupa molto. Nonostante quanto dicono molti, internet è uno strumento molto meno democratico di un libro o di un giornale. O meglio, è molto democratico per coloro che ne usufruiscono, ma comporta anche un gran numero di persone che ne sono escluse. Per accedere alla rete non serve soltanto saper "leggere, scrivere e far di conto", ma occorre un computer, l'energia per alimentarlo e i cavi attraverso cui far passare il collegamento. Per troppe persone internet rischia di rimanere un miraggio.
Sinceramente non ho le competenze per rispondere a questa domanda e probabilmente è una domanda a cui è impossibile dare una risposta, dal momento che la cosiddetta rivoluzione digitale è troppo recente per poter aver influito sulle caratteristiche della nostra specie. Eppure mi sembra molto stimolante e mi piacerebbe confrontarmi con i miei lettori su questo tema. Credo sia necessario partire dalle proprie esperienze - gran parte di quelli che hanno risposto su "Edge" hanno fatto così - per provare a tirar fuori qualche considerazione generale.
Io trascorro parecchio del mio tempo libero su internet: tengo aggiornato questo blog - che qualcuno ha perfino la pazienza di leggere -, ho amici con cui parlo e condivido idee attraverso Facebook, leggo i quotidiani on line, cerco informazioni su Wikipedia, ascolto musica grazie ad Accuradio, partecipo a un gioco di ruolo e così via. Mi dà ancora un certo senso di ebbrezza la possibilità di avere a disposizione una massa così incredibile di notizie, di foto, di video, di poter condividere qualcosa con persone che vivono in ogni parte del mondo. Sinceramente penso che senza la rete la mia vita sarebbe meno interessante: conoscerei meno persone, saprei meno cose, avrei meno opportunità.
Però non leggo meno libri. Leggo meno i giornali, ma più per un fattore economico - visto che devo cercare di risparmiare; li leggo comunque in maniera differente: le informazioni le ricevo generalmente dalla rete, ma i commenti, gli approfondimenti, le inchieste li leggo sulla carta. Guardo meno televisione, ma soprattutto perché ci sono sempre meno programmi interessanti da vedere.
Grazie a questo blog ho anche ricominciato a scrivere a mano, con la penna su un foglio di carta. Il desiderio di mantenerlo il più possibile aggiornato e l'impossibilità di essere davanti al computer quando ho qualcosa da raccontare - o perché sono fuori casa o perché non è il mio turno di utilizzo dello strumento - mi ha spinto a recuperare la manualità dello scrivere, che lavorando avevo perduto, perché scrivevo quasi esclusivamente al computer.
Certo navigare nella rete, porta a distrarsi, a passare in maniera non sempre logica da un argomento all'altro, a scartare, più o meno consciamente, i testi troppo lunghi, a evitare gli approfondimenti. Non so se questo influisce anche in qualche modo sull'intelligenza o sulle capacità di attenzione e di memoria; forse lo scopriremo tra qualche tempo. Ma certamente è una grande fonte di opportunità. Penso che se avessi un figlio non avrei timore a insegnargli a navigare.
C'è comunque un aspetto che mi preoccupa molto. Nonostante quanto dicono molti, internet è uno strumento molto meno democratico di un libro o di un giornale. O meglio, è molto democratico per coloro che ne usufruiscono, ma comporta anche un gran numero di persone che ne sono escluse. Per accedere alla rete non serve soltanto saper "leggere, scrivere e far di conto", ma occorre un computer, l'energia per alimentarlo e i cavi attraverso cui far passare il collegamento. Per troppe persone internet rischia di rimanere un miraggio.
giovedì 28 gennaio 2010
Considerazioni libere (65): a proposito di emergenze e di diritti umani...
A poco più di due settimane dal terremoto che ha distrutto Haiti, qui in Italia siamo tornati a parlarne quasi unicamente per le estemporanee dichiarazioni di Guido Bertolaso contro il modo con cui le truppe degli Stati Uniti gestiscono l'emergenza; evidentemente le troppe lodi che riceve in patria gli hanno fatto perdere il senso della misura, non appena varcati i confini nazionali. Frattini e poi Berlusconi hanno immediatamente smentito il sottosegretario, ristabilendo così i buoni rapporti con l'amministrazione Obama.
Al di là del folklore di tutte queste dichiarazioni, rimane il problema di come affrontare in maniera efficace e seria questa catastrofe; mi auguro che le Nazioni Unite e il governo degli Stati Uniti lo stiano facendo, partendo da quello che, secondo l'analisi di Amnesty International, è il tema chiave: il rispetto dei diritti umani.
Occorre che tutti gli attori coinvolti nella vicenda - tra cui il debole governo haitiano di René Préval - siano consapevoli che il rispetto dei diritti umani deve diventare l'elemento essenziale sia nella fase dell'emergenza che in quella - presumibilmente molto lunga - della ricostruzione. Non possiamo dimenticare che il popolo di Haiti non è stato vittima soltanto di un terribile disastro naturale, ma che è vittima da molti decenni della mancanza dei più elementari diritti dell'uomo: la povertà, la denutrizione, le diseguaglianze hanno amplificato in maniera terribile gli effetti del sisma (1,8 milioni di persone soffrono la fame, il 40% della popolazione non ha accesso all'acqua potabile, solo per ricordare due dati). Per questi motivi il soccorso prima e la ricostruzione poi devono essere basati sul rispetto e sulla promozione dei diritti umani. Gli aiuti devono essere forniti a tutti, in un paese dove le differenze razziali tra neri e mulatti hanno pesato in maniera forte e sono state fonti di conflitto; bisogna che i paesi ora impegnati ad Haiti garantiscano a ogni persona i livelli minimi essenziali di cibo, di acqua, di servizi sanitari, di alloggio e di educazione. Nell'ottica della ricostruzione e della crescita democratica del paese, quest'ultimo tema non è meno importante: ad Haiti il tasso di analfabetismo è alto, così come sono diffuse superstizioni, legate alle dottrine voodoo.
E naturalmente occorre pensare ai più deboli, che in queste situazioni di crisi, lo diventano sempre più. Ad Haiti c'è ora un numero imprecisato, ma verosimilmente molto alto, di bambine e di bambini rimasti senza famiglia, che si aggiungono al gran numero di orfani che già vivevano nell'isola: senza controlli efficaci si rischia di alimentare il mercato delle adozioni illegali, visto anche il prevedibile aumento di richieste di adozioni dettato dalla sensazione dell'evento. Lo sfruttamento e il traffico degli esseri umani - e dei bambini in particolare - esisteva ad Haiti prima del terremoto e le organizzazioni criminali internazionali che li controllano sono pronte.
In una situazione di crisi le donne e le ragazze rischiano moltissimo: sono oggetto di violenze sessuali, sono sfruttate nel mercato della prostituzione, si vedono ridotti i servizi a tutela della maternità. Per queste ragioni occorre prestare grande attenzione alla sorte delle donne e dei bambini.
Haiti era già una società violenta, dominata da bande armate, più o meno organizzate, più o meno regolari, dipendenti dal potente di turno; il venir meno di ogni struttura sociale e di ogni gerarchia rende ovviamente ancora più pericoloso questo stato di cose; inoltre la distruzione della principale prigione dello stato ha messo in libertà moltissimi criminali. Le forze di polizia inviate dai paesi occidentali devono svolgere un'azione decisa per reprimere le violenze, ma devono anche evitare di macchiarsi di crimini, come troppe volte è avvenuto in azioni di peacekeeping.
In qualche modo, il modo con cui sapremo aiutare e ricostruire Haiti sarà la cartina di tornasole della crescita dei diritti umani nell'intero pianeta.
Al di là del folklore di tutte queste dichiarazioni, rimane il problema di come affrontare in maniera efficace e seria questa catastrofe; mi auguro che le Nazioni Unite e il governo degli Stati Uniti lo stiano facendo, partendo da quello che, secondo l'analisi di Amnesty International, è il tema chiave: il rispetto dei diritti umani.
Occorre che tutti gli attori coinvolti nella vicenda - tra cui il debole governo haitiano di René Préval - siano consapevoli che il rispetto dei diritti umani deve diventare l'elemento essenziale sia nella fase dell'emergenza che in quella - presumibilmente molto lunga - della ricostruzione. Non possiamo dimenticare che il popolo di Haiti non è stato vittima soltanto di un terribile disastro naturale, ma che è vittima da molti decenni della mancanza dei più elementari diritti dell'uomo: la povertà, la denutrizione, le diseguaglianze hanno amplificato in maniera terribile gli effetti del sisma (1,8 milioni di persone soffrono la fame, il 40% della popolazione non ha accesso all'acqua potabile, solo per ricordare due dati). Per questi motivi il soccorso prima e la ricostruzione poi devono essere basati sul rispetto e sulla promozione dei diritti umani. Gli aiuti devono essere forniti a tutti, in un paese dove le differenze razziali tra neri e mulatti hanno pesato in maniera forte e sono state fonti di conflitto; bisogna che i paesi ora impegnati ad Haiti garantiscano a ogni persona i livelli minimi essenziali di cibo, di acqua, di servizi sanitari, di alloggio e di educazione. Nell'ottica della ricostruzione e della crescita democratica del paese, quest'ultimo tema non è meno importante: ad Haiti il tasso di analfabetismo è alto, così come sono diffuse superstizioni, legate alle dottrine voodoo.
E naturalmente occorre pensare ai più deboli, che in queste situazioni di crisi, lo diventano sempre più. Ad Haiti c'è ora un numero imprecisato, ma verosimilmente molto alto, di bambine e di bambini rimasti senza famiglia, che si aggiungono al gran numero di orfani che già vivevano nell'isola: senza controlli efficaci si rischia di alimentare il mercato delle adozioni illegali, visto anche il prevedibile aumento di richieste di adozioni dettato dalla sensazione dell'evento. Lo sfruttamento e il traffico degli esseri umani - e dei bambini in particolare - esisteva ad Haiti prima del terremoto e le organizzazioni criminali internazionali che li controllano sono pronte.
In una situazione di crisi le donne e le ragazze rischiano moltissimo: sono oggetto di violenze sessuali, sono sfruttate nel mercato della prostituzione, si vedono ridotti i servizi a tutela della maternità. Per queste ragioni occorre prestare grande attenzione alla sorte delle donne e dei bambini.
Haiti era già una società violenta, dominata da bande armate, più o meno organizzate, più o meno regolari, dipendenti dal potente di turno; il venir meno di ogni struttura sociale e di ogni gerarchia rende ovviamente ancora più pericoloso questo stato di cose; inoltre la distruzione della principale prigione dello stato ha messo in libertà moltissimi criminali. Le forze di polizia inviate dai paesi occidentali devono svolgere un'azione decisa per reprimere le violenze, ma devono anche evitare di macchiarsi di crimini, come troppe volte è avvenuto in azioni di peacekeeping.
In qualche modo, il modo con cui sapremo aiutare e ricostruire Haiti sarà la cartina di tornasole della crescita dei diritti umani nell'intero pianeta.
mercoledì 27 gennaio 2010
"La paura" di Eva Picková
Eva Picková è morta a dodici anni, il 18 dicembre 1943,
nel campo di concentramento di Terezin
Di nuovo l’orrore ha colpito il ghetto,
un male crudele che ne scaccia ogni altro.
La morte, demone folle, brandisce una gelida falce
che decapita intorno le sue vittime.
I cuori dei padri battono oggi di paura
e le madri nascondono il viso nel grembo.
La vipera del tifo strangola i bambini
e preleva le sue decime dal branco.
Oggi il mio sangue pulsa ancora,
ma i miei compagni mi muoiono accanto.
Piuttosto di vederli morire
vorrei io stesso trovare la morte.
Ma no, mio Dio, noi vogliamo vivere!
Non vogliamo vuoti nelle nostre file.
Il mondo è nostro e noi lo vogliamo migliore.
Vogliamo fare qualcosa. E’ vietato morire!
lunedì 25 gennaio 2010
Considerazioni libere (64): a proposito di scandali bolognesi...
Ho preferito aspettare qualche giorno prima di scrivere questa "considerazione", dedicata a quello che sta succedendo a Bologna: generalmente è un buon sistema - purtroppo poco adottato - per evitare commenti e giudizi di cui alla fine si è costretti a pentirsi.
Quasi tutti i miei pochi e fedeli lettori non sono di Bologna, ma vista l'esposizione mediatica nazionale che in questi giorni hanno avuto il sindaco Flavio Delbono, la sua ex-compagna ed ex-segretaria Cinzia Cracchi, gli altri personaggi minori di questa non edificante storia bolognese, penso non sia necessario riassumere la vicenda. Da bolognese, da elettore della sinistra, da persona che ha avuto qualche responsabilità politica - nel Pds e in seguito nei Ds - ci sono diversi aspetti della storia che non mi piacciono, ma uno su tutti mi ha colpito e su questo permettetemi qualche annotazione.
Qualche tempo fa ho scritto una "considerazione" (la nr. 9, per la precisione) per denunciare un annuncio di lavoro gravemente "maschilista": si ricercava per uno studio professionale bolognese una donna laureata in ingegneria o in architettura, richiedendo come unico altro requisito la "bella presenza". Per tornare alla vicenda oggetto delle cronache, mi pare che questo caso nasconda la stessa logica. Da un lato c'è un uomo che ha utilizzato il proprio ruolo e la propria influenza, prima per favorire la sua compagna (assegnandole un lavoro più gratificante e meglio retribuito, portandola in giro nei suoi viaggi istituzionali e così via) e in seguito, finita la storia d'amore, per danneggiarla (togliendole il lavoro e tutti i benefit inclusi); dall'altro lato c'è una donna che ha accettato, forse ha preteso - non sono in grado di sapere come è andata e francamente non mi interessa molto saperlo - comunque ha approfittato di questa situazione, fino a che non ne ha dovuto pagare le conseguenze. Ci sono poi tante "comparse", persone che conoscevano la situazione, che hanno fatto chiacchiere a mezza bocca, che prima omaggiavano la signora e dopo hanno fatto finta di non conoscerla e così via. Sinceramente non considero Cinzia Cracchi una vittima, ma certo Flavio Delbono ha delle responsabilità maggiori.
Un uomo qualsiasi - virtuoso e peccatore nella media - che nella sua vita ha avuto anche solo un po' di potere, sa che ci si sente gratificati, e sotto sotto anche orgogliosi, delle attenzioni che gli vengono rivolte, specialmente da persone dell'altro sesso, anche quando si sospetta siano interessate. E' umano, però non bisognerebbe approfittarne e purtroppo temo che Delbono lo abbia fatto, al di là delle storie che si raccontano e che ovviamente a questo punto trovano spazio anche nei giornali seri. Questo non ha rilevanza penale, ma ha una forte valenza etica e politica. Io vorrei che il mio sindaco fosse convinto che il rispetto delle donne passa non solo attraverso la decisione di avere una giunta con molte donne, ma soprattutto attraverso un cambiamento profondo della mentalità, che è tipica di noi maschi, di approfittare della nostra forza.
Purtroppo ci sono anche donne che, entrate nella vita politica, hanno un atteggiamento decisamente maschile e penso che non sia un buon modello per riformare in profondità la politica. Il tema quindi non è solo quello di promuovere donne, ma quello di cambiare una mentalità che ha radici profonde. Alcuni giorni fa - prima che scoppiasse lo scandalo e quando a Bologna si parlava d'altro - di fronte alle difficoltà del partito bolognese di eleggere il nuovo segretario della federazione (per i veti, i contro-veti, le gelosie e le piccinerie dei tanti piccoli potentati , in cui si sta trasformando il partito), un autorevole esponente ha lanciato la proposta di eleggere in quel ruolo una donna. Inutile dire che quell'esponente è un uomo; questa proposta - forse al di là della buona fede del proponente - finisce per essere ancora più riduttiva per le donne. Il segretario di federazione si sceglie - o si dovrebbe scegliere - in base alle idee, alle esperienze, alle proposte, non in base al fatto che sia uomo o donna.
Un ulteriore appunto. Delle difficoltà del Partito Democratico ho già scritto altre volte (da ultimo nella "considerazione" nr. 61) e credetemi che lo faccio con amarezza, vorrei davvero poter dire con orgoglio che questo è il mio partito. Credo però che occorra riflettere su una scelta, quella di candidare Delbono, nata a tavolino, in una logica di equilibrio, senza riflettere su quello che è avvenuto davvero nella vita politica di questa città, almeno a partire dagli anni novanta, con tutto quello che c'è stato in mezzo (la lotta tra gruppi dirigenti che ha portato alla fine dell'esperienza di Vitali, gli anni di Guazzaloca e di Cofferati, per motivi diversi "estranei" a quella lotta ed entrambi incapaci di risolvere la questione). E' innegabile che la crisi della sinistra in questa città ha accompagnato la crisi della città nel suo complesso. Naturalmente ciascuno è responsabile per quello che fa. Se Delbono ha delle responsabilità penali, è giusto che paghi; personalmente credo che abbia responsabilità morali e di questo giudicherà la sua coscienza e, se ci sarà l'occasione, giudicheranno gli elettori. Ma la responsabilità del punto a cui siamo arrivati non è solo sua, è di molti, a livelli e in gradi diversi, anche nostra di militanti ed elettori.
p.s. So bene che in questo paese ci sono già moltissime leggi - e troppe non sono applicate - ma francamente ritengo urgente un codicillo che vieti, con pene severissime per i trasgressori, di coniare nuove parole con il suffisso -gate per indicare un qualsivoglia scandalo politico.
Quasi tutti i miei pochi e fedeli lettori non sono di Bologna, ma vista l'esposizione mediatica nazionale che in questi giorni hanno avuto il sindaco Flavio Delbono, la sua ex-compagna ed ex-segretaria Cinzia Cracchi, gli altri personaggi minori di questa non edificante storia bolognese, penso non sia necessario riassumere la vicenda. Da bolognese, da elettore della sinistra, da persona che ha avuto qualche responsabilità politica - nel Pds e in seguito nei Ds - ci sono diversi aspetti della storia che non mi piacciono, ma uno su tutti mi ha colpito e su questo permettetemi qualche annotazione.
Qualche tempo fa ho scritto una "considerazione" (la nr. 9, per la precisione) per denunciare un annuncio di lavoro gravemente "maschilista": si ricercava per uno studio professionale bolognese una donna laureata in ingegneria o in architettura, richiedendo come unico altro requisito la "bella presenza". Per tornare alla vicenda oggetto delle cronache, mi pare che questo caso nasconda la stessa logica. Da un lato c'è un uomo che ha utilizzato il proprio ruolo e la propria influenza, prima per favorire la sua compagna (assegnandole un lavoro più gratificante e meglio retribuito, portandola in giro nei suoi viaggi istituzionali e così via) e in seguito, finita la storia d'amore, per danneggiarla (togliendole il lavoro e tutti i benefit inclusi); dall'altro lato c'è una donna che ha accettato, forse ha preteso - non sono in grado di sapere come è andata e francamente non mi interessa molto saperlo - comunque ha approfittato di questa situazione, fino a che non ne ha dovuto pagare le conseguenze. Ci sono poi tante "comparse", persone che conoscevano la situazione, che hanno fatto chiacchiere a mezza bocca, che prima omaggiavano la signora e dopo hanno fatto finta di non conoscerla e così via. Sinceramente non considero Cinzia Cracchi una vittima, ma certo Flavio Delbono ha delle responsabilità maggiori.
