Gli uomini sono tra loro tanto eguali che diseguali. Sono eguali per certi aspetti e diseguali per altri. Volendo fare l'esempio più ovvio: sono eguali di fronte alla morte perché tutti sono mortali, ma sono diseguali di fronte al modo di morire perché ognuno muore in modo diverso da ogni altro. Tutti parlano, ma vi sono migliaia di lingue diverse. Non tutti, ma milioni e milioni hanno un rapporto con un aldilà ignoto, ma ognuno adora o prega a suo modo il proprio Dio o i propri dei.
Si può dar conto di questo dato di fatto inoppugnabile precisando che sono eguali se si considerano come genus e li si confronta a un genus diverso come quello degli altri animali e degli altri essere viventi, da cui li differenzia qualche carattere specifico e particolarmente rilevante, come quello che per lunga tradizione ha consentito di definire l'uomo animal rationale. Sono diseguali tra loro, se li si considera uti singoli, cioè prendendoli uno per uno. Tra gli uomini tanto l'eguaglianza quanto la diseguaglianza sono fattualmente vere, perché le une e le altre sono confermate da prove empiriche irrefutabili. Ma l'apparente contraddittorietà delle due proposizioni "Gli uomini sono eguali" e "Gli uomini sono diseguali" dipende unicamente dal fatto che, nell'osservarli, nel giudicarli e nel trarre conseguenze pratiche, si metta l'accento su ciò che hanno in comune o piuttosto su ciò che li distingue. Ebbene, si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali quanto diseguali, apprezzano maggiormente e ritengono più importante per una buona convivenza ciò che li accomuna; inegualitari, al contrario, coloro che, partendo dallo stesso giudizio di fatto, apprezzano e ritengono più importante, per attuare una buona convivenza, la loro diversità.
Si tratta di un contrasto tra scelte ultime di cui è difficile sapere quale sia l'origine profonda. Ma è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che riesce, a mio parere, meglio di ogni altro criterio a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra. Da un lato vi sono coloro che ritengono che gli uomini siano più eguali che diseguali, dall'altro coloro che ritengono siano più diseguali che uguali.
A questo contrasto di scelte ultime si accompagna anche una diversa valutazione del rapporto tra eguaglianza-diseguaglianza naturale ed eguaglianza-diseguaglianza sociale. L'egualitario parte dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianza che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono sociali e, in quanto tali, eliminabili; l'inegualitario, invece, parte dalla convinzione opposta, che siano naturali e, in quanto tali, ineliminabili.
[...] Ancora una volta non sto dicendo che una maggiore eguaglianza è un bene e una maggiore diseguaglianza sia da preferire sempre e in ogni caso ad altri valori come la libertà, il benessere, la pace. Intendo semplicemente ribadire la mia tesi che l'elemento che meglio caratterizza le dottrine e i movimenti che si sono chiamati "sinistra", e come tali sono stati per lo più riconosciuti, è l'egualitarismo, quando esso sia inteso non come l'utopia di una società in cui tutti sono eguali in tutto, ma come tendenza, da un lato, a esaltare più ciò che rende gli uomini eguali che ciò che i rende diseguali, dall'altro, in sede pratica, a favorire le politiche che mirano a rendere più eguali i diseguali.
Una politica egualitaria è caratterizzata dalla tendenza a rimuovere gli ostacoli (per riprendere l'espressione del già citato articolo 3 della nostra Costituzione) che rendono gli uomini e le donne meno eguali. Una delle più convincenti prove storiche della tesi sin qui sostenuta secondo cui il carattere distintivo della sinistra è l'egualitarismo, si può dedurre dal fatto che uno dei temi principali, se non il principale, della sinistra storica, comune tanto ai comunisti quanto ai socialisti, è stato la rimozione di quello che è apparso, non solo nel secolo scorso ma sin dall'antichità, uno dei maggiori, se non il maggiore, ostacolo all'eguaglianza tra gli uomini, la proprietà individuale, il "terribile diritto". [...] La lotta per l'abolizione della proprietà individuale, per la collettivizzazione, ancorché non integrale, dei mezzi di produzione, è sempre stata, per la sinistra, una lotta per l'eguaglianza, per la rimozione dell'ostacolo principale all'attuazione di una società di eguali. Persino la politica delle nazionalizzazioni, che ha caratterizzato per un lungo tratto di tempo la politica economica dei partiti socialisti, è stata condotta in nome di un ideale egualitario, se pure non nel senso positivo di aumentare l'eguaglianza, ma nel senso negativo di diminuire una fonte di diseguaglianza.
Che la discriminazione tra ricchi e poveri, introdotta e perpetuata dalla persistenza del diritto considerato inalienabile della proprietà individuale, sia considerata la principale causa della diseguaglianza, non esclude il riconoscimento di altre ragioni di discriminazione, come quella tra uomini e donne, tra lavoro manuale e intellettuale, tra popoli superiori e popoli inferiori.
Non ho difficoltà ad ammettere quali e quanti siano stati gli effetti perversi dei modi con cui si è cercato di realizzare l'ideale. Mi è accaduto non molto tempo fa di parlare a questo proposito di "utopia capovolta" in seguito alla constatazione che una grandiosa utopia egualitaria, quella comunista, vagheggiata da secoli, si è capovolta nel suo contrario al primo tentativo storico di attuarla. Nessuna delle città ideali descritte dai filosofi era stata mai proposta come un modello da volgere in pratica. Platone sapeva che la repubblica ideale, di cui aveva parlato coi suoi amici e discepoli, non era destinata a esistere in nessun luogo, ma era vera soltanto, come dice Glaucone a Socrate, "nei nostri discorsi". E, invece, è avvenuto che la prima volta che un'utopia egualitaria è entrata nella storia, passando dal regno dei "discorsi" a quello delle cose, si è rovesciata nel suo contrario.
Ma, aggiungevo, il grande problema della diseguaglianza tra gli uomini e i popoli di questo mondo è rimasto in tutta la sua gravità e insopportabilità. E perché non dire, anche, nella sua minacciosa pericolosità per coloro che si ritengono soddisfatti? Anzi, nella accresciuta coscienza che andiamo ogni giorno di più acquistando delle condizioni del Terzo e del Quarto mondo, di quello che Latouche ha chiamato "il pianeta dei naufraghi", le dimensioni del problema si sono smisuratamente e drammaticamente allargate. Il comunismo storico è fallito. Ma la sfida che esso aveva lanciato è rimasta. Se per consolarci, andiamo dicendo che in questa parte del mondo abbiamo dato vita alla società dei due terzi, non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla maggior parte dei paesi ove la società dei due terzi, o addirittura dei quattro quinti e dei nove decimi, è quell'altra.
è un libro, credo, del 1993 o 1994... hai fatto bene a citarlo. Una delle doti di Bobbio, credo, è sempre stata la chiarezza e la sua linearità nel patrlare delle cose che sapeva.
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