Mentre le notizie provenienti da Haiti scivolano piuttosto velocemente nelle pagine interne dei giornali (nel "Corriere della sera" di oggi si trovano alle pagine 16 e 17), ci si interroga su come sarà possibile organizzare e gestire in maniera efficace gli aiuti internazionali, che dovranno essere molto ingenti, viste la gravità del disastro e l'estrema povertà in cui già versava l'isola prima del sisma. Il governo haitiano, già molto debole, è stato spazzato via e fino a ora gli Stati Uniti pare stiano esercitando di fatto una sorta di protettorato sull'isola caraibica: mentre l'aereoporto è già, anche formalmente, controllato dalle truppe americane, il resto del territorio è in preda all'anarchia, alla mercé di bande armate che già erano operanti o che si sono formate in questi giorni, vista la situazione fuori controllo. E immagino - visto che non ci sono informazioni certe dall'interno e dalle città più piccole - che la situazione sia tanto più difficile, quanto più ci si allontani da Port-au-Prince.
Questa riflessione mi ha spinto a cercare un editoriale che avevo letto su un numero di "Internazionale" dell'anno scorso, dedicato alla difficoltà delle organizzazioni non governative a lavorare in teatri di guerra "non-convenzionali". La giornalista olandese Linda Polman spiega che, specialmente in situazioni di guerra civile, dove le strutture politico-amministrative sono saltate e il potere è di fatto nelle mani di bande ribelli, organizzazioni terroristiche, signori della guerra - attualmente la maggior parte delle situazioni di conflitto nel pianeta sono di questo tipo, piuttosto che guerre "classiche" tra stati sovrani che rispettano, o almeno fingono di farlo, le convenzioni internazionali - le ong sono costrette a scendere a patti con questi soggetti per poter continuare a svolgere il proprio impegno, assolutamente meritevole, verso le popolazioni colpite.
Polman fa alcuni esempi. In Cambogia negli anni ottanta le milizie dei khmer rossi si sono impadronite di una parte rilevante degli aiuti alimentari e sanitari destinati dalle Nazioni Unite alle popolazioni. Negli anni novanta gli aiuti alle popolazioni hutu fuggite in Zaire hanno permesso di armare le bande di quell'etnia, che hanno poi sterminato i tutsi in Ruanda. Attualmente in Somalia alcuni signori della guerra pretendono che l'80% degli aiuti sia destinato prima di tutto alle loro truppe o ai villaggi loro fedeli e si calcola che in Darfur le circa 130 ong presenti versino, più o meno direttamente, milioni di dollari al regime di Khartoum, mentre dall'interno dei campi i ribelli ricevono viveri e aiuti.
Il valore degli aiuti umanitari è di circa sei miliardi di dollari all'anno. Naturalmente per tantissime persone queste risorse sono fondamentali, fanno la differenza tra la vita e la morte, eppure queste risorse finiscono per alimentare quelle stesse guerre, di cui piangiamo le vittime. Paradossalmente gli aiuti rischiano di alimentare le guerre e di far crescere il numero delle vittime. E' una riflessione che le ong non vogliono fare, perché rischierebbe di vanificare la loro azione di raccolta di fondi nei paesi occidentali e che né i singoli governi né l'Onu fino a ora ha avviato in maniera seria.
Polman nell'articolo, di cui vi consiglio la lettura (nr. 822 di "Internazionale" del novembre scorso), non dà una risposta ai tanti interrogativi che nascono da queste riflessioni, ma mi pare importante cominciare a farsi queste domande.
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