Un uomo qualsiasi - virtuoso e peccatore nella media - che nella sua vita ha avuto anche solo un po' di potere, sa che ci si sente gratificati, e sotto sotto anche orgogliosi, delle attenzioni che gli vengono rivolte, specialmente da persone dell'altro sesso, anche quando si sospetta siano interessate. E' umano, però non bisognerebbe approfittarne e purtroppo temo che Delbono lo abbia fatto, al di là delle storie che si raccontano e che ovviamente a questo punto trovano spazio anche nei giornali seri. Questo non ha rilevanza penale, ma ha una forte valenza etica e politica. Io vorrei che il mio sindaco fosse convinto che il rispetto delle donne passa non solo attraverso la decisione di avere una giunta con molte donne, ma soprattutto attraverso un cambiamento profondo della mentalità, che è tipica di noi maschi, di approfittare della nostra forza.
Purtroppo ci sono anche donne che, entrate nella vita politica, hanno un atteggiamento decisamente maschile e penso che non sia un buon modello per riformare in profondità la politica. Il tema quindi non è solo quello di promuovere donne, ma quello di cambiare una mentalità che ha radici profonde. Alcuni giorni fa - prima che scoppiasse lo scandalo e quando a Bologna si parlava d'altro - di fronte alle difficoltà del partito bolognese di eleggere il nuovo segretario della federazione (per i veti, i contro-veti, le gelosie e le piccinerie dei tanti piccoli potentati , in cui si sta trasformando il partito), un autorevole esponente ha lanciato la proposta di eleggere in quel ruolo una donna. Inutile dire che quell'esponente è un uomo; questa proposta - forse al di là della buona fede del proponente - finisce per essere ancora più riduttiva per le donne. Il segretario di federazione si sceglie - o si dovrebbe scegliere - in base alle idee, alle esperienze, alle proposte, non in base al fatto che sia uomo o donna.
Un ulteriore appunto. Delle difficoltà del Partito Democratico ho già scritto altre volte (da ultimo nella "considerazione" nr. 61) e credetemi che lo faccio con amarezza, vorrei davvero poter dire con orgoglio che questo è il mio partito. Credo però che occorra riflettere su una scelta, quella di candidare Delbono, nata a tavolino, in una logica di equilibrio, senza riflettere su quello che è avvenuto davvero nella vita politica di questa città, almeno a partire dagli anni novanta, con tutto quello che c'è stato in mezzo (la lotta tra gruppi dirigenti che ha portato alla fine dell'esperienza di Vitali, gli anni di Guazzaloca e di Cofferati, per motivi diversi "estranei" a quella lotta ed entrambi incapaci di risolvere la questione). E' innegabile che la crisi della sinistra in questa città ha accompagnato la crisi della città nel suo complesso. Naturalmente ciascuno è responsabile per quello che fa. Se Delbono ha delle responsabilità penali, è giusto che paghi; personalmente credo che abbia responsabilità morali e di questo giudicherà la sua coscienza e, se ci sarà l'occasione, giudicheranno gli elettori. Ma la responsabilità del punto a cui siamo arrivati non è solo sua, è di molti, a livelli e in gradi diversi, anche nostra di militanti ed elettori.
p.s. So bene che in questo paese ci sono già moltissime leggi - e troppe non sono applicate - ma francamente ritengo urgente un codicillo che vieti, con pene severissime per i trasgressori, di coniare nuove parole con il suffisso -gate per indicare un qualsivoglia scandalo politico.
sabato 23 gennaio 2010
Considerazioni libere (63): a proposito di aiuti umanitari...
Mentre le notizie provenienti da Haiti scivolano piuttosto velocemente nelle pagine interne dei giornali (nel "Corriere della sera" di oggi si trovano alle pagine 16 e 17), ci si interroga su come sarà possibile organizzare e gestire in maniera efficace gli aiuti internazionali, che dovranno essere molto ingenti, viste la gravità del disastro e l'estrema povertà in cui già versava l'isola prima del sisma. Il governo haitiano, già molto debole, è stato spazzato via e fino a ora gli Stati Uniti pare stiano esercitando di fatto una sorta di protettorato sull'isola caraibica: mentre l'aereoporto è già, anche formalmente, controllato dalle truppe americane, il resto del territorio è in preda all'anarchia, alla mercé di bande armate che già erano operanti o che si sono formate in questi giorni, vista la situazione fuori controllo. E immagino - visto che non ci sono informazioni certe dall'interno e dalle città più piccole - che la situazione sia tanto più difficile, quanto più ci si allontani da Port-au-Prince.
Questa riflessione mi ha spinto a cercare un editoriale che avevo letto su un numero di "Internazionale" dell'anno scorso, dedicato alla difficoltà delle organizzazioni non governative a lavorare in teatri di guerra "non-convenzionali". La giornalista olandese Linda Polman spiega che, specialmente in situazioni di guerra civile, dove le strutture politico-amministrative sono saltate e il potere è di fatto nelle mani di bande ribelli, organizzazioni terroristiche, signori della guerra - attualmente la maggior parte delle situazioni di conflitto nel pianeta sono di questo tipo, piuttosto che guerre "classiche" tra stati sovrani che rispettano, o almeno fingono di farlo, le convenzioni internazionali - le ong sono costrette a scendere a patti con questi soggetti per poter continuare a svolgere il proprio impegno, assolutamente meritevole, verso le popolazioni colpite.
Polman fa alcuni esempi. In Cambogia negli anni ottanta le milizie dei khmer rossi si sono impadronite di una parte rilevante degli aiuti alimentari e sanitari destinati dalle Nazioni Unite alle popolazioni. Negli anni novanta gli aiuti alle popolazioni hutu fuggite in Zaire hanno permesso di armare le bande di quell'etnia, che hanno poi sterminato i tutsi in Ruanda. Attualmente in Somalia alcuni signori della guerra pretendono che l'80% degli aiuti sia destinato prima di tutto alle loro truppe o ai villaggi loro fedeli e si calcola che in Darfur le circa 130 ong presenti versino, più o meno direttamente, milioni di dollari al regime di Khartoum, mentre dall'interno dei campi i ribelli ricevono viveri e aiuti.
Il valore degli aiuti umanitari è di circa sei miliardi di dollari all'anno. Naturalmente per tantissime persone queste risorse sono fondamentali, fanno la differenza tra la vita e la morte, eppure queste risorse finiscono per alimentare quelle stesse guerre, di cui piangiamo le vittime. Paradossalmente gli aiuti rischiano di alimentare le guerre e di far crescere il numero delle vittime. E' una riflessione che le ong non vogliono fare, perché rischierebbe di vanificare la loro azione di raccolta di fondi nei paesi occidentali e che né i singoli governi né l'Onu fino a ora ha avviato in maniera seria.
Polman nell'articolo, di cui vi consiglio la lettura (nr. 822 di "Internazionale" del novembre scorso), non dà una risposta ai tanti interrogativi che nascono da queste riflessioni, ma mi pare importante cominciare a farsi queste domande.
Questa riflessione mi ha spinto a cercare un editoriale che avevo letto su un numero di "Internazionale" dell'anno scorso, dedicato alla difficoltà delle organizzazioni non governative a lavorare in teatri di guerra "non-convenzionali". La giornalista olandese Linda Polman spiega che, specialmente in situazioni di guerra civile, dove le strutture politico-amministrative sono saltate e il potere è di fatto nelle mani di bande ribelli, organizzazioni terroristiche, signori della guerra - attualmente la maggior parte delle situazioni di conflitto nel pianeta sono di questo tipo, piuttosto che guerre "classiche" tra stati sovrani che rispettano, o almeno fingono di farlo, le convenzioni internazionali - le ong sono costrette a scendere a patti con questi soggetti per poter continuare a svolgere il proprio impegno, assolutamente meritevole, verso le popolazioni colpite.
Polman fa alcuni esempi. In Cambogia negli anni ottanta le milizie dei khmer rossi si sono impadronite di una parte rilevante degli aiuti alimentari e sanitari destinati dalle Nazioni Unite alle popolazioni. Negli anni novanta gli aiuti alle popolazioni hutu fuggite in Zaire hanno permesso di armare le bande di quell'etnia, che hanno poi sterminato i tutsi in Ruanda. Attualmente in Somalia alcuni signori della guerra pretendono che l'80% degli aiuti sia destinato prima di tutto alle loro truppe o ai villaggi loro fedeli e si calcola che in Darfur le circa 130 ong presenti versino, più o meno direttamente, milioni di dollari al regime di Khartoum, mentre dall'interno dei campi i ribelli ricevono viveri e aiuti.
Il valore degli aiuti umanitari è di circa sei miliardi di dollari all'anno. Naturalmente per tantissime persone queste risorse sono fondamentali, fanno la differenza tra la vita e la morte, eppure queste risorse finiscono per alimentare quelle stesse guerre, di cui piangiamo le vittime. Paradossalmente gli aiuti rischiano di alimentare le guerre e di far crescere il numero delle vittime. E' una riflessione che le ong non vogliono fare, perché rischierebbe di vanificare la loro azione di raccolta di fondi nei paesi occidentali e che né i singoli governi né l'Onu fino a ora ha avviato in maniera seria.
Polman nell'articolo, di cui vi consiglio la lettura (nr. 822 di "Internazionale" del novembre scorso), non dà una risposta ai tanti interrogativi che nascono da queste riflessioni, ma mi pare importante cominciare a farsi queste domande.
"Diario bolognese" di Vittorio Sereni
Io non so come sempre
un disperato murmure m'opprima
nell'aria del tuo mezzogiorno
tanto diffusa ai colli dentro il sole
tanto quaggiù gremita e fumicosa.
E non è fiore in te che non m'esprima
il male che presto lo morde,
non per finestra musica s'inoltra
che amara non ricada sull'estate.
Invano sotto San Luca ogni strada
voluttuosa rallenta, alla tua gioia
sono cieco ed inerme.
E l'ombra dorata trabocca nel rogo serale,
l'amore sui volti s'imbestia,
fugge oltre i borghi il tempo irreparabile
della nostra viltà.
un disperato murmure m'opprima
nell'aria del tuo mezzogiorno
tanto diffusa ai colli dentro il sole
tanto quaggiù gremita e fumicosa.
E non è fiore in te che non m'esprima
il male che presto lo morde,
non per finestra musica s'inoltra
che amara non ricada sull'estate.
Invano sotto San Luca ogni strada
voluttuosa rallenta, alla tua gioia
sono cieco ed inerme.
E l'ombra dorata trabocca nel rogo serale,
l'amore sui volti s'imbestia,
fugge oltre i borghi il tempo irreparabile
della nostra viltà.
venerdì 22 gennaio 2010
da "Destra e sinistra" di Norberto Bobbio
Gli uomini sono tra loro tanto eguali che diseguali. Sono eguali per certi aspetti e diseguali per altri. Volendo fare l'esempio più ovvio: sono eguali di fronte alla morte perché tutti sono mortali, ma sono diseguali di fronte al modo di morire perché ognuno muore in modo diverso da ogni altro. Tutti parlano, ma vi sono migliaia di lingue diverse. Non tutti, ma milioni e milioni hanno un rapporto con un aldilà ignoto, ma ognuno adora o prega a suo modo il proprio Dio o i propri dei.
Si può dar conto di questo dato di fatto inoppugnabile precisando che sono eguali se si considerano come genus e li si confronta a un genus diverso come quello degli altri animali e degli altri essere viventi, da cui li differenzia qualche carattere specifico e particolarmente rilevante, come quello che per lunga tradizione ha consentito di definire l'uomo animal rationale. Sono diseguali tra loro, se li si considera uti singoli, cioè prendendoli uno per uno. Tra gli uomini tanto l'eguaglianza quanto la diseguaglianza sono fattualmente vere, perché le une e le altre sono confermate da prove empiriche irrefutabili. Ma l'apparente contraddittorietà delle due proposizioni "Gli uomini sono eguali" e "Gli uomini sono diseguali" dipende unicamente dal fatto che, nell'osservarli, nel giudicarli e nel trarre conseguenze pratiche, si metta l'accento su ciò che hanno in comune o piuttosto su ciò che li distingue. Ebbene, si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali quanto diseguali, apprezzano maggiormente e ritengono più importante per una buona convivenza ciò che li accomuna; inegualitari, al contrario, coloro che, partendo dallo stesso giudizio di fatto, apprezzano e ritengono più importante, per attuare una buona convivenza, la loro diversità.
Si tratta di un contrasto tra scelte ultime di cui è difficile sapere quale sia l'origine profonda. Ma è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che riesce, a mio parere, meglio di ogni altro criterio a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra. Da un lato vi sono coloro che ritengono che gli uomini siano più eguali che diseguali, dall'altro coloro che ritengono siano più diseguali che uguali.
A questo contrasto di scelte ultime si accompagna anche una diversa valutazione del rapporto tra eguaglianza-diseguaglianza naturale ed eguaglianza-diseguaglianza sociale. L'egualitario parte dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianza che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono sociali e, in quanto tali, eliminabili; l'inegualitario, invece, parte dalla convinzione opposta, che siano naturali e, in quanto tali, ineliminabili.
[...] Ancora una volta non sto dicendo che una maggiore eguaglianza è un bene e una maggiore diseguaglianza sia da preferire sempre e in ogni caso ad altri valori come la libertà, il benessere, la pace. Intendo semplicemente ribadire la mia tesi che l'elemento che meglio caratterizza le dottrine e i movimenti che si sono chiamati "sinistra", e come tali sono stati per lo più riconosciuti, è l'egualitarismo, quando esso sia inteso non come l'utopia di una società in cui tutti sono eguali in tutto, ma come tendenza, da un lato, a esaltare più ciò che rende gli uomini eguali che ciò che i rende diseguali, dall'altro, in sede pratica, a favorire le politiche che mirano a rendere più eguali i diseguali.
Una politica egualitaria è caratterizzata dalla tendenza a rimuovere gli ostacoli (per riprendere l'espressione del già citato articolo 3 della nostra Costituzione) che rendono gli uomini e le donne meno eguali. Una delle più convincenti prove storiche della tesi sin qui sostenuta secondo cui il carattere distintivo della sinistra è l'egualitarismo, si può dedurre dal fatto che uno dei temi principali, se non il principale, della sinistra storica, comune tanto ai comunisti quanto ai socialisti, è stato la rimozione di quello che è apparso, non solo nel secolo scorso ma sin dall'antichità, uno dei maggiori, se non il maggiore, ostacolo all'eguaglianza tra gli uomini, la proprietà individuale, il "terribile diritto". [...] La lotta per l'abolizione della proprietà individuale, per la collettivizzazione, ancorché non integrale, dei mezzi di produzione, è sempre stata, per la sinistra, una lotta per l'eguaglianza, per la rimozione dell'ostacolo principale all'attuazione di una società di eguali. Persino la politica delle nazionalizzazioni, che ha caratterizzato per un lungo tratto di tempo la politica economica dei partiti socialisti, è stata condotta in nome di un ideale egualitario, se pure non nel senso positivo di aumentare l'eguaglianza, ma nel senso negativo di diminuire una fonte di diseguaglianza.
Che la discriminazione tra ricchi e poveri, introdotta e perpetuata dalla persistenza del diritto considerato inalienabile della proprietà individuale, sia considerata la principale causa della diseguaglianza, non esclude il riconoscimento di altre ragioni di discriminazione, come quella tra uomini e donne, tra lavoro manuale e intellettuale, tra popoli superiori e popoli inferiori.
Non ho difficoltà ad ammettere quali e quanti siano stati gli effetti perversi dei modi con cui si è cercato di realizzare l'ideale. Mi è accaduto non molto tempo fa di parlare a questo proposito di "utopia capovolta" in seguito alla constatazione che una grandiosa utopia egualitaria, quella comunista, vagheggiata da secoli, si è capovolta nel suo contrario al primo tentativo storico di attuarla. Nessuna delle città ideali descritte dai filosofi era stata mai proposta come un modello da volgere in pratica. Platone sapeva che la repubblica ideale, di cui aveva parlato coi suoi amici e discepoli, non era destinata a esistere in nessun luogo, ma era vera soltanto, come dice Glaucone a Socrate, "nei nostri discorsi". E, invece, è avvenuto che la prima volta che un'utopia egualitaria è entrata nella storia, passando dal regno dei "discorsi" a quello delle cose, si è rovesciata nel suo contrario.
Ma, aggiungevo, il grande problema della diseguaglianza tra gli uomini e i popoli di questo mondo è rimasto in tutta la sua gravità e insopportabilità. E perché non dire, anche, nella sua minacciosa pericolosità per coloro che si ritengono soddisfatti? Anzi, nella accresciuta coscienza che andiamo ogni giorno di più acquistando delle condizioni del Terzo e del Quarto mondo, di quello che Latouche ha chiamato "il pianeta dei naufraghi", le dimensioni del problema si sono smisuratamente e drammaticamente allargate. Il comunismo storico è fallito. Ma la sfida che esso aveva lanciato è rimasta. Se per consolarci, andiamo dicendo che in questa parte del mondo abbiamo dato vita alla società dei due terzi, non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla maggior parte dei paesi ove la società dei due terzi, o addirittura dei quattro quinti e dei nove decimi, è quell'altra.
Si può dar conto di questo dato di fatto inoppugnabile precisando che sono eguali se si considerano come genus e li si confronta a un genus diverso come quello degli altri animali e degli altri essere viventi, da cui li differenzia qualche carattere specifico e particolarmente rilevante, come quello che per lunga tradizione ha consentito di definire l'uomo animal rationale. Sono diseguali tra loro, se li si considera uti singoli, cioè prendendoli uno per uno. Tra gli uomini tanto l'eguaglianza quanto la diseguaglianza sono fattualmente vere, perché le une e le altre sono confermate da prove empiriche irrefutabili. Ma l'apparente contraddittorietà delle due proposizioni "Gli uomini sono eguali" e "Gli uomini sono diseguali" dipende unicamente dal fatto che, nell'osservarli, nel giudicarli e nel trarre conseguenze pratiche, si metta l'accento su ciò che hanno in comune o piuttosto su ciò che li distingue. Ebbene, si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali quanto diseguali, apprezzano maggiormente e ritengono più importante per una buona convivenza ciò che li accomuna; inegualitari, al contrario, coloro che, partendo dallo stesso giudizio di fatto, apprezzano e ritengono più importante, per attuare una buona convivenza, la loro diversità.
Si tratta di un contrasto tra scelte ultime di cui è difficile sapere quale sia l'origine profonda. Ma è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che riesce, a mio parere, meglio di ogni altro criterio a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra. Da un lato vi sono coloro che ritengono che gli uomini siano più eguali che diseguali, dall'altro coloro che ritengono siano più diseguali che uguali.
A questo contrasto di scelte ultime si accompagna anche una diversa valutazione del rapporto tra eguaglianza-diseguaglianza naturale ed eguaglianza-diseguaglianza sociale. L'egualitario parte dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianza che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono sociali e, in quanto tali, eliminabili; l'inegualitario, invece, parte dalla convinzione opposta, che siano naturali e, in quanto tali, ineliminabili.
[...] Ancora una volta non sto dicendo che una maggiore eguaglianza è un bene e una maggiore diseguaglianza sia da preferire sempre e in ogni caso ad altri valori come la libertà, il benessere, la pace. Intendo semplicemente ribadire la mia tesi che l'elemento che meglio caratterizza le dottrine e i movimenti che si sono chiamati "sinistra", e come tali sono stati per lo più riconosciuti, è l'egualitarismo, quando esso sia inteso non come l'utopia di una società in cui tutti sono eguali in tutto, ma come tendenza, da un lato, a esaltare più ciò che rende gli uomini eguali che ciò che i rende diseguali, dall'altro, in sede pratica, a favorire le politiche che mirano a rendere più eguali i diseguali.
