In quest'epoca della grande pacificazione, in cui tutti dobbiamo stare allegri, visto "che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale", in cui è abolita, per decreto presidenziale, la contestazione sociale, nessuno ha più colpa di nulla. E' emblematica la vicenda dell'Ilva: quella fabbrica sembra spuntata lì, a Taranto, come un fungo e altrettanto all'improvviso ci siamo accorti che provoca la morte di chi ci lavora e di chi ci vive accanto, che sono poi le stesse persone. Solo un'informazione complice è riuscita a costruire la favola della contrapposizione tra lavoratori e cittadini, come se si trattasse di due corpi estranei, ciascuno portatore di un diritto, quello al lavoro e quello alla salute, contrapposti tra di loro e tra i quali è necessario scegliere. L'ho già ricordato in un'altra "considerazione", ma non mi sembra inutile sottolinearlo ancora una volta: quell'acciaieria è nata lì nel 1961, quasi una generazione fa.
Per venire alla storia più recente, la famiglia Riva ha comprato l'allora Italsider di Taranto, circa vent'anni fa, per pochi miliardi di lire - ossia milioni, in euro - con il ringraziamento del governo e il plauso del paese, visto che ci liberava di un "ferrovecchio". In questi vent'anni i Riva hanno gestito quella fabbrica secondo una logica ottocentesca, tanto da avere due condanne per discriminazione; ne avrebbero meritate di più, se la magistratura avesse avuto più coraggio e non avesse avuto paura di disturbare il manovratore. A quelli che sbraitano adesso contro la magistratura politicizzata, dovremmo ricordare che in Italia ci sono stati davvero i giudici che hanno sempre tenuto la parte delle classi dirigenti, al di là di ogni ragionevole dubbio. Comunque, per tornare al caso di Taranto, il bilancio "sociale" dell'Ilva, anche per questo disprezzo dei Riva per le regole, conta alcune centinaia di operai morti sul lavoro; inoltre le emissioni di polvere e di gas hanno provocato migliaia di malattie e centinaia di morti tra gli abitanti della città, ossia tra i familiari degli stessi lavoratori. Il bilancio finanziario della famiglia ha tutti altri numeri, i profitti si calcolano in miliardi di lire e questa volta anche di euro; molti di questi soldi sono stati dirottati verso compiacenti paradisi fiscali, per poi essere "rimpatriati", esentasse, grazie alla scudo fiscale di Tremonti. La famiglia Riva ha sfruttato al massimo quei lavoratori e quegli impianti, senza fare investimenti, se non quelli strettamente necessari per tenerli in funzione, mettendo in conto di abbandonarli, quando non sarebbero più stati redditizi. Questi "campioni" del capitalismo italiano sono attualmente arrestati o latitanti; eppure con questi personaggi, seppur attraverso dei prestanome - come il prefetto Ferrante, già candidato del centrosinistra a Milano - il governo italiano sta negoziando la soluzione del "caso Ilva". Forse, se vent'anni fa la mafia avesse avviato le trattative con lo stato, minacciando di lasciare senza lavoro migliaia di manovalanza mafiosa, si sarebbe svolto tutto alla luce del sole: il caso dei Riva non è molto diverso. Quindi le responsabilità ci sono e chi è responsabile deve pagare. Accettando queste premesse, la soluzione dei problemi dell'Ilva diventa fin semplice: si nazionalizza l'azienda e si usano i soldi sequestrati alla famiglia Riva per fare il risanamento ambientale e per riconvertire in maniera ecocompatibile la produzione di acciaio, che rimane un elemento indispensabile per l'economia del nostro paese. Naturalmente non sarà questa la soluzione, perché è con tutta evidenza contraria al pensiero ultraliberista che è egemone nelle nostre istituzioni e che guida le scelte politiche delle autorità finanziarie internazionali che hanno commissariato di fatto il governo italiano.
