Chi ha avuto la pazienza di leggere le mie precedenti "considerazioni" su quello che è accaduto durante le ultime settimane nei paesi della costa meridionale del Mediterraneo - in particolare la nr. 209 - o chi ha letto qualche mio messaggio di stato su Facebook, sa già come la penso: per parafrasare una celebre espressione usata in un altro periodo storico, che ci appare ormai lontanissimo - quasi quanto l'epoca medievale - ma che non è poi così lontano, credo sia giusto "morire per Bengasi".
Ho letto con attenzione chi si è espresso contro la guerra. Prima di tutto ho letto, con partecipazione e con emozione, gli appelli di è contro la guerra "senza se e senza ma", ossia di quelle persone che con tenacia e perseveranza ci spiegano che la guerra è un male in sé e che quindi deve essere bandita dal discorso politico, evitata in qualunque circostanza. Queste parole fanno parte della mia storia, del mio bagaglio etico di uomo di sinistra, colpiscono il mio cuore e la mia anima - per usare espressioni che non mi sono usuali - ma nello stesso tempo non mi sembrano - o meglio non mi sembrano più - sufficienti a spiegare la complessità del mondo. Capisco che uomini come Gino Strada, che hanno visto e vedono ogni giorno gli orrori della guerra, spendano ogni loro energia per chiedere la pace: e per fortuna ci sono tante persone così. Il loro insegnamento deve essere ascoltato, eppure le loro parole non bastano per risolvere i conflitti, che ci sono e che continueranno a esserci.
Personalmente mi sono battuto, nel piccolo delle mie possibilità, contro la guerra in Iraq e provo a spiegare perché non ritengo quella posizione in contraddizione con quella che ho oggi. Ritenevo allora quel conflitto uno strumento inadeguato per risolvere la questione internazionale a cui avrebbe dovuto porre rimedio, almeno secondo Bush jr, Blair e i tanti loro epigoni, anche italiani; e pensavo che avrebbe causato più danni che benefici. E infatti il bilancio di quel conflitto, che peraltro non è ancora finito, è assolutamente fallimentare. L'unico dato positivo è la fine del regime di Saddam Hussein. Dall'altra parte sono tutti segni negativi: in Iraq è cresciuta l'instabilità, anche perché la società di quel paese non era ancora pronta a un regime di tipo diverso, come dimostra anche l'attuale incapacità di formare un governo; il terrorismo ha trovato nuove basi, nuove armi e soprattutto nuove reclute tra le fila degli uomini che avevano un qualche ruolo nel passato regime; sono cresciuti i motivi di contrasto, veri e ideologici - ma soprattutto i secondi - tra mondo occidentale e mondo musulmano. In sostanza la situazione in Medio Oriente è peggiorata dopo la guerra in Iraq. Ho fatto questo discorso per provare a dire che in politica, pur tenendo ben saldi i propri valori, occorra sempre valutare opportunità e conseguenze delle proprie azioni.
Ho poi letto le opinioni di coloro che, da destra, hanno riserve su questa guerra; si tratta di un bel campionario della destra internazionale, dalla cancelliera Merkel a Putin, dagli esponenti del Tea Party alla Lega; in Italia ci sono anche Ferrara e Formigoni, per dire due tra quelli considerati più brillanti nel campo del centrodestra. E ci sono diversi imprenditori. Capisco questi ultimi: erano abituati a fare ottimi affari con il governo libico e quindi hanno scommesso sul fatto che il regime proseguisse il suo cammino, magari con la sostituzione dell'imbarazzante e impresentabile colonnello da parte del più rassicurante figlio. Negli altri, quando non c'è la malafede o l'interesse - non mi stupirei se gli articoli delle gazzette della "destra pacifista", da Il Giornale a Il Foglio, fossero finanziati dall'Eni - prevale un istinto conservatore, per cui tutto quello che è nuovo fa paura: meglio Ben Ali, Mubarak e Gheddafi dei nuovi governanti che con conosciamo. Con in più la paura degli sbarchi di nuovi migranti. Era ingenuo pensare che la soluzione per evitare gli sbarchi fosse continuare a finanziare i regimi del nord Africa: questa soluzione era destinata prima o poi a saltare.