Una politica egualitaria è caratterizzata dalla tendenza a rimuovere gli ostacoli (per riprendere l'espressione del già citato articolo 3 della nostra Costituzione) che rendono gli uomini e le donne meno eguali. Una delle più convincenti prove storiche della tesi sin qui sostenuta secondo cui il carattere distintivo della sinistra è l'egualitarismo, si può dedurre dal fatto che uno dei temi principali, se non il principale, della sinistra storica, comune tanto ai comunisti quanto ai socialisti, è stato la rimozione di quello che è apparso, non solo nel secolo scorso ma sin dall'antichità, uno dei maggiori, se non il maggiore, ostacolo all'eguaglianza tra gli uomini, la proprietà individuale, il "terribile diritto". [...] La lotta per l'abolizione della proprietà individuale, per la collettivizzazione, ancorché non integrale, dei mezzi di produzione, è sempre stata, per la sinistra, una lotta per l'eguaglianza, per la rimozione dell'ostacolo principale all'attuazione di una società di eguali. Persino la politica delle nazionalizzazioni, che ha caratterizzato per un lungo tratto di tempo la politica economica dei partiti socialisti, è stata condotta in nome di un ideale egualitario, se pure non nel senso positivo di aumentare l'eguaglianza, ma nel senso negativo di diminuire una fonte di diseguaglianza.
Che la discriminazione tra ricchi e poveri, introdotta e perpetuata dalla persistenza del diritto considerato inalienabile della proprietà individuale, sia considerata la principale causa della diseguaglianza, non esclude il riconoscimento di altre ragioni di discriminazione, come quella tra uomini e donne, tra lavoro manuale e intellettuale, tra popoli superiori e popoli inferiori.
Non ho difficoltà ad ammettere quali e quanti siano stati gli effetti perversi dei modi con cui si è cercato di realizzare l'ideale. Mi è accaduto non molto tempo fa di parlare a questo proposito di "utopia capovolta" in seguito alla constatazione che una grandiosa utopia egualitaria, quella comunista, vagheggiata da secoli, si è capovolta nel suo contrario al primo tentativo storico di attuarla. Nessuna delle città ideali descritte dai filosofi era stata mai proposta come un modello da volgere in pratica. Platone sapeva che la repubblica ideale, di cui aveva parlato coi suoi amici e discepoli, non era destinata a esistere in nessun luogo, ma era vera soltanto, come dice Glaucone a Socrate, "nei nostri discorsi". E, invece, è avvenuto che la prima volta che un'utopia egualitaria è entrata nella storia, passando dal regno dei "discorsi" a quello delle cose, si è rovesciata nel suo contrario.
Ma, aggiungevo, il grande problema della diseguaglianza tra gli uomini e i popoli di questo mondo è rimasto in tutta la sua gravità e insopportabilità. E perché non dire, anche, nella sua minacciosa pericolosità per coloro che si ritengono soddisfatti? Anzi, nella accresciuta coscienza che andiamo ogni giorno di più acquistando delle condizioni del Terzo e del Quarto mondo, di quello che Latouche ha chiamato "il pianeta dei naufraghi", le dimensioni del problema si sono smisuratamente e drammaticamente allargate. Il comunismo storico è fallito. Ma la sfida che esso aveva lanciato è rimasta. Se per consolarci, andiamo dicendo che in questa parte del mondo abbiamo dato vita alla società dei due terzi, non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla maggior parte dei paesi ove la società dei due terzi, o addirittura dei quattro quinti e dei nove decimi, è quell'altra.
da "La Guinea" di Pier Paolo Pasolini
per ricordare Stefano Cucchi...
[...]
L'intelligenza non avrà mai peso, mai
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai
da uno dei milioni d'anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,
di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l'ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza -
alzare la mia sola puerile voce -
non ha più senso: la viltà avvezza
a vedere morire nel modo più atroce
gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.
[...]
L'intelligenza non avrà mai peso, mai
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai
da uno dei milioni d'anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,
di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l'ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza -
alzare la mia sola puerile voce -
non ha più senso: la viltà avvezza
a vedere morire nel modo più atroce
gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.
martedì 19 gennaio 2010
"In questa notte d'autunno" di Nazim Hikmet
In questa notte d'autunno
sono pieno delle tue parole
parole eterne come il tempo
come la materia
parole pesanti come la mano
scintillanti come le stelle.
Dalla tua testa dalla tua carne
dal tuo cuore
mi sono giunte le tue parole
le tue parole cariche di te
le tue parole, madre
le tue parole, amore
le tue parole, amica.
Erano tristi, amare
erano allegre, piene di speranza
erano coraggiose, eroiche
le tue parole
erano uomini.
lunedì 18 gennaio 2010
In memoria di Andrea Costa...
Andrea Costa (Imola, 30 novembre 1851 - Imola, 19 gennaio 1910), tra i fondatori del Partito Socialista Italiano e primo deputato di idee socialiste nel parlamento italiano.
Dal discorso di autodifesa durante il processo davanti alla Corte d'Assise di Bologna, nell'udienza del 16 giugno 1876.
Cittadini Giurati!
Il Pubblico Ministero, cercando di suscitare contro di noi il fanatismo e la paura, si rivolgeva alle vostre cattive passioni, io mi rivolgo ai vostri sentimenti di equità e di giustizia; egli vi parlava come un profeta di guai e di sventure parla ad una moltitudine superstiziosa e ignorante, io parlo come uomo ad uomini.
[...] Noi vogliamo lo svolgimento pieno e completo di tutti gl'istinti, di tutte le facoltà, di tutte le passioni umane, noi vogliamo l'umanamento dell'uomo! Donde si deduce che non è la emancipazione della classe operaia quella per cui ci adoperiamo, ma la emancipazione intera e completa di tutto il genere umano.
"Le idee che voi professate, diceva il Pubblico Ministero, sono contrarie al senso comune; voi avete senso comune; dunque, professandole, siete in mala fede". Sì, Pubblico Ministero, se le idee che noi professiamo fossero quelle che voi esponeste, avreste ragione di chiamarci pazzi o malvagi: ma voi sapete per primo che quelle idee non le professiamo, e male vi opponeste quando credeste si ridesse di noi alla esposizione poco felice e poco originale di ciò che chiamavate i principii dell'internazionale! Non si rideva di noi, perché le idee nostre sono abbastanza conosciute e voi le avete fatte conoscere maggiormente; ma si rideva di voi, che tenevate e Giurati e Difensori e Cittadini tutti tanto ingenui da credere per un momento, che noi potessimo professare le idee da voi esposte. Quella accusa di mala fede, o Pubblico Ministero, non giunge fino a noi.
"Giù la maschera", diceva il Pubblico Ministero. Noi, non vogliamo ritorcere contro di voi questo grido, perché noi che secondo voi non crediamo in nulla, crediamo pur sempre nella integrità della natura umana; e questo grido facciamo conto di non aver udito, per non ritorcerlo contro di voi.
"Voi volete distruggere la scienza". Sì, la scienza che mette il mondo creato da seimila anni; la scienza che mandava al rogo Giordano Bruno, la scienza che torturava Galileo, la scienza vostra che tiene per disonesti coloro che non credono, questa scienza non siamo noi che vogliamo distruggerla: essa è già morta. Ma la scienza nuova, del progresso, della luce, la scienza che ha atterrati i vecchi idoli e i vecchi pregiudizi, e che atterrerà per la sua efficacia i vecchi privilegi, di quella scienza noi siamo modesti sì, ma appassionati cultori, ed è nostro vanto applicarla al sistema sociale, e da essa attingiamo la nostra forza.
"Voi non avete fede!" replicò il Pubblico Ministero. E come sopporteremmo allora calmi e tranquilli le vostre ingiurie, le vostre carceri, i vostri birri e le continue vessazioni alle quali siamo esposti se non avessimo fede profonda nella giustizia delle rivendicazioni sociali per le quali ci adoperiamo?
Via dunque, queste accuse di voi indegne, dettate da odio partigiano... [...] In vero, se noi consideriamo quegli avvenimenti per se stessi non possiamo fare a mano di ridere della pochezza dei mezzi di cui disponevano coloro che vi presero parte. Ma se consideriamo la condotta dei partecipanti, non rideremo più; ma saremo compresi di ammirazione per giovani che ad un fine non ben intraveduto, ma generoso, sacrificavano il loro avvenire ed andavano incontro a sacrificare la vita. E' ridicolo; ma è al tempo stesso sublime.
[...] Ci chiamate malfattori. Ebbene questo titolo lo accettiamo; e chi sa che un giorno come la croce da strumento di infamia divenne simbolo di redenzione, questo nome di malfattori dato a noi e dai noi accettato non indichi i precursori di una rigenerazione novella!
E con questo, cittadini giurati, ho finito. La coscienza popolare che voi rappresentate si è già abbastanza manifestata. Che, se nonostante tutto questo, voi doveste condannarci, noi non ci appelleremo ad una Corte di Cassazione del Regno; noi ci appelleremo invece ad un tribunale ben più severo e formidabile, un tribunale, o cittadini, che deve un giorno giudicare noi imputati, e voi giudici: noi ci appelleremo all'avvenire ed alla Storia!
Dal discorso di autodifesa durante il processo davanti alla Corte d'Assise di Bologna, nell'udienza del 16 giugno 1876.
Cittadini Giurati!
Il Pubblico Ministero, cercando di suscitare contro di noi il fanatismo e la paura, si rivolgeva alle vostre cattive passioni, io mi rivolgo ai vostri sentimenti di equità e di giustizia; egli vi parlava come un profeta di guai e di sventure parla ad una moltitudine superstiziosa e ignorante, io parlo come uomo ad uomini.
[...] Noi vogliamo lo svolgimento pieno e completo di tutti gl'istinti, di tutte le facoltà, di tutte le passioni umane, noi vogliamo l'umanamento dell'uomo! Donde si deduce che non è la emancipazione della classe operaia quella per cui ci adoperiamo, ma la emancipazione intera e completa di tutto il genere umano.
"Le idee che voi professate, diceva il Pubblico Ministero, sono contrarie al senso comune; voi avete senso comune; dunque, professandole, siete in mala fede". Sì, Pubblico Ministero, se le idee che noi professiamo fossero quelle che voi esponeste, avreste ragione di chiamarci pazzi o malvagi: ma voi sapete per primo che quelle idee non le professiamo, e male vi opponeste quando credeste si ridesse di noi alla esposizione poco felice e poco originale di ciò che chiamavate i principii dell'internazionale! Non si rideva di noi, perché le idee nostre sono abbastanza conosciute e voi le avete fatte conoscere maggiormente; ma si rideva di voi, che tenevate e Giurati e Difensori e Cittadini tutti tanto ingenui da credere per un momento, che noi potessimo professare le idee da voi esposte. Quella accusa di mala fede, o Pubblico Ministero, non giunge fino a noi.
"Giù la maschera", diceva il Pubblico Ministero. Noi, non vogliamo ritorcere contro di voi questo grido, perché noi che secondo voi non crediamo in nulla, crediamo pur sempre nella integrità della natura umana; e questo grido facciamo conto di non aver udito, per non ritorcerlo contro di voi.
"Voi volete distruggere la scienza". Sì, la scienza che mette il mondo creato da seimila anni; la scienza che mandava al rogo Giordano Bruno, la scienza che torturava Galileo, la scienza vostra che tiene per disonesti coloro che non credono, questa scienza non siamo noi che vogliamo distruggerla: essa è già morta. Ma la scienza nuova, del progresso, della luce, la scienza che ha atterrati i vecchi idoli e i vecchi pregiudizi, e che atterrerà per la sua efficacia i vecchi privilegi, di quella scienza noi siamo modesti sì, ma appassionati cultori, ed è nostro vanto applicarla al sistema sociale, e da essa attingiamo la nostra forza.
"Voi non avete fede!" replicò il Pubblico Ministero. E come sopporteremmo allora calmi e tranquilli le vostre ingiurie, le vostre carceri, i vostri birri e le continue vessazioni alle quali siamo esposti se non avessimo fede profonda nella giustizia delle rivendicazioni sociali per le quali ci adoperiamo?
Via dunque, queste accuse di voi indegne, dettate da odio partigiano... [...] In vero, se noi consideriamo quegli avvenimenti per se stessi non possiamo fare a mano di ridere della pochezza dei mezzi di cui disponevano coloro che vi presero parte. Ma se consideriamo la condotta dei partecipanti, non rideremo più; ma saremo compresi di ammirazione per giovani che ad un fine non ben intraveduto, ma generoso, sacrificavano il loro avvenire ed andavano incontro a sacrificare la vita. E' ridicolo; ma è al tempo stesso sublime.
[...] Ci chiamate malfattori. Ebbene questo titolo lo accettiamo; e chi sa che un giorno come la croce da strumento di infamia divenne simbolo di redenzione, questo nome di malfattori dato a noi e dai noi accettato non indichi i precursori di una rigenerazione novella!
E con questo, cittadini giurati, ho finito. La coscienza popolare che voi rappresentate si è già abbastanza manifestata. Che, se nonostante tutto questo, voi doveste condannarci, noi non ci appelleremo ad una Corte di Cassazione del Regno; noi ci appelleremo invece ad un tribunale ben più severo e formidabile, un tribunale, o cittadini, che deve un giorno giudicare noi imputati, e voi giudici: noi ci appelleremo all'avvenire ed alla Storia!
domenica 17 gennaio 2010
Considerazioni libere (62): a proposito di calcio e di povertà...
Mentre sono qui che aspetto - come fanno tante altre persone - i risultati delle partite di calcio, temendo l'ennesima sconfitta della mia squadra, mi sembra giusto raccontare una brutta storia che in qualche modo c'entra con il calcio.
Tra alcuni mesi si giocherà in Sudafrica il campionato del mondo di calcio, la prima edizione che si svolge in Africa. Tra le città designate a ospitare alcune partite c'è anche Nelspruit, a nord est del paese, vicino al Kruger national park; ne sentiremo parlare ancora, perché il 20 giugno si giocherà proprio lì Italia-Nuova Zelanda. A Nelspruit però non c'era un impianto idoneo a ospitare le partite e così è stato investito più di un miliardo di rand per costruire il nuovo stadio Mbobela, con una capienza di 43.500 posti. Forse qualcuno potrebbe obiettare che investire una cifra simile per un impianto che sarà utilizzato solo per tre partite è uno spreco di risorse, ma certo noi italiani non siamo i più adatti a dare lezioni agli altri paesi riguardo alla gestione di grandi manifestazioni sportive.
Però lo stadio Mbobela è stato costruito vicino a una grande baraccopoli, dove non ci sono acqua corrente, fognature ed elettricità. Si può immaginare che chi abita in questa parte di Nelspruit non andrà a vedere le partite, nonostante il richiamo della squadra allenata da Lippi. La storia che volevo raccontare non è nemmeno questa.
Quando, nel 2007, i responsabili del consorzio franco-sudafricano, incaricato di costruire lo stadio, sono arrivati sul posto hanno chiesto la disponibilità di due edifici con elettricità e aria condizionata per sistemare gli uffici amministrativi e i tecnici che avrebbero dovuto gestire il cantiere. La richiesta in sé non era particolarmente esosa, se non che gli unici edifici con queste caratteristiche erano le scuole. Qui c'è la piccola storia: le scuole sono state requisite, i bambini hanno frequentato le lezioni in container senza aria condizionata e a tutt'oggi non sono state ancora costruite le scuole nuove promesse.
Chissà se qualcuno racconterà questa storia prima delle telecronache?
p.s. devo questa storia al giornalista inglese R.W. Johnson, autore di un articolo su London Review of Books, tradotto e pubblicato nel nr. 828 di Internazionale; ve ne consiglio la lettura
Tra alcuni mesi si giocherà in Sudafrica il campionato del mondo di calcio, la prima edizione che si svolge in Africa. Tra le città designate a ospitare alcune partite c'è anche Nelspruit, a nord est del paese, vicino al Kruger national park; ne sentiremo parlare ancora, perché il 20 giugno si giocherà proprio lì Italia-Nuova Zelanda. A Nelspruit però non c'era un impianto idoneo a ospitare le partite e così è stato investito più di un miliardo di rand per costruire il nuovo stadio Mbobela, con una capienza di 43.500 posti. Forse qualcuno potrebbe obiettare che investire una cifra simile per un impianto che sarà utilizzato solo per tre partite è uno spreco di risorse, ma certo noi italiani non siamo i più adatti a dare lezioni agli altri paesi riguardo alla gestione di grandi manifestazioni sportive.
Però lo stadio Mbobela è stato costruito vicino a una grande baraccopoli, dove non ci sono acqua corrente, fognature ed elettricità. Si può immaginare che chi abita in questa parte di Nelspruit non andrà a vedere le partite, nonostante il richiamo della squadra allenata da Lippi. La storia che volevo raccontare non è nemmeno questa.
Quando, nel 2007, i responsabili del consorzio franco-sudafricano, incaricato di costruire lo stadio, sono arrivati sul posto hanno chiesto la disponibilità di due edifici con elettricità e aria condizionata per sistemare gli uffici amministrativi e i tecnici che avrebbero dovuto gestire il cantiere. La richiesta in sé non era particolarmente esosa, se non che gli unici edifici con queste caratteristiche erano le scuole. Qui c'è la piccola storia: le scuole sono state requisite, i bambini hanno frequentato le lezioni in container senza aria condizionata e a tutt'oggi non sono state ancora costruite le scuole nuove promesse.
Chissà se qualcuno racconterà questa storia prima delle telecronache?
p.s. devo questa storia al giornalista inglese R.W. Johnson, autore di un articolo su London Review of Books, tradotto e pubblicato nel nr. 828 di Internazionale; ve ne consiglio la lettura
sabato 16 gennaio 2010
Considerazioni libere (61): a proposito di elezioni regionali...
Si sta completando - a dire la verità, con un certo ritardo e con parecchio affanno - la definizione delle candidature per le prossime elezioni regionali e purtroppo devo constatare che Bersani non è riuscito a dare al Partito Democratico quella capacità di proposta e quel pragmatismo emiliano che in tanti ci aspettavamo da lui. A onor del vero, bisogna dire che la responsabilità del triste spettacolo offerto in questi giorni dal Pd deve essere ripartita tra l'intero gruppo dirigente nazionale, i vari capi e capetti locali, le diverse anime e correnti.
Nel Lazio, dove sarebbe servito un colpo d'ala - dopo la triste storia di Marrazzo - il centrosinistra è riuscito effettivamente a trovare una candidata di valore, in grado di ribaltare un risultato che sembrava già scritto, ma la soluzione è venuta da fuori, mentre il Pd annaspava. In Umbria si sta andando alla conta tra Lorenzetti e Agostini, un'esponente della maggioranza e uno della minoranza, in un non previsto "terzo tempo" di un congresso, che è stato molto lungo, ma che con ogni evidenza non si è ancora del tutto concluso. In Veneto, dove il centrosinistra perderà, sarebbe comunque necessario trovare un candidato o una candidata per preparare l'opposizione, se non vogliamo rischiare di consegnare una regione così importante alla destra in eterno, come abbiamo già fatto in Lombardia; eppure il candidato del centrosinistra non c'è ancora. In Emilia-Romagna, dove il centrosinistra vincerà, la decisione di ricandidare un bravo presidente (che pure ha già fatto due mandati) è stata dettata più dalla necessità di mantenere un equilibrio tra le anime, più o meno palesi, del partito piuttosto che da una riflessione sul futuro incerto della regione. Nel sud assistiamo purtroppo all'affermarsi del potere di interdizione e di veto di troppi capi locali: Loiero è ancora del Pd? Emiliano che partita sta giocando in Puglia? E Bassolino? Senza dimenticare che in Sicilia - dove per fortuna non si vota - una parte del Pd sta cercando un accordo con Lombardo. Come ho già detto in un'altra "considerazione" (quella dedicata a Baarìa) ho grande rispetto delle compagne e dei compagni che hanno fatto (e fanno) politica nel Mezzogiorno con impegno e onestà e mi rendo conto che, vista la forza che in quelle regioni ha la criminalità, è ben più difficile farlo lì che qui in Emilia-Romagna; eppure bisogna denunciare che sta prevalendo nel centrosinistra di quelle regioni un modo di fare politica basato sulle clientele, attento ai rapporti e agli equilibri di potere, a volte colluso con le varie mafie: è quello che abbiamo combattuto per anni e che ora ci sta inghiottendo.