Credo poi sia utile sottolineare un altro punto: il caso Ilva non è un'eccezione, giustificata dal fatto che i Riva sono i delinquenti che sono. Tutte le privatizzazioni italiane degli anni Novanta hanno avuto un andamento sostanzialmente analogo. La parte dell'Italisider ceduta a Lucchini è in via di fallimento. Del manifatturiero dell'Iri, rimane solo Fincantieri, che vive unicamente delle commesse militari e ha
liquidato tutto il settore civile; peraltro dei vertici di questa azienda si parla soprattutto per le indagini giudiziarie a loro carico. Telecom ha svenduto pezzi del proprio patrimonio industriale e di ricerca. Le tre banche di interesse nazionale - Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma - una volta privatizzate, sono state tra le maggiori responsabili della crisi del nostro paese, anche perché hanno investito molto e male, e sono ora le maggiori detentrici di titoli di stato, per cui devono essere "salvate", pena il fallimento del paese. Le privatizzazioni sono un danno tout court? O il problema è che in Italia non le sappiamo fare? Su questo tema si dibatte da tempo, senza venirne a capo, anzi continuando a svendere il patrimonio pubblico, in sordina, senza fare troppo clamore, nello stesso modo in cui lo si è fatto negli anni Novanta.
Siccome l'appetito vien mangiando e il "finanzcapitalismo" - come la pianta carnivora della Piccola bottega degli orrori - ha sempre bisogno di nuovo "sangue", il nuovo oggetto del desiderio sono diventate le aziende che gestiscono i servizi pubblici locali. Il meccanismo messo in piedi da questi "predoni" è piuttosto semplice. I "loro" governi hanno imposto l'adozione del patto di stabilità interno, che di fatto ha tolto ogni potere alle amministrazioni locali; i Comuni non hanno più accesso al credito, anche perché la Cassa depositi e prestiti - creata proprio per finanziare a tassi agevolati gli
investimenti degli enti locali - è stata anch'essa privatizzata. L'unico modo per i sindaci di riuscire a gestire un po' di risorse - visto che anche l'Imu è stata loro tolta - è quello di svendere le partecipazioni dei loro Comuni nelle ex-municipalizzate, trasformate da tempo in società per azioni. Curioso è il "nuovo" ruolo della Cassa depositi e prestiti, che ora finanzia di fatto la privatizzazione di queste aziende, concedendo prestiti per favorire la loro
concentrazione e l'ingresso in Borsa. Questo passaggio sottrae definitivamente il
controllo di queste aziende alle amministrazioni locali; infatti per renderle redditizie e quindi appetibili nel mercato azionario, bisogna alzare le tariffe a carico degli utenti. Quindi noi paghiamo di più e chi compra ci guadagna di più, in un sistema di redistribuzione della ricchezza dai più poveri ai più ricchi. In sostanza questi fanno i liberisti con il culo degli altri; il nostro.
Come sta succedendo in Grecia, il governo delle "larghe intese" è stato messo lì essenzialmente con questo compito, svendere quel che rimane del patrimonio pubblico. In Italia in fondo non sarà neppure troppo difficile, perché quello che c'era prima non è assolutamente da rimpiangere. Per tornare al caso dell'Ilva, da cui sono partito, la gestione statale dell'Italsider era al livello - molto basso - di quella dell'Ilva dei Riva; e per molti cittadini la gestione pubblica delle ex-municipalizzate non è certo sinonimo di efficienza, nonostante se ne comprenda l'utilità e il significato profondo, come è avvenuto nel caso del referendum per l'acqua pubblica, che peraltro viene sempre più disatteso dalle nostre amministrazioni, qualunque sia il loro colore politico. La battaglia per la rinazionalizzazione dell'Ilva deve essere accompagnata dalla richiesta di una legge che preveda il controllo dal basso della gestione di queste società; in questo controllo devono avere parte attiva i lavoratori e i cittadini. Non aspettiamoci che questo controllo lo facciano altri: non ne sono capaci e soprattutto non lo vogliono fare. Ecco, se vogliamo davvero provare a far rinascere la sinistra in Italia, potremmo partire da una proposta così: mi pare sufficientemente rivoluzionaria.
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