Per tornare alla vicenda libica, tutti vediamo che nel Maghreb sta succedendo qualcosa di inedito: migliaia di giovani hanno deciso di mettere la parola fine a regimi che sono al potere da prima che loro nascessero, hanno deciso di dire basta alla corruzione, si sono resi conto che la loro condizione era insostenibile, tanto più se paragonata con quella dei loro coetanei occidentali, che in qualche modo hanno imparato a conoscere. Francamente non serviva un esperto di questioni internazionali per capire che l'atteggiamento di Gheddafi sarebbe stato ben diverso da quello che hanno tenuto Ben Ali e Mubarak. Questi hanno accettato di arrendersi, trattando per la propria incolumità e per quella dei propri familiari - Mubarak vive ancora con la sua famiiglia in Egitto - e immagino abbiano trattato anche su una consistente buonuscita; il colonnello libico evidentemente non ritiene che questo sia un esito possibile e probabilmente sogna la morte in battaglia, novello Riccardo III. Dall'inizio della rivolta dei giovani di Bengasi era chiaro che in quel paese la rivolta avrebbe avuto successo solo con la morte del dittatore. Mi rendo conto che nessun governo avrebbe mai potuto fare pubblicamente un discorso del genere, ma credo esistano i servizi segreti anche per fare quello che non si può dire in pubblico. Se Gheddafi fosse stato ucciso due o tre settimane fa il regime si sarebbe sgretolato e ora ci sarebbe un governo provvisorio per guidare la transizione.
Anche senza prevedere uno scenario come questo, la comunità internazionale avrebbe dovuto da subito appoggiare la rivolta dei giovani libici, riconoscere il governo di transizione di Bengasi, inviare aiuti alimentari e armi in Cirenaica. La rivolta avrebbe avuto un altro esito e probabilmente oggi non saremmo qui a commentare questo scenario di guerra. I tentannamenti, il prevalere di importanti interessi economici hanno ridato fiato al regime e così siamo al punto in cui siamo. La comunità internazionale doveva fare tutto il possibile per dare gambe alla cosiddetta "primavera araba", ha avuto paura ed è stata sfidata da Gheddafi. Quella sfida doveva essere raccolta, far vincere Gheddafi, come stava avvenendo prima della risoluzione delle Nazioni Unite e dellinizio degli attacchi, avrebbe significato dare un colpo mortale alle possibilità di rivolta non solo in Libia, ma in tutto il mondo arabo. Per questo motivo io sono favorevole al conflitto, perché spero che sia un segnale per tutto il Medio Oriente: ai dittatori ci si può ribellare, c'è una possibilità, lo hanno insegnato i giovani tunisini ed egiziani e lo insegneranno anche i giovani libici, sostenuti e difesi dai paesi occidentali.
C'è un'altra serie di critiche alla guerra, questa volta da sinistra, che non si limitano a dire che la guerra non deve essere fatta, ma che spiegano gli interessi politici ed economici che stanno dietro all'intervento occidentale. Cito per tutti, per la lucidità e la perentorietà delle argomentazioni, Mauro Zani. Non credo di essere ingenuo; mi rendo conto che Sarkozy ha agito con questa tempestività più per fini interni che per reale spirito umanitario; so che dietro Francia e Gran Bretagna ci sono multinazionali desiderose di scalzare Eni dal ruolo privilegiato che da molti anni si è ritagliata in Libia; capisco che si sta giocando, al di qua e al di là dell'Atlantico, una partita ben più complessa che quella dell'assetto dello "scatolone di sabbia" libico. Eppure, nonostante questo, io penso che un Mediterraneo senza Gheddafi, senza Ben Ali, senza Mubarak, domani senza Bouteflika e senza il figlio di Asad in Algeria e in Siria sarà migliore di quello che abbiamo conosciuto.
Naturalmente per migliorare il Mediterraneo non bastano le armi, serve soprattutto la politica, serve decidere da subito come utilizzare le ingentissime risorse che i governi occidentali hanno sequestrato ai dittaori deposti e ai loro familiari: sono soldi che devono essere investiti velocemente per la crescita dell'intera regione, nella consapevolezza che il petrolio rimarrà ancora per qualche anno una risorsa preziosa, ma che è destinato a finire. Con questa investimenti daremo una risposta alle rivolte dei giovani arabi e forse risolveremo anche il problema dell'emigrazione, almeno al renderemo meno drammatica.
Di questo dovremo continuare a parlare.
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