Mi rendo conto di essere pessimista e naturalmente spero di sbagliarmi.
Nel Lazio, dove sarebbe servito un colpo d'ala - dopo la triste storia di Marrazzo - il centrosinistra è riuscito effettivamente a trovare una candidata di valore, in grado di ribaltare un risultato che sembrava già scritto, ma la soluzione è venuta da fuori, mentre il Pd annaspava. In Umbria si sta andando alla conta tra Lorenzetti e Agostini, un'esponente della maggioranza e uno della minoranza, in un non previsto "terzo tempo" di un congresso, che è stato molto lungo, ma che con ogni evidenza non si è ancora del tutto concluso. In Veneto, dove il centrosinistra perderà, sarebbe comunque necessario trovare un candidato o una candidata per preparare l'opposizione, se non vogliamo rischiare di consegnare una regione così importante alla destra in eterno, come abbiamo già fatto in Lombardia; eppure il candidato del centrosinistra non c'è ancora. In Emilia-Romagna, dove il centrosinistra vincerà, la decisione di ricandidare un bravo presidente (che pure ha già fatto due mandati) è stata dettata più dalla necessità di mantenere un equilibrio tra le anime, più o meno palesi, del partito piuttosto che da una riflessione sul futuro incerto della regione. Nel sud assistiamo purtroppo all'affermarsi del potere di interdizione e di veto di troppi capi locali: Loiero è ancora del Pd? Emiliano che partita sta giocando in Puglia? E Bassolino? Senza dimenticare che in Sicilia - dove per fortuna non si vota - una parte del Pd sta cercando un accordo con Lombardo. Come ho già detto in un'altra "considerazione" (quella dedicata a Baarìa) ho grande rispetto delle compagne e dei compagni che hanno fatto (e fanno) politica nel Mezzogiorno con impegno e onestà e mi rendo conto che, vista la forza che in quelle regioni ha la criminalità, è ben più difficile farlo lì che qui in Emilia-Romagna; eppure bisogna denunciare che sta prevalendo nel centrosinistra di quelle regioni un modo di fare politica basato sulle clientele, attento ai rapporti e agli equilibri di potere, a volte colluso con le varie mafie: è quello che abbiamo combattuto per anni e che ora ci sta inghiottendo.
Mi rendo conto di essere pessimista e naturalmente spero di sbagliarmi.
I partiti appaiono totalmente assorbiti dalla scelta dei candidati per le prossime elezioni regionali. Al centro del dibattito campeggia da mesi il tema delle riforme istituzionali [...]. Se le due agende - quella degli italiani e quella della politica - non si incontrano e a milioni di cittadini giunge l'immagine di una politica che discute più di sé che dell'Italia, la distanza tra Paese e istituzioni crescerà e si diffonderà ancor di più un sentimento di estraneità.Condivido queste parole che ho tratto da un bell'articolo che Piero Fassino ha scritto per il "Corriere della sera" di qualche giorno fa, riferendosi anche al partito di cui è un esponente nazionale. E' sempre più faticoso aspettare che cambi qualcosa.
"Salvezza" di Guido Gozzano
venerdì 15 gennaio 2010
Considerazioni libere (60): a proposito di classi sociali...
In questi giorni l'ex ministro laburista Alan Milburn ha presentato i risultati di un'indagine condotta da una commissione della Camera dei comuni sulla mobilità sociale nel Regno Unito. I dati si commentano da soli: benché solo il 7% dei bambini inglesi frequenti le scuole private e quindi provenga da famiglie ricche che si possono permettere tali costi, il 75% dei giudici, il 70% dei finanzieri della City, il 45% degli alti funzionari dello stato e il 32% dei parlamentari hanno frequentato queste scuole. In sostanza in Gran Bretagna le carriere migliori sono ad appannaggio di chi ha avuto - e di chi ha - un'educazione migliore, ma chi ha un'educazione migliore è in grandissima maggioranza figlio e nipote di persone già facenti parte della classe dirigente britannica; c'è una scarsissima mobilità sociale e per citare lo stesso Milburn "abbiamo un sacco di ragazzi brillanti che non riescono a farsi strada perché non hanno gli agganci e non possono frequentare le scuole che contano".
Non ho trovato dati aggiornati sulla situazione nel nostro paese, ma l'esperienza mi porta a credere che la situazione sia ben peggiore, aggravata dal fatto che qui non esiste un sistema di scuole private di eccellenza (e anche le scuole pubbliche non sono messe bene) e le carriere si trasmettono semplicemente per via ereditaria, con la conseguenza che nella nostra classe dirigente e nel mondo delle professioni - dove peraltro c'è uno scarso ricambio generazionale - ci sono tantissimi "figli di".
Per tornare in Gran Bretagna, i bambini - per non parlare delle bambine - che nascono in famiglie povere sono decisamente svantaggiati: hanno meno opportunità di apprendere, di leggere, di viaggiare rispetto ai loro coetanei che hanno la fortuna di nascere in famiglie ricche. I ricercatori statunitensi Betty Hart e Todd Risley hanno dimostrato che i figli dei professionisti sentono in media 2.153 parole all'ora rispetto alle 616 dei figli di famiglie povere e che questo influisce in maniera diretta sullo sviluppo cognitivo dei bambini, fin dai primi anni di vita. Questo è naturalmente un limite grave per la società, che si priva di intelligenze e risorse potenziali solo per il fatto che hanno la sfortuna di nascere in famiglie "sbagliate", ma soprattutto è una grande ingiustizia sociale per quelle bambine e quei bambini.
Dal nostro vocabolario sono ormai sparite le espressioni "lotta di classe" e "nemico di classe": questo probabilmente è un bene. Ma è anche sparita la parola "classe". E questo credo sia un male, anche perché ci manca una categoria importante per interpretare quello che avviene intorno a noi. Ad esempio - scusate se riprendo un tema che ho appena affrontato, nella "considerazione" nr. 56 - per spiegare i fatti di Rosarno si è preferito utilizzare le categorie etniche piuttosto che quelle sociali: a mio avviso, non si è trattato di uno scontro tra bianchi e neri, tra italiani e stranieri, ma di uno scontro tra quelli che un tempo avremmo chiamato proletari e sottoproletari, oppure - per usare espressioni che Adriano Sofri utilizza nel saggio contenuto nel volume Sinistra senza sinistra, edito da Feltrinelli nell'ottobre 2008 - tra i "penultimi" e gli "ultimi". Può sembrare un paradosso, ma proprio quando l'economia è diventata l'elemento centrale delle nostre vite - molto più della politica - è venuta a mancare quell'idea di divisione in classi della società che serve a spiegarne le dinamiche.
Personalmente credo la sinistra europea dovrebbe ripartire da qui: dallo studio delle classi e dall'evidenza che queste tendono sempre più a chiudersi, con l'obiettivo di dare a tutti i bambini - e a tutte le bambine - le stesse opportunità.
p.s. ho preso spunto per questa "considerazione" dall'editoriale che l'ex direttore della rivista The Observer Will Hutton ha scritto per il nr. 829 di Internazionale; ve ne consiglio la lettura
Non ho trovato dati aggiornati sulla situazione nel nostro paese, ma l'esperienza mi porta a credere che la situazione sia ben peggiore, aggravata dal fatto che qui non esiste un sistema di scuole private di eccellenza (e anche le scuole pubbliche non sono messe bene) e le carriere si trasmettono semplicemente per via ereditaria, con la conseguenza che nella nostra classe dirigente e nel mondo delle professioni - dove peraltro c'è uno scarso ricambio generazionale - ci sono tantissimi "figli di".
Per tornare in Gran Bretagna, i bambini - per non parlare delle bambine - che nascono in famiglie povere sono decisamente svantaggiati: hanno meno opportunità di apprendere, di leggere, di viaggiare rispetto ai loro coetanei che hanno la fortuna di nascere in famiglie ricche. I ricercatori statunitensi Betty Hart e Todd Risley hanno dimostrato che i figli dei professionisti sentono in media 2.153 parole all'ora rispetto alle 616 dei figli di famiglie povere e che questo influisce in maniera diretta sullo sviluppo cognitivo dei bambini, fin dai primi anni di vita. Questo è naturalmente un limite grave per la società, che si priva di intelligenze e risorse potenziali solo per il fatto che hanno la sfortuna di nascere in famiglie "sbagliate", ma soprattutto è una grande ingiustizia sociale per quelle bambine e quei bambini.
Dal nostro vocabolario sono ormai sparite le espressioni "lotta di classe" e "nemico di classe": questo probabilmente è un bene. Ma è anche sparita la parola "classe". E questo credo sia un male, anche perché ci manca una categoria importante per interpretare quello che avviene intorno a noi. Ad esempio - scusate se riprendo un tema che ho appena affrontato, nella "considerazione" nr. 56 - per spiegare i fatti di Rosarno si è preferito utilizzare le categorie etniche piuttosto che quelle sociali: a mio avviso, non si è trattato di uno scontro tra bianchi e neri, tra italiani e stranieri, ma di uno scontro tra quelli che un tempo avremmo chiamato proletari e sottoproletari, oppure - per usare espressioni che Adriano Sofri utilizza nel saggio contenuto nel volume Sinistra senza sinistra, edito da Feltrinelli nell'ottobre 2008 - tra i "penultimi" e gli "ultimi". Può sembrare un paradosso, ma proprio quando l'economia è diventata l'elemento centrale delle nostre vite - molto più della politica - è venuta a mancare quell'idea di divisione in classi della società che serve a spiegarne le dinamiche.
Personalmente credo la sinistra europea dovrebbe ripartire da qui: dallo studio delle classi e dall'evidenza che queste tendono sempre più a chiudersi, con l'obiettivo di dare a tutti i bambini - e a tutte le bambine - le stesse opportunità.
p.s. ho preso spunto per questa "considerazione" dall'editoriale che l'ex direttore della rivista The Observer Will Hutton ha scritto per il nr. 829 di Internazionale; ve ne consiglio la lettura
mercoledì 13 gennaio 2010
Considerazioni libere (59): a proposito di Haiti...
Questa mattina ci siamo svegliati con la notizia del terribile terremoto che ha distrutto Port-au-Prince, la capitale di Haiti. Le immagini della televisione riescono a trasmettere solo parzialmente il dramma che si sta vivendo in quel paese e che stanno vivendo le persone che hanno i propri familiari in quell'inferno.
Ora è il tempo della solidarietà internazionale, ma non possiamo dimenticare che le donne e gli uomini di Haiti non stanno soffrendo soltanto a causa di un terremoto. Haiti è uno dei paesi più poveri al mondo. Secondo i dati pubblicati nel 2009 e riferiti al 2007, Haiti occupa la 149esima posizione su 182 nella classifica dell'Indice di sviluppo umano, che viene elaborato tenendo conto dell'aspettativa di vita, dell'alfabetizzazione e del Pil procapite. Circa l'80% della popolazione vive in una condizione di povertà degradante.
Noam Chomsky ha dedicato molti studi alla storia di Haiti e in particolare al ruolo svolto in quel paese dagli Stati Uniti in tutto il secolo scorso. Riprendo alcune delle considerazioni dall'articolo che egli ha scritto per The Boston Review, tradotto e pubblicato nel nr. 816 di Internazionale dello scorso ottobre, integrandole con alcune altre informazioni che è possibile trovare in rete. Haiti fu invasa dai marines nel 1915, durante la presidenza di Woodrow Wilson, per garantire gli interessi delle industrie degli Stati Uniti minacciate dalla concorrenza di quelle tedesche. L'occupazione durò fino al 1934. Seguì un periodo di grande incertezza, a cui pose fine, a partire dal 1957 , la dittatura di François Duvalier, soprannominato Papa Doc, sostenuto in chiave anticomunista e anticastrista dagli Stati Uniti (e dalla Francia, che, da antica potenza coloniale, ha sempre mantenuto degli interessi nell'isola); la dittatura di Duvalier è stata una delle più crudeli e voraci del continente americano. Haiti fino alla fine degli anni Novanta è stata sia un mercato per i prodotti statunitensi sia una fonte di manodopera, specialmente femminile, a basso reddito per le stesse industrie di proprietà di multinazionali americane. I presidenti degli Usa, nonostante i diversi orientamenti politici, hanno sempre mostrato grande attenzione per le vicende haitiane: dopo non aver fatto nulla per difendere il presidente Jean-Bertrand Aristide - eletto democraticamente nel 1991 e deposto pochi mesi dopo dai militari - nel '94 i marines sbarcarono nuovamente ad Haiti per insediare nuovamente il presidente Aristide, che in cambio promosse una politica fortemente neoliberista, aperta alle importazioni degli Usa. Perfino in un rapporto dell'Usaid, l'agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, si dichiara che questa politica ha portato al tracollo i coltivatori di riso dell'isola caraibica. I marines sono sbarcati nuovamente ad Haiti nel 2004 per deporre Aristide. In sintesi le scelte politiche ed economiche degli Stati Uniti hanno condizionato profondamente la storia di Haiti e sono una delle cause principali dell'estrema povertà di quel paese: ora è doveroso da parte del presidente Obama non solo stanziare aiuti per salvare quel popolo, ma invertire una politica, che ha considerato quel paese una colonia di fatto degli Usa.
Per finire vi consiglio una lettura, il romanzo I commedianti di Graham Greene - uno dei miei libri preferiti, come vedete nell'elenco qui di fianco - una storia ambientata ad Haiti negli anni di Papa Doc; questo libro, pur raccontando una storia di fantasia riesce a descrivere in maniera viva sia l'orrore della dittatura sia le responsabilità di chi quel regime ha voluto non vedere per tanti anni.
Ora è il tempo della solidarietà internazionale, ma non possiamo dimenticare che le donne e gli uomini di Haiti non stanno soffrendo soltanto a causa di un terremoto. Haiti è uno dei paesi più poveri al mondo. Secondo i dati pubblicati nel 2009 e riferiti al 2007, Haiti occupa la 149esima posizione su 182 nella classifica dell'Indice di sviluppo umano, che viene elaborato tenendo conto dell'aspettativa di vita, dell'alfabetizzazione e del Pil procapite. Circa l'80% della popolazione vive in una condizione di povertà degradante.
Noam Chomsky ha dedicato molti studi alla storia di Haiti e in particolare al ruolo svolto in quel paese dagli Stati Uniti in tutto il secolo scorso. Riprendo alcune delle considerazioni dall'articolo che egli ha scritto per The Boston Review, tradotto e pubblicato nel nr. 816 di Internazionale dello scorso ottobre, integrandole con alcune altre informazioni che è possibile trovare in rete. Haiti fu invasa dai marines nel 1915, durante la presidenza di Woodrow Wilson, per garantire gli interessi delle industrie degli Stati Uniti minacciate dalla concorrenza di quelle tedesche. L'occupazione durò fino al 1934. Seguì un periodo di grande incertezza, a cui pose fine, a partire dal 1957 , la dittatura di François Duvalier, soprannominato Papa Doc, sostenuto in chiave anticomunista e anticastrista dagli Stati Uniti (e dalla Francia, che, da antica potenza coloniale, ha sempre mantenuto degli interessi nell'isola); la dittatura di Duvalier è stata una delle più crudeli e voraci del continente americano. Haiti fino alla fine degli anni Novanta è stata sia un mercato per i prodotti statunitensi sia una fonte di manodopera, specialmente femminile, a basso reddito per le stesse industrie di proprietà di multinazionali americane. I presidenti degli Usa, nonostante i diversi orientamenti politici, hanno sempre mostrato grande attenzione per le vicende haitiane: dopo non aver fatto nulla per difendere il presidente Jean-Bertrand Aristide - eletto democraticamente nel 1991 e deposto pochi mesi dopo dai militari - nel '94 i marines sbarcarono nuovamente ad Haiti per insediare nuovamente il presidente Aristide, che in cambio promosse una politica fortemente neoliberista, aperta alle importazioni degli Usa. Perfino in un rapporto dell'Usaid, l'agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, si dichiara che questa politica ha portato al tracollo i coltivatori di riso dell'isola caraibica. I marines sono sbarcati nuovamente ad Haiti nel 2004 per deporre Aristide. In sintesi le scelte politiche ed economiche degli Stati Uniti hanno condizionato profondamente la storia di Haiti e sono una delle cause principali dell'estrema povertà di quel paese: ora è doveroso da parte del presidente Obama non solo stanziare aiuti per salvare quel popolo, ma invertire una politica, che ha considerato quel paese una colonia di fatto degli Usa.
Per finire vi consiglio una lettura, il romanzo I commedianti di Graham Greene - uno dei miei libri preferiti, come vedete nell'elenco qui di fianco - una storia ambientata ad Haiti negli anni di Papa Doc; questo libro, pur raccontando una storia di fantasia riesce a descrivere in maniera viva sia l'orrore della dittatura sia le responsabilità di chi quel regime ha voluto non vedere per tanti anni.
martedì 12 gennaio 2010
"Nell'imminenza dei quarant'anni" di Mario Luzi
Il pensiero m'insegue in questo borgo
cupo ove corre un vento d'altipiano
e il tuffo del rondone taglia il filo
sottile in lontananza dei monti.
Sono tra poco quarant'anni d'ansia,
d'uggia, d'ilarità improvvise, rapide
com'è rapida a marzo la ventata
che sparge luce e pioggia, son gli indugi,
lo strappo a mani tese dai miei cari,
dai miei luoghi, abitudini di anni
rotte a un tratto che devo ora comprendere.
L'albero di dolore scuote i rami...
Si sollevano gli anni alle mie spalle
a sciami. Non fu vano, è questa l'opera
che si compie ciascuno e tutti insieme
i vivi i morti, penetrare il mondo
opaco lungo vie chiare e cunicoli
fitti d'incontri effimeri e di perdite
o d'amore in amore o in uno solo
di padre in figlio fino a che sia limpido.
E detto questo posso incamminarmi
spedito tra l'eterna compresenza
del tutto nella vita nella morte,
sparire nella polvere o nel fuoco
se il fuoco oltre la fiamma dura ancora.
cupo ove corre un vento d'altipiano
e il tuffo del rondone taglia il filo
sottile in lontananza dei monti.
Sono tra poco quarant'anni d'ansia,
d'uggia, d'ilarità improvvise, rapide
com'è rapida a marzo la ventata
che sparge luce e pioggia, son gli indugi,
lo strappo a mani tese dai miei cari,
dai miei luoghi, abitudini di anni
rotte a un tratto che devo ora comprendere.
L'albero di dolore scuote i rami...
Si sollevano gli anni alle mie spalle
a sciami. Non fu vano, è questa l'opera
che si compie ciascuno e tutti insieme
i vivi i morti, penetrare il mondo
opaco lungo vie chiare e cunicoli
fitti d'incontri effimeri e di perdite
o d'amore in amore o in uno solo
di padre in figlio fino a che sia limpido.
E detto questo posso incamminarmi
spedito tra l'eterna compresenza
del tutto nella vita nella morte,
sparire nella polvere o nel fuoco
se il fuoco oltre la fiamma dura ancora.
lunedì 11 gennaio 2010
"La poesia che prese il posto di un monte" di Wallace Stevens
Era là, parola per parola,
la poesia che prese il posto di un monte.
Egli ne respirava l’ossigeno,
perfino quando il libro stava rivoltato nella polvere del tavolo.
Gli ricordava come avesse avuto bisogno
di un luogo da raggiungere nella sua direzione,
come egli avesse ricomposto i pini,
spostando le rocce e trovato un sentiero fra le nuvole,
per giungere al punto d’osservazione giusto,
dove egli sarebbe stato completo di una completezza inspiegata:
la roccia esatta dove le di lui inesattezze
scoprissero, alla fine, la vista che erano andate guadagnando,
dove egli potesse coricarsi e, fissando in basso il mare,
riconoscere la sua unica e solitaria casa.
la poesia che prese il posto di un monte.
Egli ne respirava l’ossigeno,
perfino quando il libro stava rivoltato nella polvere del tavolo.
Gli ricordava come avesse avuto bisogno
di un luogo da raggiungere nella sua direzione,
come egli avesse ricomposto i pini,
spostando le rocce e trovato un sentiero fra le nuvole,
per giungere al punto d’osservazione giusto,
dove egli sarebbe stato completo di una completezza inspiegata:
la roccia esatta dove le di lui inesattezze
scoprissero, alla fine, la vista che erano andate guadagnando,
dove egli potesse coricarsi e, fissando in basso il mare,
riconoscere la sua unica e solitaria casa.
Considerazioni libere (58): a proposito di strade e di memoria...
Capisco i motivi che hanno spinto una politica accorta come Letizia Moratti - subito seguita a Bologna da personaggi molto meno accorti - a proporre di intitolare una via o un parco di Milano a Bettino Craxi: da un lato ha mandato un segnale ai tanti craxiani che l'hanno sostenuta (e la dovranno ancora sostenere) e dall'altro ha creato imbarazzi e alimentato veleni nel campo del centrosinistra. Se ha raggiunto un risultato positivo per sé, non si può certo dire che abbia fatto un gran servizio alla memoria di Craxi e più in generale all'analisi della storia recente del nostro paese. Neppure i figli di Craxi mi pare rendano un gran servizio alla memoria del padre, dando il peggio di sé in polemiche francamente imbarazzanti. Tra le riforme istituzionali prossime venture ci dovrebbe essere il divieto di usare la storia come arma impropria, magari portando da dieci a cinquanta anni dalla morte il tempo necessario per passare dalla cronaca alla toponomastica.
Sinceramente credo non sia giusto intitolare una via a un politico su cui pesano delle sentenze di condanna passate in giudicato e che ha scelto di morire da latitante. Con altrettanta convinzione credo occorra ripensare agli anni in cui Craxi fu un protagonista della scena politica italiana.
Non so quanti altri militanti di sinistra si pongano con frequenza questo stesso mio interrogativo, ma per me il problema cruciale è essenzialmente questo: come mai in Italia, a differenza di tutti gli altri paesi europei, non esiste un partito socialista che abbia la forza e i numeri per governare? Se riguardiamo alla nostra storia recente credo sia innegabile dire che la responsabilità di questa sconfitta epocale ricada sia sul Pci che sul Psi. Francamente adesso mi sembra inutile cercare di quantificare la percentuale di responsabilità: sarebbe un esercizio sterile e innescherebbe soltanto nuove polemiche. Probabilmente Berlinguer non riuscì a capire i cambiamenti che stavano avvenendo nel profondo della società italiana, come invece riuscì a intuirli Craxi, ma nessuno dei due seppe dare le risposte necessarie a quel mondo che cambiava. Forse entrambi erano prigionieri di una storia molto lunga di cui erano gli eredi, una storia fatta di scontri più o meno aperti, di sospetti, di divisioni profonde. Nessuno dei due ebbe la forza e il coraggio di pensare a uno schema diverso, oppure non ne ebbero la possibilità: in fasi diverse cercarono entrambi un accordo con la Democrazia Cristiana e in entrambi i casi la Dc riuscì a imporre loro non solo la propria agenda politica, ma anche il proprio stile politico. E' vero che ci furono fortissimi condizionamenti esterni, il terrorismo, le trame di cui ancora non sappiamo molto, eppure c'è una responsabilità storica di questi due partiti se si è permessa la vittoria delle forze ostili alle riforme, proprio grazie alla divisione delle due forze principali della sinistra italiana.
Io credo che su questo punto non abbiamo ancora riflettuto in maniera sufficiente e non è bastato neppure eludere il problema, come ha tentato di fare la componente della sinistra proveniente dal Pci, ponendo un obiettivo più avanzato con la creazione del Partito Democratico. Se non capiamo perché non siamo riusciti a fare un partito socialista in Italia sarà molto difficile per me fare qualcosa di nuovo.
Sinceramente credo non sia giusto intitolare una via a un politico su cui pesano delle sentenze di condanna passate in giudicato e che ha scelto di morire da latitante. Con altrettanta convinzione credo occorra ripensare agli anni in cui Craxi fu un protagonista della scena politica italiana.
Non so quanti altri militanti di sinistra si pongano con frequenza questo stesso mio interrogativo, ma per me il problema cruciale è essenzialmente questo: come mai in Italia, a differenza di tutti gli altri paesi europei, non esiste un partito socialista che abbia la forza e i numeri per governare? Se riguardiamo alla nostra storia recente credo sia innegabile dire che la responsabilità di questa sconfitta epocale ricada sia sul Pci che sul Psi. Francamente adesso mi sembra inutile cercare di quantificare la percentuale di responsabilità: sarebbe un esercizio sterile e innescherebbe soltanto nuove polemiche. Probabilmente Berlinguer non riuscì a capire i cambiamenti che stavano avvenendo nel profondo della società italiana, come invece riuscì a intuirli Craxi, ma nessuno dei due seppe dare le risposte necessarie a quel mondo che cambiava. Forse entrambi erano prigionieri di una storia molto lunga di cui erano gli eredi, una storia fatta di scontri più o meno aperti, di sospetti, di divisioni profonde. Nessuno dei due ebbe la forza e il coraggio di pensare a uno schema diverso, oppure non ne ebbero la possibilità: in fasi diverse cercarono entrambi un accordo con la Democrazia Cristiana e in entrambi i casi la Dc riuscì a imporre loro non solo la propria agenda politica, ma anche il proprio stile politico. E' vero che ci furono fortissimi condizionamenti esterni, il terrorismo, le trame di cui ancora non sappiamo molto, eppure c'è una responsabilità storica di questi due partiti se si è permessa la vittoria delle forze ostili alle riforme, proprio grazie alla divisione delle due forze principali della sinistra italiana.
Io credo che su questo punto non abbiamo ancora riflettuto in maniera sufficiente e non è bastato neppure eludere il problema, come ha tentato di fare la componente della sinistra proveniente dal Pci, ponendo un obiettivo più avanzato con la creazione del Partito Democratico. Se non capiamo perché non siamo riusciti a fare un partito socialista in Italia sarà molto difficile per me fare qualcosa di nuovo.
Considerazioni libere (57): a proposito di gioco d'azzardo e di pubblicità...
Chi ha acquistato e letto il "Corriere della sera" di oggi se n'è sicuramente già accorto, ma per chi non l'ha fatto credo sia utile sapere che nelle 48 pagine dell'edizione di oggi compare un unico inserzionista pubblicitario: il sito di poker on line PartyPoker.it; a mia memoria è la prima volta che tutti gli spazi pubblicitari del giornale vengono venduti a un'unica azienda e quindi credo che meriti una "considerazione".
Come probabilmente i miei lettori già sanno, io penso che in generale il proibizionismo arrechi più danni che benefici e quindi ritengo assolutamente giusto aver reso legale alcune forme di gioco d'azzardo, compreso il poker on line; se questo servirà a togliere risorse alle bische clandestine e quindi alla malavita che le controlla, penso che la legalizzazione di questo gioco d'azzardo sia stata una scelta giusta. E poi serve anche a far entrare risorse fresche nelle casse dello stato, che ne ha davvero bisogno. Ma, senza essere un moralista, penso anche ci sia un bel salto dal permettere il gioco d'azzardo al fargli pubblicità sui giornali. Giustamente non viene vietata la vendita delle sigarette, ma altrettanto giustamente non è consentito alle aziende produttrici di sigarette di fare pubblicità in televisione e sui giornali. Perché allora permettere che il gioco d'azzardo sia oggetto delle lusinghe della pubblicità?
Il gioco d'azzardo crea dipendenza, al pari delle droghe, del fumo e dell'alcol; molti di noi hanno conosciuto persone e famiglie rovinate da questo vizio; troppo spesso abbiano letto di storie finite tragicamente. Naturalmente so che ogni persona risponde per se stessa e deve essere consapevole delle proprie scelte e delle loro conseguenze, ma tutti noi sappiamo anche quanta forza possa avere un messaggio pubblicitario, specialmente tra i ragazzi. Quante volte abbiamo chiuso delle finestre di pop-up che ci invitavano a uno dei tanti casinò on line? Ma quante persone non hanno cancellato quelle pagine e si sono fatte prendere dal gioco?
Se avete visto il "Corriere" di oggi, avrete notato che il gioco è associato alla possibilità di fare soldi, di avere successo, di conoscere belle donne; c'è perfino un articolo secondo cui "il poker fa bene al cervello", perché favorirebbe lo stare insieme. Naturalmente il fatto che in ogni pagina del giornale - tranne che in quella dei necrologi - ci sia uno spazio dedicato a questo sito, gli dà una certa credibilità. Francamente non mi era mai capitato di vedere un grande giornale nazionale "appaltato" a un unico inserzionista e per di più di questo genere. Mi rendo conto dell'efficacia commerciale e quindi dell'interesse economico dell'editore per questa scelta, indubbiamente riuscita dal punto di vista del marketing - io ammetto di guardare molto distrattamente le pubblicità, ma stavolta me ne sono accorto - ma continuo, forse ingenuamente, a pensare che un giornale dovrebbe essere anche qualcosa di più e di diverso.
Capisco che le leggi dell'economia regnano sovrane, ma alcune volte non sarebbe meglio dire dei no?
Come probabilmente i miei lettori già sanno, io penso che in generale il proibizionismo arrechi più danni che benefici e quindi ritengo assolutamente giusto aver reso legale alcune forme di gioco d'azzardo, compreso il poker on line; se questo servirà a togliere risorse alle bische clandestine e quindi alla malavita che le controlla, penso che la legalizzazione di questo gioco d'azzardo sia stata una scelta giusta. E poi serve anche a far entrare risorse fresche nelle casse dello stato, che ne ha davvero bisogno. Ma, senza essere un moralista, penso anche ci sia un bel salto dal permettere il gioco d'azzardo al fargli pubblicità sui giornali. Giustamente non viene vietata la vendita delle sigarette, ma altrettanto giustamente non è consentito alle aziende produttrici di sigarette di fare pubblicità in televisione e sui giornali. Perché allora permettere che il gioco d'azzardo sia oggetto delle lusinghe della pubblicità?
Il gioco d'azzardo crea dipendenza, al pari delle droghe, del fumo e dell'alcol; molti di noi hanno conosciuto persone e famiglie rovinate da questo vizio; troppo spesso abbiano letto di storie finite tragicamente. Naturalmente so che ogni persona risponde per se stessa e deve essere consapevole delle proprie scelte e delle loro conseguenze, ma tutti noi sappiamo anche quanta forza possa avere un messaggio pubblicitario, specialmente tra i ragazzi. Quante volte abbiamo chiuso delle finestre di pop-up che ci invitavano a uno dei tanti casinò on line? Ma quante persone non hanno cancellato quelle pagine e si sono fatte prendere dal gioco?
Se avete visto il "Corriere" di oggi, avrete notato che il gioco è associato alla possibilità di fare soldi, di avere successo, di conoscere belle donne; c'è perfino un articolo secondo cui "il poker fa bene al cervello", perché favorirebbe lo stare insieme. Naturalmente il fatto che in ogni pagina del giornale - tranne che in quella dei necrologi - ci sia uno spazio dedicato a questo sito, gli dà una certa credibilità. Francamente non mi era mai capitato di vedere un grande giornale nazionale "appaltato" a un unico inserzionista e per di più di questo genere. Mi rendo conto dell'efficacia commerciale e quindi dell'interesse economico dell'editore per questa scelta, indubbiamente riuscita dal punto di vista del marketing - io ammetto di guardare molto distrattamente le pubblicità, ma stavolta me ne sono accorto - ma continuo, forse ingenuamente, a pensare che un giornale dovrebbe essere anche qualcosa di più e di diverso.
Capisco che le leggi dell'economia regnano sovrane, ma alcune volte non sarebbe meglio dire dei no?
domenica 10 gennaio 2010
Considerazioni libere (56): a proposito di miseria...
Ho deciso di aspettare un paio di giorni prima di scrivere questa "considerazione", dedicata a quello che è successo a Rosarno. Prima di tutto perché volevo evitare di dare giudizi affrettati, dettati più dall'emozione che dall'analisi dei fatti (anche se devo ammettere che è difficile parlare di quello che è avvenuto senza indignarsi); poi perché mi sembra necessario continuare a parlarne, anche quando sia passata la cosiddetta emergenza. Infatti, come avviene in genere nel nostro paese, di fronte a un avvenimento così grave le discussioni si animano per alcuni giorni - al massimo per una settimana - e poi si passa alla nuova emergenza. Invece non dobbiamo dimenticare quello che è successo a Rosarno, dobbiamo cercare di capire cosa davvero è accaduto. E soprattutto dobbiamo cercare di trarne degli impegni per il futuro.
Spero che la questione non si riduca alla polemica tra i sostenitori della politica dell'accoglienza e quelli che invece sostengono la politica della sicurezza e del rigore; allo stesso modo sarebbe riduttivo utilizzare unicamente le categorie del razzismo e dell'antirazzismo. A Rosarno in questi giorni non si è combattuta una guerra tra bianchi e neri, ma tra gli ultimi e i penultimi. Hanno fatto molto bene gli organi di informazione che hanno documentato le drammatiche condizioni di vita degli stranieri, costretti a vivere in case fatiscenti, senza acqua ed elettricità, sfruttati dai caporali, sottopagati dai proprietari degli agrumeti, guardati con sospetto dagli altri cittadini: questi immigrati sono davvero gli ultimi e a loro deve andare tutta la nostra solidarietà, ma vera, fatta di gesti concreti e non solo di parole. Forse non si è sufficientemente raccontata l'altra Rosarno, la Rosarno dei penultimi, che registra alti livelli di disoccupazione e alti tassi di abbandono scolastico, che condivide con altre realtà della Calabria - e purtroppo di tutto il Mezzogiorno - un livello di crescita molto inferiore a quello delle regioni settentrionali; la Rosarno il cui Consiglio comunale è stato sciolto per infiltrazioni della malavita organizzata, dove il potere reale è nella mani delle famiglie della 'ndrangheta e dove lo stato è assente o è percepito come un nemico; la Rosarno che abbiamo visto nelle immagini dei telegiornali, fatta di brutte case, probabilmente abusive, dove l'agricoltura vive solo grazie ai sussidi dell'Unione europea. E' assolutamente indispensabile che la politica cominci a occuparsi di questo, altrimenti questi conflitti saranno fatalmente destinati a ripetersi, con maggiore gravità, e piangeremo dei morti che, fortunatamente, questa volta non ci sono stati.
Forse quello che è successo a Rosarno è stato deciso dalla 'ndrangheta per dare un segnale alle istituzioni. Dopo l'attentato di fronte al tribunale di Reggio Calabria, le istituzioni avevano giustamente alzato la voce, c'era stato un impegno del governo, sostenuto dall'opposizione; allora non casualmente è arrivato questo avvertimento: "guardate che qui c'è una polveriera ed è pronta a esplodere". Certamente questa "bomba" è molto più pericolosa di qualsiasi altro ordigno. Forse la stessa 'ndrangheta ha subito questa guerriglia urbana, ha sottovalutato le tensioni tra gli ultimi e i penultimi e ora non gradisce l'attenzione che il resto del paese rivolge verso i suoi "possedimenti". Non so cosa sia davvero successo in questi giorni, so però che fino a quando intere regioni saranno governate dalla criminalità organizzata non ci sarà la possibilità di uno sviluppo normale dell'intero nostro paese.
Occorre un cambio passo, anche da parte della sinistra. Il Partito Democratico è al governo della Regione Calabria, ma ha senso continuare a sostenere Loiero? Ha senso continuare un modo di fare politica in cui le clientele sono più forti di ogni altro valore? Dobbiamo ammettere che nel Mezzogiorno - e non solo in Calabria - siamo stati sconfitti, proprio perché abbiamo vinto: può sembrare un paradosso, eppure quando abbiamo vinto, abbiamo assunto i peggiori difetti di quelli che abbiamo sostituito. E abbiamo dimenticato che la questione sociale rimane lì in tutta la sua drammacità, anzi è stata acuita dall'arrivo di centinaia e centinaia di stranieri, ultimi tra gli ultimi.
Spero che la questione non si riduca alla polemica tra i sostenitori della politica dell'accoglienza e quelli che invece sostengono la politica della sicurezza e del rigore; allo stesso modo sarebbe riduttivo utilizzare unicamente le categorie del razzismo e dell'antirazzismo. A Rosarno in questi giorni non si è combattuta una guerra tra bianchi e neri, ma tra gli ultimi e i penultimi. Hanno fatto molto bene gli organi di informazione che hanno documentato le drammatiche condizioni di vita degli stranieri, costretti a vivere in case fatiscenti, senza acqua ed elettricità, sfruttati dai caporali, sottopagati dai proprietari degli agrumeti, guardati con sospetto dagli altri cittadini: questi immigrati sono davvero gli ultimi e a loro deve andare tutta la nostra solidarietà, ma vera, fatta di gesti concreti e non solo di parole. Forse non si è sufficientemente raccontata l'altra Rosarno, la Rosarno dei penultimi, che registra alti livelli di disoccupazione e alti tassi di abbandono scolastico, che condivide con altre realtà della Calabria - e purtroppo di tutto il Mezzogiorno - un livello di crescita molto inferiore a quello delle regioni settentrionali; la Rosarno il cui Consiglio comunale è stato sciolto per infiltrazioni della malavita organizzata, dove il potere reale è nella mani delle famiglie della 'ndrangheta e dove lo stato è assente o è percepito come un nemico; la Rosarno che abbiamo visto nelle immagini dei telegiornali, fatta di brutte case, probabilmente abusive, dove l'agricoltura vive solo grazie ai sussidi dell'Unione europea. E' assolutamente indispensabile che la politica cominci a occuparsi di questo, altrimenti questi conflitti saranno fatalmente destinati a ripetersi, con maggiore gravità, e piangeremo dei morti che, fortunatamente, questa volta non ci sono stati.
Forse quello che è successo a Rosarno è stato deciso dalla 'ndrangheta per dare un segnale alle istituzioni. Dopo l'attentato di fronte al tribunale di Reggio Calabria, le istituzioni avevano giustamente alzato la voce, c'era stato un impegno del governo, sostenuto dall'opposizione; allora non casualmente è arrivato questo avvertimento: "guardate che qui c'è una polveriera ed è pronta a esplodere". Certamente questa "bomba" è molto più pericolosa di qualsiasi altro ordigno. Forse la stessa 'ndrangheta ha subito questa guerriglia urbana, ha sottovalutato le tensioni tra gli ultimi e i penultimi e ora non gradisce l'attenzione che il resto del paese rivolge verso i suoi "possedimenti". Non so cosa sia davvero successo in questi giorni, so però che fino a quando intere regioni saranno governate dalla criminalità organizzata non ci sarà la possibilità di uno sviluppo normale dell'intero nostro paese.
Occorre un cambio passo, anche da parte della sinistra. Il Partito Democratico è al governo della Regione Calabria, ma ha senso continuare a sostenere Loiero? Ha senso continuare un modo di fare politica in cui le clientele sono più forti di ogni altro valore? Dobbiamo ammettere che nel Mezzogiorno - e non solo in Calabria - siamo stati sconfitti, proprio perché abbiamo vinto: può sembrare un paradosso, eppure quando abbiamo vinto, abbiamo assunto i peggiori difetti di quelli che abbiamo sostituito. E abbiamo dimenticato che la questione sociale rimane lì in tutta la sua drammacità, anzi è stata acuita dall'arrivo di centinaia e centinaia di stranieri, ultimi tra gli ultimi.
venerdì 8 gennaio 2010
da "Le descrizioni in atto" di Roberto Roversi
Dice Kant la disciplina del genio
(ossia l’educazione) è il gusto: gli ritaglia
le ali e lo rende pulito e costumato.
Il grande Kant, savio nella sua stanzuccia
di legno, con l’onda delle idee
che si scioglie in un silenzio ordinato
e sulle vie (deserte) lo zoccolo di un cavallo.
Ma questo, che siede anch’egli, è un uomo, nella casa
con moderati calori, in un quarto piano
di paese italiano, che è, che sarà? così lontano
dai rumori. Ah, non è costumato e polito. Non costumato,
è tutto dentro sbrecciato, pendente,
insolente, tenero e terso, muscolo
macellato in una sordida ignominia,
ingorgo meschino, è gramigna spersa secca
raccolta da una vecchiaccia che insacca.
Questo non sarà polito, eh no, costumato non è (le circostanze
non lo permettono), non è pulito – tutti sentono
sulla via lo zoccolo di una morte
passare alternando il suono con quello dello spazzino
(e la sua tromba). L’alba, all’alba, l’alba
– disegnare contro i vetri col fiato –
è, nello strizzarsi delle vene,
così distesa distante, la mano aperta, l’occhiaia
di questa giornata incerta nella scelta; stramazzerà
fra noi farneticando (presto, fra noi) di dolori antichi
e dei nuovi congegni. Ammonisce così riservata superba
a non perdere le occasioni (la vita è un fulmine nel
tempo)
– intanto una ragazza sulla gamba perfetta
nell’ambito di una stanza indossa la vestaglia
spenna se stessa nello scirocco ferito da una calza
irride alla varietà degli umori
agitata da una innocua speranza.
(ossia l’educazione) è il gusto: gli ritaglia
le ali e lo rende pulito e costumato.
Il grande Kant, savio nella sua stanzuccia
di legno, con l’onda delle idee
che si scioglie in un silenzio ordinato
e sulle vie (deserte) lo zoccolo di un cavallo.
Ma questo, che siede anch’egli, è un uomo, nella casa
con moderati calori, in un quarto piano
di paese italiano, che è, che sarà? così lontano
dai rumori. Ah, non è costumato e polito. Non costumato,
è tutto dentro sbrecciato, pendente,
insolente, tenero e terso, muscolo
macellato in una sordida ignominia,
ingorgo meschino, è gramigna spersa secca
raccolta da una vecchiaccia che insacca.
Questo non sarà polito, eh no, costumato non è (le circostanze
non lo permettono), non è pulito – tutti sentono
sulla via lo zoccolo di una morte
passare alternando il suono con quello dello spazzino
(e la sua tromba). L’alba, all’alba, l’alba
– disegnare contro i vetri col fiato –
è, nello strizzarsi delle vene,
così distesa distante, la mano aperta, l’occhiaia
di questa giornata incerta nella scelta; stramazzerà
fra noi farneticando (presto, fra noi) di dolori antichi
e dei nuovi congegni. Ammonisce così riservata superba
a non perdere le occasioni (la vita è un fulmine nel
tempo)
– intanto una ragazza sulla gamba perfetta
nell’ambito di una stanza indossa la vestaglia
spenna se stessa nello scirocco ferito da una calza
irride alla varietà degli umori
agitata da una innocua speranza.
"Il mio credo pedagogico" di John Dewey
Articolo I. Cos’è l’educazione
Io credo che
– ogni educazione deriva dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della specie. Questo processo s’inizia inconsapevolmente quasi dalla nascita e plasma continuamente le facoltà dell’individuo saturando la sua coscienza formando i suoi abiti esercitando le sue idee e destando i suoi sentimenti e le sue emozioni. Mediante questa educazione inconsapevole l’individuo giunge gradualmente a condividere le risorse intellettuali e morali che l’umanità è riuscita ad accumulare. Egli diventa un’erede del capitale consolidato della civiltà. L’educazione piú formale e tecnica che esista al mondo non può sottrarsi senza rischio a questo processo generale. Può soltanto organizzarlo o trasformarlo in qualche direzione particolare.
– il processo educativo ha due aspetti l’uno psicologico e l’altro sociologico e che nessuno dei due può venire subordinato all’altro o trascurato senza che ne conseguano cattivi risultati. Di questi due aspetti quello psicologico è basilare. Gli istinti e i poteri medesimi del fanciullo forniscono il materiale e danno l’avvio a tutta l’educazione. Se gli sforzi dell’educatore non si riallacciano a qualche attività che il fanciullo compie di sua propria iniziativa indipendentemente dall’educatore stesso l’educazione si riduce a una pressione dall’esterno. Essa può dare dei risultati esterni ma non può essere veracemente chiamata educativa. Senza una penetrazione della struttura e delle attività psichiche dell’individuo il processo educativo sarà perciò accidentale e arbitrario. Se coincide fortuitamente coll’attività del fanciullo ne verrà stimolato; altrimenti risulterà in un ostacolo o in un agente di disintegrazione o di arresto della natura del fanciullo.
– la conoscenza delle condizioni sociali o dello stato attuale della civiltà è necessaria per potere interpretare esattamente i poteri del fanciullo. Questi possiede i suoi istinti e le sue tendenze ma noi ne ignoriamo il significato finché non possiamo tradurli nei loro equivalenti sociali. Dobbiamo essere capaci di riportarli ad un passato sociale e di vederli come l’eredità di precedenti attività della specie. Dobbiamo essere capaci altresí di proiettarli nel futuro per vedere quel che sarà il loro risultato e il loro fine.
– l’aspetto psicologico e quello sociale stanno fra loro in un rapporto organico e che l’educazione non può venir considerata come un compromesso fra i due aspetti o come una sovrapposizione dell’uno sull’altro. Si afferma che la definizione psicologica dell’educazione è nuda e formale che ci dà soltanto l’idea dello sviluppo di tutti i poteri della mente senza darci nessuna idea del loro impiego. D’altra parte si insiste che la definizione sociale dell’educazione come “adattamento” alla civiltà ne fa un processo forzato ed esterno e conduce a subordinare la libertà dell’individuo a una situazione sociale e politica presupposta.
– ciascuna di queste obiezioni è vera quando viene affacciata contro uno dei due aspetti isolato dall’altro. Per conoscere quel che è veramente una facoltà dobbiamo conoscerne il fine l’impiego o la funzione e ciò non è possibile se non si concepisce l’individuo come attivo nei rapporti sociali. Ma d’altra parte il solo possibile “adattamento” che possiamo dare al fanciullo nelle condizioni esistenti è quello che deriva dal porlo in possesso completo di tutte le sue facoltà. Coll’avvento della democrazia e delle moderne condizioni industriali è impossibile predire con precisione cosa sarà la civiltà di qui a venti anni. È perciò impossibile preparare il fanciullo a un ordine preciso di condizioni. Prepararlo alla vita futura significa dargli la padronanza di se stesso; significa educarlo in modo che egli arrivi a conseguire l’impiego intero e pronto di tutte le sue capacità; che il suo occhio il suo orecchio e la sua mano possano essere pronti strumenti di comando che il suo giudizio possa essere capace di afferrare le condizioni nelle quali deve lavorare e le forze che egli deve sviluppare per poter agire economicamente ed efficientemente. È impossibile raggiungere questo adattamento se non si tien conto di continuo dei poteri dei gusti e degli interessi propri dell’individuo cioè se l’educazione non è costantemente convertita in termini psicologici.
Riassumendo io credo che l’individuo che deve essere educato è un individuo sociale e che la società è un’unione organica di individui. Se eliminiamo il fattore sociale dal fanciullo si resta solo con un’astrazione; se eliminiamo il fattore individuale dalla società si resta solo con una massa inerte e senza vita. Perciò l’educazione deve iniziarsi con una penetrazione psicologica delle capacità del fanciullo dei suoi interessi e delle sue abitudini. Essa deve esser controllata ad ogni punto` con riferimento a queste stesse considerazioni. Tali facoltà interessi e abitudini devono essere continuamente interpretate; noi dobbiamo sapere qual è il loro significato. Esse devono esser tradotte nei loro equivalenti sociali e mostrare la loro capacità come organi di servizio sociale.
Articolo II. Cos’è la scuola
Io credo che
– la scuola è prima di tutto un’istituzione sociale. Essendo l’educazione un processo sociale la scuola è semplicemente quella forma di vita di comunità in cui sono concentrati tutti i mezzi che serviranno piú efficacemente a rendere il fanciullo partecipe dei beni ereditati dalla specie e a far uso dei suoi poteri per finalità sociali;
– l’educazione è perciò un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro.
– la scuola deve rappresentare la vita attuale – una vita altrettanto reale e vitale per il fanciullo di quella che egli conduce a casa nel vicinato o nel recinto dei giochi.
– quell’educazione che non si compie per mezzo di forme di vita forme che vale la pena di vivere per loro stesse è sempre un inadeguato sostituto della realtà genuina e tende a impastoiare e a intorpidire.
– la scuola come istituzione deve semplificare la vita sociale esistente; deve ridurla in certo modo a una forma embrionale. La vita esistente è così complessa che il fanciullo non può venirvi portato a contatto senza confusione o distrazione. Esso o è sopraffatto dalla molteplicità di attività che hanno luogo sí che smarrisce la sua capacità di reagire ordinatamente oppure è stimolato da queste varie attività in modo tale che le sue facoltà vengono attivate prematuramente ed esso o diventa indebitamente specializzato oppure si disintegra.
– intesa come vita sociale semplificata la vita di scuola deve svolgersi gradualmente dalla vita domestica; che deve riprendere e continuare le attività che già in casa sono familiari al fanciullo.
– deve proporre queste attività al fanciullo e riprodurle in modo che esso possa gradualmente apprenderne il significato e rendersi atto a fare la sua parte in rapporto ad esse.
– questa è una necessità psicologica perché è il solo modo di assicurare la continuità dello sviluppo del fanciullo e il solo modo di dare uno sfondo di esperienze passate alle idee nuove promosse a scuola.
– è altresí una necessità sociale perché la casa è la forma di vita sociale nella quale il fanciullo è allevato e in rapporto alla quale esso ha ricevuto la sua educazione morale. Spetta alla scuola di approfondire e di estendere il suo senso dei valori collegato alla sua vita domestica.
Articolo III. La materia dell’educazione
Io credo che
– la vita sociale del fanciullo è il fondamento della concentrazione o della correlazione di tutta la sua educazione o sviluppo. La vita sociale conferisce la unità inconsapevole e lo sfondo di tutti i suoi sforzi e di tutte le sue realizzazioni.
– la materia del programma scolastico deve differenziarsi gradualmente dall’inconsapevole unità originaria della vita sociale.
– noi violiamo la natura del fanciullo e rendiamo difficili i migliori risultati morali introducendo il fanciullo troppo bruscamente a una quantità di studi speciali come il leggere lo scrivere la geografia ed altri senza rapporto con questa vita sociale.
– il vero centro di correlazione tra le materie scolastiche non è la scienza né la letteratura né la storia o la geografia ma sono le attività sociali del fanciullo stesso.
– l’educazione dev’essere concepita come una ricostruzione continua dell’esperienza; che il processo e il fine dell’educazione sono una sola e identica cosa.
– il costituire qualsiasi fine esterno all’educazione come tale che dia ad essa il suo fine e la sua norma equivale a privare il processo educativo di gran parte del suo significato; e tende a indurci a fare assegnamento su stimoli falsi ed esterni nei nostri rapporti col fanciullo.
Articolo IV. La natura del metodo
Io credo che
– la questione del metodo sia riducibile infine alla questione dell’ordine dello sviluppo delle facoltà e degli interessi del fanciullo. La legge per la presentazione e per la trattazione della materia è la legge implicita nella natura del fanciullo medesimo. È per questo che io credo che le proposizioni seguenti siano d’importanza suprema per determinare con quale spirito si deve effettuare l’educazione.
– il lato attivo precede quello passivo nello sviluppo della natura del fanciullo; che l’espressione viene prima dell’impressione consapevole; che lo sviluppo muscolare precede quello sensoriale; che i movimenti precedono le sensazioni consapevoli. Io credo che la coscienza sia essenzialmente motrice o impulsiva; che gli stati coscienti tendano a proiettarsi in azione.
– l’aver trascurato questo princípio sia la causa di gran parte dello spreco di tempo e di energia nel lavoro scolastico. Il fanciullo è spinto a un atteggiamento passivo ricettivo o assorbente. Le condizioni sono tali che non gli è consentito di seguire la legge della sua natura; di qui i contrasti e lo sperpero.
– anche le idee (i processi intellettivi e mentali) derivano dall’azione e vengono trasmesse in vista di un migliore controllo dell’azione. Ciò che noi chiamiamo ragione è essenzialmente la legge dell’azione ordinata e efficace. Il difetto fondamentale dei metodi da noi attualmente adoperati in questo campo consiste nel tentativo di sviluppare le facoltà del ragionamento e del giudizio senza riferimento alla scelta o all’ordinamento dei mezzi di azione. Ne consegue che noi mettiamo di fronte al fanciullo dei simboli arbitrari. I simboli sono necessari allo sviluppo mentale ma il loro posto è quello di strumenti per economizzare lo sforzo; presentati in sé essi sono un insieme di idee arbitrarie e senza significato imposte dall’esterno.
_ gli interessi sono i segni e i sintomi dello sviluppo di capacità. Io ritengo che essi rappresentino delle capacità sorgenti. Perciò l’osservazione costante e accurata degli interessi è della massima importanza per l’educatore.
– questi interessi devono essere osservati come indici dello stato di sviluppo raggiunto dal fanciullo.
– essi annunciano lo stadio nel quale il fanciullo sta per entrare.
– solo mediante l’osservazione continua e sollecita degli interessi della fanciullezza è dato all’adulto di penetrare nella vita del fanciullo di scorgere la disposizione e la materia su cui egli potrebbe operare piú prontamente e con miglior esito.
– a questi interessi non si deve indulgere né li si devono reprimere. Reprimere un interesse significa sostituire l’adulto al fanciullo e indebolire in tal modo la curiosità e la prontezza intellettuale sopprimere l’iniziativa e mortificare l’interesse. Indulgere agli interessi significa sostituire ciò che è transeunte a ciò che è permanente. L’interesse è sempre il segno di qualche potere celato; la cosa importante è di scoprirlo. Indulgere all’interesse vuol dire mancar di penetrare sotto la superficie e il risultato sicuro è la sostituzione del capriccio e del ghiribizzo all’interesse genuino.
Articolo V. La scuola e il progresso sociale
Io credo che
– l’educazione è il metodo fondamentale del progresso e dell’azione sociale.
– tutte le riforme che poggiano semplicemente sull’emanazione di leggi o sulla minaccia di certe penalità o su mutamenti di dispositivi meccanici e esterni sono transitorie e futili.
– l’educazione è una regola del processo mediante cui si giunge a partecipare della consapevolezza sociale; e che l’adattamento dell’attività individuale sulla base di questa consapevolezza sociale è il solo metodo sicuro di ricostruzione sociale.
– questa concezione tiene in debito riguardo sia gli ideali individualistici che quelli socialistici. Essa è individuale perché riconosce la formazione di un certo carattere come la sola vera base del giusto vivere. È sociale perché riconosce che questo giusto carattere non deve essere formato soltanto mediante precetti esempi o esortazioni individuali ma piuttosto mediante l’influenza di una certa forma di vita istituzionale o di comunità sull’individuo e che l’organismo sociale mediante la scuola come suo organo può dar luogo a dei risultati morali.
Io credo che
– ogni educazione deriva dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della specie. Questo processo s’inizia inconsapevolmente quasi dalla nascita e plasma continuamente le facoltà dell’individuo saturando la sua coscienza formando i suoi abiti esercitando le sue idee e destando i suoi sentimenti e le sue emozioni. Mediante questa educazione inconsapevole l’individuo giunge gradualmente a condividere le risorse intellettuali e morali che l’umanità è riuscita ad accumulare. Egli diventa un’erede del capitale consolidato della civiltà. L’educazione piú formale e tecnica che esista al mondo non può sottrarsi senza rischio a questo processo generale. Può soltanto organizzarlo o trasformarlo in qualche direzione particolare.
– il processo educativo ha due aspetti l’uno psicologico e l’altro sociologico e che nessuno dei due può venire subordinato all’altro o trascurato senza che ne conseguano cattivi risultati. Di questi due aspetti quello psicologico è basilare. Gli istinti e i poteri medesimi del fanciullo forniscono il materiale e danno l’avvio a tutta l’educazione. Se gli sforzi dell’educatore non si riallacciano a qualche attività che il fanciullo compie di sua propria iniziativa indipendentemente dall’educatore stesso l’educazione si riduce a una pressione dall’esterno. Essa può dare dei risultati esterni ma non può essere veracemente chiamata educativa. Senza una penetrazione della struttura e delle attività psichiche dell’individuo il processo educativo sarà perciò accidentale e arbitrario. Se coincide fortuitamente coll’attività del fanciullo ne verrà stimolato; altrimenti risulterà in un ostacolo o in un agente di disintegrazione o di arresto della natura del fanciullo.
– la conoscenza delle condizioni sociali o dello stato attuale della civiltà è necessaria per potere interpretare esattamente i poteri del fanciullo. Questi possiede i suoi istinti e le sue tendenze ma noi ne ignoriamo il significato finché non possiamo tradurli nei loro equivalenti sociali. Dobbiamo essere capaci di riportarli ad un passato sociale e di vederli come l’eredità di precedenti attività della specie. Dobbiamo essere capaci altresí di proiettarli nel futuro per vedere quel che sarà il loro risultato e il loro fine.
– l’aspetto psicologico e quello sociale stanno fra loro in un rapporto organico e che l’educazione non può venir considerata come un compromesso fra i due aspetti o come una sovrapposizione dell’uno sull’altro. Si afferma che la definizione psicologica dell’educazione è nuda e formale che ci dà soltanto l’idea dello sviluppo di tutti i poteri della mente senza darci nessuna idea del loro impiego. D’altra parte si insiste che la definizione sociale dell’educazione come “adattamento” alla civiltà ne fa un processo forzato ed esterno e conduce a subordinare la libertà dell’individuo a una situazione sociale e politica presupposta.
– ciascuna di queste obiezioni è vera quando viene affacciata contro uno dei due aspetti isolato dall’altro. Per conoscere quel che è veramente una facoltà dobbiamo conoscerne il fine l’impiego o la funzione e ciò non è possibile se non si concepisce l’individuo come attivo nei rapporti sociali. Ma d’altra parte il solo possibile “adattamento” che possiamo dare al fanciullo nelle condizioni esistenti è quello che deriva dal porlo in possesso completo di tutte le sue facoltà. Coll’avvento della democrazia e delle moderne condizioni industriali è impossibile predire con precisione cosa sarà la civiltà di qui a venti anni. È perciò impossibile preparare il fanciullo a un ordine preciso di condizioni. Prepararlo alla vita futura significa dargli la padronanza di se stesso; significa educarlo in modo che egli arrivi a conseguire l’impiego intero e pronto di tutte le sue capacità; che il suo occhio il suo orecchio e la sua mano possano essere pronti strumenti di comando che il suo giudizio possa essere capace di afferrare le condizioni nelle quali deve lavorare e le forze che egli deve sviluppare per poter agire economicamente ed efficientemente. È impossibile raggiungere questo adattamento se non si tien conto di continuo dei poteri dei gusti e degli interessi propri dell’individuo cioè se l’educazione non è costantemente convertita in termini psicologici.
Riassumendo io credo che l’individuo che deve essere educato è un individuo sociale e che la società è un’unione organica di individui. Se eliminiamo il fattore sociale dal fanciullo si resta solo con un’astrazione; se eliminiamo il fattore individuale dalla società si resta solo con una massa inerte e senza vita. Perciò l’educazione deve iniziarsi con una penetrazione psicologica delle capacità del fanciullo dei suoi interessi e delle sue abitudini. Essa deve esser controllata ad ogni punto` con riferimento a queste stesse considerazioni. Tali facoltà interessi e abitudini devono essere continuamente interpretate; noi dobbiamo sapere qual è il loro significato. Esse devono esser tradotte nei loro equivalenti sociali e mostrare la loro capacità come organi di servizio sociale.
Articolo II. Cos’è la scuola
Io credo che
– la scuola è prima di tutto un’istituzione sociale. Essendo l’educazione un processo sociale la scuola è semplicemente quella forma di vita di comunità in cui sono concentrati tutti i mezzi che serviranno piú efficacemente a rendere il fanciullo partecipe dei beni ereditati dalla specie e a far uso dei suoi poteri per finalità sociali;
– l’educazione è perciò un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro.
– la scuola deve rappresentare la vita attuale – una vita altrettanto reale e vitale per il fanciullo di quella che egli conduce a casa nel vicinato o nel recinto dei giochi.
– quell’educazione che non si compie per mezzo di forme di vita forme che vale la pena di vivere per loro stesse è sempre un inadeguato sostituto della realtà genuina e tende a impastoiare e a intorpidire.
– la scuola come istituzione deve semplificare la vita sociale esistente; deve ridurla in certo modo a una forma embrionale. La vita esistente è così complessa che il fanciullo non può venirvi portato a contatto senza confusione o distrazione. Esso o è sopraffatto dalla molteplicità di attività che hanno luogo sí che smarrisce la sua capacità di reagire ordinatamente oppure è stimolato da queste varie attività in modo tale che le sue facoltà vengono attivate prematuramente ed esso o diventa indebitamente specializzato oppure si disintegra.
– intesa come vita sociale semplificata la vita di scuola deve svolgersi gradualmente dalla vita domestica; che deve riprendere e continuare le attività che già in casa sono familiari al fanciullo.
– deve proporre queste attività al fanciullo e riprodurle in modo che esso possa gradualmente apprenderne il significato e rendersi atto a fare la sua parte in rapporto ad esse.
– questa è una necessità psicologica perché è il solo modo di assicurare la continuità dello sviluppo del fanciullo e il solo modo di dare uno sfondo di esperienze passate alle idee nuove promosse a scuola.
– è altresí una necessità sociale perché la casa è la forma di vita sociale nella quale il fanciullo è allevato e in rapporto alla quale esso ha ricevuto la sua educazione morale. Spetta alla scuola di approfondire e di estendere il suo senso dei valori collegato alla sua vita domestica.
Articolo III. La materia dell’educazione
Io credo che
– la vita sociale del fanciullo è il fondamento della concentrazione o della correlazione di tutta la sua educazione o sviluppo. La vita sociale conferisce la unità inconsapevole e lo sfondo di tutti i suoi sforzi e di tutte le sue realizzazioni.
– la materia del programma scolastico deve differenziarsi gradualmente dall’inconsapevole unità originaria della vita sociale.
– noi violiamo la natura del fanciullo e rendiamo difficili i migliori risultati morali introducendo il fanciullo troppo bruscamente a una quantità di studi speciali come il leggere lo scrivere la geografia ed altri senza rapporto con questa vita sociale.
– il vero centro di correlazione tra le materie scolastiche non è la scienza né la letteratura né la storia o la geografia ma sono le attività sociali del fanciullo stesso.
– l’educazione dev’essere concepita come una ricostruzione continua dell’esperienza; che il processo e il fine dell’educazione sono una sola e identica cosa.
– il costituire qualsiasi fine esterno all’educazione come tale che dia ad essa il suo fine e la sua norma equivale a privare il processo educativo di gran parte del suo significato; e tende a indurci a fare assegnamento su stimoli falsi ed esterni nei nostri rapporti col fanciullo.
Articolo IV. La natura del metodo
Io credo che
– la questione del metodo sia riducibile infine alla questione dell’ordine dello sviluppo delle facoltà e degli interessi del fanciullo. La legge per la presentazione e per la trattazione della materia è la legge implicita nella natura del fanciullo medesimo. È per questo che io credo che le proposizioni seguenti siano d’importanza suprema per determinare con quale spirito si deve effettuare l’educazione.
– il lato attivo precede quello passivo nello sviluppo della natura del fanciullo; che l’espressione viene prima dell’impressione consapevole; che lo sviluppo muscolare precede quello sensoriale; che i movimenti precedono le sensazioni consapevoli. Io credo che la coscienza sia essenzialmente motrice o impulsiva; che gli stati coscienti tendano a proiettarsi in azione.
– l’aver trascurato questo princípio sia la causa di gran parte dello spreco di tempo e di energia nel lavoro scolastico. Il fanciullo è spinto a un atteggiamento passivo ricettivo o assorbente. Le condizioni sono tali che non gli è consentito di seguire la legge della sua natura; di qui i contrasti e lo sperpero.
– anche le idee (i processi intellettivi e mentali) derivano dall’azione e vengono trasmesse in vista di un migliore controllo dell’azione. Ciò che noi chiamiamo ragione è essenzialmente la legge dell’azione ordinata e efficace. Il difetto fondamentale dei metodi da noi attualmente adoperati in questo campo consiste nel tentativo di sviluppare le facoltà del ragionamento e del giudizio senza riferimento alla scelta o all’ordinamento dei mezzi di azione. Ne consegue che noi mettiamo di fronte al fanciullo dei simboli arbitrari. I simboli sono necessari allo sviluppo mentale ma il loro posto è quello di strumenti per economizzare lo sforzo; presentati in sé essi sono un insieme di idee arbitrarie e senza significato imposte dall’esterno.
_ gli interessi sono i segni e i sintomi dello sviluppo di capacità. Io ritengo che essi rappresentino delle capacità sorgenti. Perciò l’osservazione costante e accurata degli interessi è della massima importanza per l’educatore.
– questi interessi devono essere osservati come indici dello stato di sviluppo raggiunto dal fanciullo.
– essi annunciano lo stadio nel quale il fanciullo sta per entrare.
– solo mediante l’osservazione continua e sollecita degli interessi della fanciullezza è dato all’adulto di penetrare nella vita del fanciullo di scorgere la disposizione e la materia su cui egli potrebbe operare piú prontamente e con miglior esito.
– a questi interessi non si deve indulgere né li si devono reprimere. Reprimere un interesse significa sostituire l’adulto al fanciullo e indebolire in tal modo la curiosità e la prontezza intellettuale sopprimere l’iniziativa e mortificare l’interesse. Indulgere agli interessi significa sostituire ciò che è transeunte a ciò che è permanente. L’interesse è sempre il segno di qualche potere celato; la cosa importante è di scoprirlo. Indulgere all’interesse vuol dire mancar di penetrare sotto la superficie e il risultato sicuro è la sostituzione del capriccio e del ghiribizzo all’interesse genuino.
Articolo V. La scuola e il progresso sociale
Io credo che
– l’educazione è il metodo fondamentale del progresso e dell’azione sociale.
– tutte le riforme che poggiano semplicemente sull’emanazione di leggi o sulla minaccia di certe penalità o su mutamenti di dispositivi meccanici e esterni sono transitorie e futili.
– l’educazione è una regola del processo mediante cui si giunge a partecipare della consapevolezza sociale; e che l’adattamento dell’attività individuale sulla base di questa consapevolezza sociale è il solo metodo sicuro di ricostruzione sociale.
– questa concezione tiene in debito riguardo sia gli ideali individualistici che quelli socialistici. Essa è individuale perché riconosce la formazione di un certo carattere come la sola vera base del giusto vivere. È sociale perché riconosce che questo giusto carattere non deve essere formato soltanto mediante precetti esempi o esortazioni individuali ma piuttosto mediante l’influenza di una certa forma di vita istituzionale o di comunità sull’individuo e che l’organismo sociale mediante la scuola come suo organo può dar luogo a dei risultati morali.
Considerazioni libere (55): a proposito di Palestina...
Come ho già fatto in diverse altre mie "considerazioni", voglio cominciare con alcuni numeri, perché mi sembra utile ricordare sempre che là fuori c'è una realtà che possiamo "misurare", non appena vogliamo farlo, al di là di qualunque nostra opinione.
Dal 28 settembre 2000 - data in cui si fa iniziare la cosiddetta seconda intifada - a oggi, ci sono state in quella martoriata regione 8.019 vittime (per la precisione 6.838 palestinesi, 1.102 israeliani e 79 persone di altre nazionalità), secondo i dati elaborati dall'agenzia di stampa France Press. Naturalmente dietro a ciascuno di questi numeri ci sono storie di donne e di uomini, il dolore delle loro famiglie, qualcosa che è difficile da immaginare e quasi impossibile da raccontare.
Il 27 dicembre 2008 Israele lanciò a sorpresa contro la striscia di Gaza un'offensiva chiamata Cast lead, "piombo fuso"; il territorio intorno alla città palestinese è stato bombardato per cinque giorni e in seguito invaso, lasciando sul campo più di 800 morti palestinesi, 600mila tonnellate di macerie e quasi un terzo dei campi bruciati. A poco più di un anno da quell'attacco è utile fare un bilancio su chi ha vinto e su chi ha perso quel breve, ma terribile, conflitto.
Certamente Israele è uscito più sicuro dalla guerra e quindi può essere considerato un vincitore: i bombardamenti di razzi Qassam da parte delle milizie di Hamas sono praticamente terminati, le famiglie sono potute tornare a una vita "normale", per quanto sia possibile e lecito usare questo aggettivo per quell'area dove la guerra è comunque di casa. Anche Hamas, nonostante possa apparire perdente sul terreno delle armi e della tecnologia bellica, è più forte: il regime di quel partito sui palestinesi che vivono a Gaza si è fatto ancora più duro, in qualche modo giustificato dalla durezza dell'attacco israeliano e dal costante clima di guerra. Le voci che dissentono dalla linea ufficiale sono messe a tacere, si fa sempre più strada un modello di società islamica, dove le libertà, specialmente quelle delle donne, sono negate e così via. Il risultato più importante raggiunto dai capi di Hamas è quello di essere riusciti a rendere più difficile qualsiasi trattativa di pace e di fatto aver reso nulli gli accordi di Oslo.
Tra gli sconfitti ci sono certamente le donne di Gaza, che si vedono ogni giorno negare dei diritti. Ci sono i più poveri, dal momento che l'azione delle ong internazionali viene spesso ostacolata da entrambi le parti in conflitto. Ci sono naturalmente i bambini, deboli tra i deboli. C'è un altro fatto su cui vi voglio invitare a riflettere: se si confrontano i dati delle nascite avvenute a Gaza nel terzo trimestre del 2009 con quelli degli stessi mesi del 2008, si registra un aumento notevole del numero di malformazioni tra i neonati. Si tratta per lo più di anomalie cardiache e del sistema nervoso: sono le bambine e i bambini concepiti immediatamente dopo i bombardamenti, il che fa sospettare che gli israeliani abbiano utilizzato armi chimiche non dichiarate. Questi bambini hanno perso la guerra ancora prima di nascere.
Dal 28 settembre 2000 - data in cui si fa iniziare la cosiddetta seconda intifada - a oggi, ci sono state in quella martoriata regione 8.019 vittime (per la precisione 6.838 palestinesi, 1.102 israeliani e 79 persone di altre nazionalità), secondo i dati elaborati dall'agenzia di stampa France Press. Naturalmente dietro a ciascuno di questi numeri ci sono storie di donne e di uomini, il dolore delle loro famiglie, qualcosa che è difficile da immaginare e quasi impossibile da raccontare.
Il 27 dicembre 2008 Israele lanciò a sorpresa contro la striscia di Gaza un'offensiva chiamata Cast lead, "piombo fuso"; il territorio intorno alla città palestinese è stato bombardato per cinque giorni e in seguito invaso, lasciando sul campo più di 800 morti palestinesi, 600mila tonnellate di macerie e quasi un terzo dei campi bruciati. A poco più di un anno da quell'attacco è utile fare un bilancio su chi ha vinto e su chi ha perso quel breve, ma terribile, conflitto.
Certamente Israele è uscito più sicuro dalla guerra e quindi può essere considerato un vincitore: i bombardamenti di razzi Qassam da parte delle milizie di Hamas sono praticamente terminati, le famiglie sono potute tornare a una vita "normale", per quanto sia possibile e lecito usare questo aggettivo per quell'area dove la guerra è comunque di casa. Anche Hamas, nonostante possa apparire perdente sul terreno delle armi e della tecnologia bellica, è più forte: il regime di quel partito sui palestinesi che vivono a Gaza si è fatto ancora più duro, in qualche modo giustificato dalla durezza dell'attacco israeliano e dal costante clima di guerra. Le voci che dissentono dalla linea ufficiale sono messe a tacere, si fa sempre più strada un modello di società islamica, dove le libertà, specialmente quelle delle donne, sono negate e così via. Il risultato più importante raggiunto dai capi di Hamas è quello di essere riusciti a rendere più difficile qualsiasi trattativa di pace e di fatto aver reso nulli gli accordi di Oslo.
Tra gli sconfitti ci sono certamente le donne di Gaza, che si vedono ogni giorno negare dei diritti. Ci sono i più poveri, dal momento che l'azione delle ong internazionali viene spesso ostacolata da entrambi le parti in conflitto. Ci sono naturalmente i bambini, deboli tra i deboli. C'è un altro fatto su cui vi voglio invitare a riflettere: se si confrontano i dati delle nascite avvenute a Gaza nel terzo trimestre del 2009 con quelli degli stessi mesi del 2008, si registra un aumento notevole del numero di malformazioni tra i neonati. Si tratta per lo più di anomalie cardiache e del sistema nervoso: sono le bambine e i bambini concepiti immediatamente dopo i bombardamenti, il che fa sospettare che gli israeliani abbiano utilizzato armi chimiche non dichiarate. Questi bambini hanno perso la guerra ancora prima di nascere.
giovedì 7 gennaio 2010
da "La società aperta e i suoi nemici" di Karl R. Popper
1. La democrazia non può compiutamente caratterizzarsi solo come governo della maggioranza benché l'istituzione delle elezioni generali sia della massima importanza. Infatti una maggioranza può governare in maniera tirannica. (La maggioranza di coloro che hanno una statura inferiore a 6 piedi può decidere che sia la minoranza di coloro che hanno statura superiore a 6 piedi a pagare tutte le tasse). In una democrazia i poteri dei governanti devono essere limitati e il criterio di una democrazia è questo: in una democrazia i governanti – cioè il governo – possono essere licenziati dai governati senza spargimenti di sangue. Quindi se gli uomini al potere non salvaguardano quelle istituzioni che assicurano alla minoranza la possibilità di lavorare per un cambiamento pacifico il loro governo è una tirannia.
2. Dobbiamo distinguere soltanto fra due forme di governo cioè quello che possiede istituzioni di questo genere e tutti gli altri; vale a dire fra democrazia e tirannide.
3. Una costituzione democratica consistente deve escludere soltanto un tipo di cambiamento nel sistema legale cioè quel tipo di cambiamento che può mettere in pericolo il suo carattere democratico.
4. In una democrazia l'integrale protezione delle minoranze non deve estendersi a coloro che violano la legge e specialmente a coloro che incitano gli altri al rovesciamento violento della democrazia.
5. Una linea politica volta all'instaurazione di istituzioni intese alla salvaguardia della democrazia deve sempre operare in base al presupposto che ci possono essere tendenze anti-democratiche latenti sia fra i governati che fra i governanti.
6. Se la democrazia è distrutta tutti i diritti sono distrutti; anche se fossero mantenuti certi vantaggi economici goduti dai governati essi lo sarebbero solo sulla base della rassegnazione.
7. La democrazia offre un prezioso campo di battaglia per qualsiasi riforma ragionevole dato che essa permette l'attuazione di riforme senza violenza. Ma se la prevenzione della democrazia non diventa la preoccupazione preminente di ogni battaglia particolare condotta su questo campo di battaglia, le tendenze antidemocratiche latenti che sono sempre presenti (e che fanno appello a coloro che soffrono sotto l'effetto stressante della società) possono provocare il crollo della democrazia. Se la comprensione di questi principi non è ancora sufficientemente sviluppata bisogna promuoverla. La linea politica opposta può riuscire fatale; essa può comportare la perdita della battaglia piú importante che è la battaglia per la stessa democrazia.
2. Dobbiamo distinguere soltanto fra due forme di governo cioè quello che possiede istituzioni di questo genere e tutti gli altri; vale a dire fra democrazia e tirannide.
3. Una costituzione democratica consistente deve escludere soltanto un tipo di cambiamento nel sistema legale cioè quel tipo di cambiamento che può mettere in pericolo il suo carattere democratico.
4. In una democrazia l'integrale protezione delle minoranze non deve estendersi a coloro che violano la legge e specialmente a coloro che incitano gli altri al rovesciamento violento della democrazia.
5. Una linea politica volta all'instaurazione di istituzioni intese alla salvaguardia della democrazia deve sempre operare in base al presupposto che ci possono essere tendenze anti-democratiche latenti sia fra i governati che fra i governanti.
6. Se la democrazia è distrutta tutti i diritti sono distrutti; anche se fossero mantenuti certi vantaggi economici goduti dai governati essi lo sarebbero solo sulla base della rassegnazione.
7. La democrazia offre un prezioso campo di battaglia per qualsiasi riforma ragionevole dato che essa permette l'attuazione di riforme senza violenza. Ma se la prevenzione della democrazia non diventa la preoccupazione preminente di ogni battaglia particolare condotta su questo campo di battaglia, le tendenze antidemocratiche latenti che sono sempre presenti (e che fanno appello a coloro che soffrono sotto l'effetto stressante della società) possono provocare il crollo della democrazia. Se la comprensione di questi principi non è ancora sufficientemente sviluppata bisogna promuoverla. La linea politica opposta può riuscire fatale; essa può comportare la perdita della battaglia piú importante che è la battaglia per la stessa democrazia.
martedì 5 gennaio 2010
Considerazioni libere (54): a proposito di guerre dimenticate...
All'inizio del 2010, tra sabato e domenica, mentre l'attenzione mondiale era concentrata sui terroristi nello Yemen e l'attenzione italiana sull'inizio dei saldi, a Dhuusa Marreeb, una città di circa quarantamila abitanti a nord di Mogadiscio in Somalia, si è combattuta una delle battaglie più cruente degli ultimi mesi. Le informazioni che arrivano dal paese africano sono frammentarie e non si capisce quale delle due fazioni, che da tempo si contendono la città, un importante snodo strategico per il nord del paese, abbia questa volta avuto la meglio. Naturalmente non si hanno notizie precise neppure sul numero delle vittime dello scontro: probabilmente una cinquantina di morti e il doppio di feriti. Per saperne di più su questa notizia e sulla guerra che si combatte ormai da molti anni in Somalia - e per sapere cose di cui solitamente non sentiamo parlare in televisione - potete leggere quello che scrive il sito Peace reporter.
Sicuramente tra le vittime di questa ennesima battaglia ci sono i rifugiati, in maggioranza provenienti da Mogadiscio, che costituiscono circa l'80 per cento della popolazione della città; sono trentamila persone che, ancora una volta, hanno ricominciato a fuggire, scappando nei piccoli villaggi intorno a Dhuusa Marreeb, ma la loro terribile odissea non è certo destinata a finire. Occorre ricordare che sono oltre un milione gli sfollati dalla capitale somala: una situazione drammatica di cui non si parla da tempo nei paesi occidentali.
In particolare in Italia non si parla volentieri della Somalia, per diverse ragioni. Prima di tutto perché la missione delle Nazioni Unite, a cui il nostro paese ha partecipato con un importante contingente di truppe - secondo per dimensione soltanto a quello statunitense - è stata un fallimento, conclusa in maniera infruttuosa nel marzo del 1995, con la "fuga" degli ultimi caschi blu da Mogadiscio. Nonostante il contingente italiano abbia svolto con impegno la propria missione, si dovettero registrare purtroppo alcuni casi di tortura verso i prigionieri somali da parte di soldati italiani. Come scrive lo storico Angelo Del Boca: "È vero che, dalle inchieste della magistratura, è emerso che soltanto tre episodi sono da considerarsi di rilevanza penale e che «gli ufficiali, i sottufficiali e i militari di truppa coinvolti sono stati poco più di una dozzina» (come ha scritto il generale Loi, comandante del nostro contingente, ndr), ma ciò non autorizza nessuno, prima a coprire gli episodi e poi, divenuti questi di dominio pubblico, a liquidarli quasi con fastidio, quasi fossero di nessuna importanza".
Questo è però solo l'ultimo episodio di una storia che non fa onore all'Italia. Il nostro paese ha diverse colpe nei riguardi di quel paese del corno d'Africa: cinquant’anni di un duro dominio coloniale (altro che "italiani brava gente"); un decennio di mandato fiduciario - nel secondo dopoguerra - dai risultati mediocri; il sostegno senza riserve al diattore Siad Barre (in tempi di "riabilitazione" di Craxi, si dovrebbe tornare a parlare della sua sciagurata politica africana); gli scandali, su cui non si è indagato con la necessaria attenzione, riguardanti la gestione dei fondi della Cooperazione allo sviluppo (Ilaria Alpi e Mran Hrovatin sono morti per essere arrivati troppo vicini alla verità). Per non continuare a essere complici di tutto questo, facciamo almeno lo sforzo di non "censurare" le otizie che arrivano da quel paese.
Sicuramente tra le vittime di questa ennesima battaglia ci sono i rifugiati, in maggioranza provenienti da Mogadiscio, che costituiscono circa l'80 per cento della popolazione della città; sono trentamila persone che, ancora una volta, hanno ricominciato a fuggire, scappando nei piccoli villaggi intorno a Dhuusa Marreeb, ma la loro terribile odissea non è certo destinata a finire. Occorre ricordare che sono oltre un milione gli sfollati dalla capitale somala: una situazione drammatica di cui non si parla da tempo nei paesi occidentali.
In particolare in Italia non si parla volentieri della Somalia, per diverse ragioni. Prima di tutto perché la missione delle Nazioni Unite, a cui il nostro paese ha partecipato con un importante contingente di truppe - secondo per dimensione soltanto a quello statunitense - è stata un fallimento, conclusa in maniera infruttuosa nel marzo del 1995, con la "fuga" degli ultimi caschi blu da Mogadiscio. Nonostante il contingente italiano abbia svolto con impegno la propria missione, si dovettero registrare purtroppo alcuni casi di tortura verso i prigionieri somali da parte di soldati italiani. Come scrive lo storico Angelo Del Boca: "È vero che, dalle inchieste della magistratura, è emerso che soltanto tre episodi sono da considerarsi di rilevanza penale e che «gli ufficiali, i sottufficiali e i militari di truppa coinvolti sono stati poco più di una dozzina» (come ha scritto il generale Loi, comandante del nostro contingente, ndr), ma ciò non autorizza nessuno, prima a coprire gli episodi e poi, divenuti questi di dominio pubblico, a liquidarli quasi con fastidio, quasi fossero di nessuna importanza".
Questo è però solo l'ultimo episodio di una storia che non fa onore all'Italia. Il nostro paese ha diverse colpe nei riguardi di quel paese del corno d'Africa: cinquant’anni di un duro dominio coloniale (altro che "italiani brava gente"); un decennio di mandato fiduciario - nel secondo dopoguerra - dai risultati mediocri; il sostegno senza riserve al diattore Siad Barre (in tempi di "riabilitazione" di Craxi, si dovrebbe tornare a parlare della sua sciagurata politica africana); gli scandali, su cui non si è indagato con la necessaria attenzione, riguardanti la gestione dei fondi della Cooperazione allo sviluppo (Ilaria Alpi e Mran Hrovatin sono morti per essere arrivati troppo vicini alla verità). Per non continuare a essere complici di tutto questo, facciamo almeno lo sforzo di non "censurare" le otizie che arrivano da quel paese.
domenica 3 gennaio 2010
da "L'Italia sepolta sotto le neve" di Roberto Roversi
Le trenta miserie d'Italia
XII
La miseria della misera Italia numero
dodici
la testa in fiamme la sterpaglia
della festa dei pensieri paglia che
avvampa brucia fra braci di fumo.
Si consumano notizie mescolate al ricordo
di vecchie età
l'armamentario sul carro della vita
in corsa
è spazio di fresca primavera.
Altrove polvere sollevata dall'auto nella
strada di campagna
odora di mele mentre il merlo s'allontana
stride forte a filo dell'erba lungo il mare
siepi siepi siepi di oleandri abbandonati e
pini scavezzati dai venti secolari
camminano a terra.
Può la morte ordire il suo acuminato
massacro
ridurre in cenere il delfino
il vascello in fuoco
la sovrastante nuvola in ciclone e
travolgere la vita?
Il fervore trascinato in gorgo
l'esistente in un attimo è scomparso
giovinezza è il ricordo poi sull'occhio
chiuso
del cielo interminabile di tetti
e alla fine dimenticare la tomba
dei vecchi eroi?
Quante primavere gli uomini fuggitivi
abbandonano alle giovani ali che
arrivano portate dal garbino?
Si può considerare l'opportunità
di non rassegnarsi
bruciare il carro del vincitore
anche le nostre bandiere.
Per favore.
la foto è di Davide Ambroggio
XII
La miseria della misera Italia numero
dodici
la testa in fiamme la sterpaglia
della festa dei pensieri paglia che
avvampa brucia fra braci di fumo.
Si consumano notizie mescolate al ricordo
di vecchie età
l'armamentario sul carro della vita
in corsa
è spazio di fresca primavera.
Altrove polvere sollevata dall'auto nella
strada di campagna
odora di mele mentre il merlo s'allontana
stride forte a filo dell'erba lungo il mare
siepi siepi siepi di oleandri abbandonati e
pini scavezzati dai venti secolari
camminano a terra.
Può la morte ordire il suo acuminato
massacro
ridurre in cenere il delfino
il vascello in fuoco
la sovrastante nuvola in ciclone e
travolgere la vita?
Il fervore trascinato in gorgo
l'esistente in un attimo è scomparso
giovinezza è il ricordo poi sull'occhio
chiuso
del cielo interminabile di tetti
e alla fine dimenticare la tomba
dei vecchi eroi?
Quante primavere gli uomini fuggitivi
abbandonano alle giovani ali che
arrivano portate dal garbino?
Si può considerare l'opportunità
di non rassegnarsi
bruciare il carro del vincitore
anche le nostre bandiere.
Per favore.
la foto è di Davide Ambroggio
Considerazioni libere (53): a proposito di pane...
Nella mia famiglia (come credo in molte altre) c'è sempre stata (e c'è ancora) una regola precisa: il pane non si butta via. Mio padre e mia madre sono nati rispettivamente nel '30 e nel '41, sono cresciuti in campagna, hanno conosciuto le privazioni degli anni della guerra e dell'immediato dopoguerra: per loro è normale che sia così e con altrettanta naturalezza lo hanno insegnato a me. Anche adesso, in cui non è più la miseria a definire cosa si può o non si può mangiare, ma piuttosto le diete e i problemi di salute, sul pane hanno un'attenzione che non hanno verso nessun altro cibo: si acquista solo quello che verrà mangiato e se per qualche motivo non viene consumato, verrà mangiato il giorno dopo. E' qualcosa di assolutamente naturale, un antropologo certo lo spiegherebbe molto meglio di quanto lo possa fare io.
Scusate la premessa personale, ma mi serve per spiegarvi perché questa mattina il primo articolo che ho letto sui giornali è stata l'inchiesta che Rita Querzé ha fatto per "Il Corriere della sera" sul pane che ogni giorno viene buttato a Milano. La riassumo brevemente, ma la potete leggere anche nella versione on line del quotidiano. La Confcommercio, in collaborazione con la società che gestisce i rifiuti a Milano, ha analizzato il contenuto di un campione di sacchi della spazzatura raccolti in città: ogni giorno nel capoluogo lombardo le famiglie buttano tra i 130 e i 150 quintali di pane. A questo si devono aggiungere i circa 180 quintali buttati via direttamente dai fornai: in questo caso il problema è legato alle tantissime varietà che ogni giorno si trovano negli scaffali delle panetterie. Ogni fornaio deve essere in grado di soddisfare le più varie richieste dei propri clienti, ma naturalmente non può facilmente prevedere cosa sarà venduto e cosa no. Questo dato non comprende la grande distribuzione e quindi è destinato a essere anche più elevato.
Mi rendo conto che è troppo retorico denunciare questo spreco, magari ricordando le tante persone che ogni giorno muoiono di fame, eppure in questa notizia c'è qualcosa che dovrebbe farci riflettere, che riguarda sia i nostri comportamenti individuali sia il sistema di produzione e di consumo delle merci. Proviamo a pensarci.
Scusate la premessa personale, ma mi serve per spiegarvi perché questa mattina il primo articolo che ho letto sui giornali è stata l'inchiesta che Rita Querzé ha fatto per "Il Corriere della sera" sul pane che ogni giorno viene buttato a Milano. La riassumo brevemente, ma la potete leggere anche nella versione on line del quotidiano. La Confcommercio, in collaborazione con la società che gestisce i rifiuti a Milano, ha analizzato il contenuto di un campione di sacchi della spazzatura raccolti in città: ogni giorno nel capoluogo lombardo le famiglie buttano tra i 130 e i 150 quintali di pane. A questo si devono aggiungere i circa 180 quintali buttati via direttamente dai fornai: in questo caso il problema è legato alle tantissime varietà che ogni giorno si trovano negli scaffali delle panetterie. Ogni fornaio deve essere in grado di soddisfare le più varie richieste dei propri clienti, ma naturalmente non può facilmente prevedere cosa sarà venduto e cosa no. Questo dato non comprende la grande distribuzione e quindi è destinato a essere anche più elevato.
Mi rendo conto che è troppo retorico denunciare questo spreco, magari ricordando le tante persone che ogni giorno muoiono di fame, eppure in questa notizia c'è qualcosa che dovrebbe farci riflettere, che riguarda sia i nostri comportamenti individuali sia il sistema di produzione e di consumo delle merci. Proviamo a pensarci.
sabato 2 gennaio 2010
Considerazioni libere (52): a proposito di terrorismo...
Questo 2010 sembra essere cominciato sotto la minaccia del terrorismo: il fallito attentato sul volo Amsterdam-Detroit, la strage purtroppo riuscita contro le persone che assistevano a un incontro giovanile di pallavolo in Pakistan, i rapimenti di cittadini occidentali in Mauritania e in Afghanistan, il tentativo di uccidere il vignettista danese Kurt Westergaard; e, per reazione, l'intensificarsi dei controlli negli aereoporti, il duro discorso di Obama contro le cellule yemenite di al Qaeda, l'aumentare delle tensioni nel Medio oriente, che si intreccia con l'acuirsi degli scontri in un paese chiave come l'Iran.
Di fronte a tutto questo sembra che la prospettiva militare torni a prendere quota, si minaccia un attacco, più o meno diretto, contro le basi dei terroristi islamici nello Yemen: una risposta militare e di intelligence è probabilmente necessaria, ma speriamo non esaurisca la nostra reazione - dico nostra, qui e successivamente, per dire occidentale, statunitense o europea poco cambia. Serve, ora come non mai, la politica e sembrava fino a poco tempo fa che il presidente degli Stati Uniti camminasse nella direzione giusta. Purtroppo pare che questo cammino si sia interrotto o non proceda con la stessa determinazione delle prime settimane della sua presidenza.
Quello che sta avvenendo in questi giorni rende sempre più evidente che il terrorismo islamico è qualcosa di ben più complicato di quello che sembrava dopo gli attentati dell'11 settembre: non si tratta di catturare o di uccidere un "burattinaio" che dal suo rifugio segreto muove le fila di una rete di terroristi; sarebbe troppo semplice e troppo simile ai film tratti dai romanzi di Ian Fleming: una volta "neutralizzato" il capo, scompaiono di colpo i "cattivi" e i problemi. Esiste certamente una rete, ma le sue maglie sono assai rade, i legami verticali quasi inesistenti; capita a volte di leggere una formula che descrive con efficacia cosa è diventato il terrorismo islamico: una sorta di rete di franchising, dove ogni cellula si muove in maniera automa e indipendente. E' qualcosa di assolutamente nuovo e per questo la risposta deve essere nuova.
Fino a quando non cambierà in maniera profonda e radicale la politica dei paesi occidentali questa guerra non cesserà. Fino a quando le multinazionali statunitensi ed europee - ma anche quelle russe e cinesi, che non sono meno rapaci - non smetteranno di sfruttare economicamente le riserve naturali dei paesi del terzo e del quarto mondo ci saranno donne e uomini che saranno disposti a sacrificare la propria vita contro gli "invasori". La guerra in Iraq, come mi è capitato di raccontare in una mia precedente "considerazione" (la nr. 28, per la precisione), si sta concludendo con la sistematica suddivisione dei bacini petroliferi di quel paese da parte delle aziende dei paesi "vincitori" e con lo sfruttamento delle popolazioni "vinte".
Personalmente penso che conti anche la propaganda religiosa, ma non nei termini con cui siamo soliti considerarla qui in occidente. Certo è comodo etichettare il terrorismo come "islamico", ma questo aggettivo da solo non basta a descriverlo. E' un fenomeno che affonda e si alimenta nella povertà di quei paesi, che cresce nell'ignoranza e nella mancanza dei diritti elementari delle donne e degli uomini. E' qualcosa di cui anche noi abbiamo responsabilità, con la nostra arroganza e con la nostra incapacità di capire quelle culture e soprattutto con l'aver favorito ogni genere di regimi dispotici, purché in grado di tutelare i diritti delle "potenze" che li sostenevano. Sembra ormai stucchevole ricordare che Saddam Hussein o i mujaheddin afghani o gli stessi ayatollah iraniani sono stati di volta in volta sostenuti, blanditi, finanziati, più o meno direttamente, dai nostri paesi o dalle aziende dei nostri paesi, e sono stati utilizzati come pedine di un gioco in cui essi non erano i protagonisti; eppure è così e non possiamo continuare a fare finta di dimenticarlo. Eppure pare che ogni volta ricadiamo nello stesso errore, dimenticando quelli precedenti, che sono drammaticamente uguali.
Di fronte a tutto questo sembra che la prospettiva militare torni a prendere quota, si minaccia un attacco, più o meno diretto, contro le basi dei terroristi islamici nello Yemen: una risposta militare e di intelligence è probabilmente necessaria, ma speriamo non esaurisca la nostra reazione - dico nostra, qui e successivamente, per dire occidentale, statunitense o europea poco cambia. Serve, ora come non mai, la politica e sembrava fino a poco tempo fa che il presidente degli Stati Uniti camminasse nella direzione giusta. Purtroppo pare che questo cammino si sia interrotto o non proceda con la stessa determinazione delle prime settimane della sua presidenza.
Quello che sta avvenendo in questi giorni rende sempre più evidente che il terrorismo islamico è qualcosa di ben più complicato di quello che sembrava dopo gli attentati dell'11 settembre: non si tratta di catturare o di uccidere un "burattinaio" che dal suo rifugio segreto muove le fila di una rete di terroristi; sarebbe troppo semplice e troppo simile ai film tratti dai romanzi di Ian Fleming: una volta "neutralizzato" il capo, scompaiono di colpo i "cattivi" e i problemi. Esiste certamente una rete, ma le sue maglie sono assai rade, i legami verticali quasi inesistenti; capita a volte di leggere una formula che descrive con efficacia cosa è diventato il terrorismo islamico: una sorta di rete di franchising, dove ogni cellula si muove in maniera automa e indipendente. E' qualcosa di assolutamente nuovo e per questo la risposta deve essere nuova.
Fino a quando non cambierà in maniera profonda e radicale la politica dei paesi occidentali questa guerra non cesserà. Fino a quando le multinazionali statunitensi ed europee - ma anche quelle russe e cinesi, che non sono meno rapaci - non smetteranno di sfruttare economicamente le riserve naturali dei paesi del terzo e del quarto mondo ci saranno donne e uomini che saranno disposti a sacrificare la propria vita contro gli "invasori". La guerra in Iraq, come mi è capitato di raccontare in una mia precedente "considerazione" (la nr. 28, per la precisione), si sta concludendo con la sistematica suddivisione dei bacini petroliferi di quel paese da parte delle aziende dei paesi "vincitori" e con lo sfruttamento delle popolazioni "vinte".
Personalmente penso che conti anche la propaganda religiosa, ma non nei termini con cui siamo soliti considerarla qui in occidente. Certo è comodo etichettare il terrorismo come "islamico", ma questo aggettivo da solo non basta a descriverlo. E' un fenomeno che affonda e si alimenta nella povertà di quei paesi, che cresce nell'ignoranza e nella mancanza dei diritti elementari delle donne e degli uomini. E' qualcosa di cui anche noi abbiamo responsabilità, con la nostra arroganza e con la nostra incapacità di capire quelle culture e soprattutto con l'aver favorito ogni genere di regimi dispotici, purché in grado di tutelare i diritti delle "potenze" che li sostenevano. Sembra ormai stucchevole ricordare che Saddam Hussein o i mujaheddin afghani o gli stessi ayatollah iraniani sono stati di volta in volta sostenuti, blanditi, finanziati, più o meno direttamente, dai nostri paesi o dalle aziende dei nostri paesi, e sono stati utilizzati come pedine di un gioco in cui essi non erano i protagonisti; eppure è così e non possiamo continuare a fare finta di dimenticarlo. Eppure pare che ogni volta ricadiamo nello stesso errore, dimenticando quelli precedenti, che sono drammaticamente uguali.
Iscriviti a:
Post (Atom)