Questi giorni sono indubbiamente segnati da quello che sta succedendo nei paesi della costa meridionale del Mediterraneo e del Medio Oriente: la rivolta in Tunisia che ha costretto alla fuga il dittatore Ben Ali, le grandi manifestazioni che stanno aprendo una breccia sempre più larga nel regime di Mubarak e i cui esiti sono per ora imprevedibili, il diffondersi di moti di protesta nell'intera regione, dall'Algeria allo Yemen, dal Marocco al Libano; per non parlare della crisi delle cancellerie occidentali, che vedono crollare i propri, mal scelti, alleati. Ne ho già parlato nella "considerazione" nr. 198 e credo che ne parlerò ancora, perché queste rivolte segnano un passaggio storico estremamente importante.
Con una qualche enfasi, diversi commentatori hanno descritto queste rivolte come le prime dell'era tecnologica, una sorta di rivoluzioni 2.0. Ho letto, come immagino abbiate fatto voi, molti commenti che hanno descritto il ruolo dei blogger e il diffondersi delle parole d'ordine della rivolta attraverso Twitter e Facebook. Ho l'impressione che concentrarsi troppo su questo aspetto, ci distolga da alcuni altri concetti fondamentali.
Ricordo che poco più di due anni fa in tanti presentavano Obama come il primo presidente degli Stati Uniti eletto grazie alla rete. Certamente Obama, per età e per curiosità intellettuale, è il primo presidente americano che maneggia con disinvoltura questi strumenti e sicuramente chi ha lavorato - e lavora - insieme a lui sa usare bene le potenzialità della rete. Un po' di tempo fa ho scritto una "considerazione" sul tema - la nr. 32, per la precisione - e, come scrissi allora, continuo a venire aggiornato, almeno due o tre volte alla settimana, su quello che sta facendo l'amministrazione statunitense, molto meglio che la triste newsletter dei nostri governi, di destra e di sinistra. Nonostante tutto questo, ricordo però un lungo reportage di Time sulla campagna elettorale di Obama, in cui venivano descritti gli uffici dei volontari rione per rione, cittadina per cittadina, i volantinaggi per strada, il porta a porta, in sostanza tutti gli strumenti più old che si potesse immaginare. Il fatto di guardare a quegli avvenimenti da lontano e per lo più attraverso la rete, ci aveva fatto scambiare il mezzo per la sostanza e fatto dare un giudizio sbagliato.
Credo che alla fine scopriremo qualcosa del genere anche sugli avvenimenti di queste settimane. Ogni paese ha le proprie caratteristiche e quindi bisogna fare attenzione a non dare giudizi generici. La Tunisia ha un livello di istruzione più alto rispetto a quello dell'Egitto, comunque in questi due paesi il livello di analfabetismo raggiunge rispettivamente il 22 e il 33,6%. In Egitto almeno un terzo della popolazione è esclusa dalla rete perché non sa leggere e scrivere. Secondo i dati di giugno del 2010, in Egitto su una popolazione complessiva di 77 milioni di persone, ci sono 182.017 host, ossia di terminali collegato a una rete o più in particolare a internet: sono 2,4 per ogni 1.000 abitanti. Per altro l'Egitto è uno dei paesi africani - escluso il Sudafrica che fa storia a sé - in cui la rete è più diffusa. In paesi così poveri i livelli di accesso a internet e di utilizzo di social network è decisamente inferiore rispetto alle medie occidentali.
Questo non significa che questi strumenti non abbiano avuto un ruolo, ma diverso da quello che forse abbiamo immaginato. I social network e i blog sono stati utili per aggirare la censura e per tenerci informati, in tempo reale, su quello che accadeva in quei paesi e per questo c'è stato, in particolare in Egitto, il tentativo, in parte riuscito, di bloccare l'informazione attraverso questi canali, così come ci sono state le minacce verso i giornalisti occidentali e il tentativo di oscurare Al Jazeera. Ma la voce della rivolta non è passata, o è passata solo in minima parte, sulla rete, la rivolta si è diffusa tra le persone, con il dialogo, il confronto, il passaparola.
Io credo che, anche per colpa di come abbiamo letto questo aspetto "digitale" della rivolta, ci sia sfuggito un un punto fondamentale. Le rivolte in Algeria, in Tunisia, in Egitto sono scoppiate per la disperazione di milioni di persone che non sanno cosa mangiare. Naturalmente c'è anche un alto livello di consapevolezza politica - che pare stia crescendo, per fortuna - c'è il forte collante delle fede, ma è stata l'impossibilità di costruirsi un futuro a spingere tanti giovani alla ribellione. Facciamo sempre più fatica a leggere il mondo attraverso la categoria della povertà, della fame: solo perché qui, nel mondo occidentale, abbiamo sconfitto - apparentemente, come dovremmo sapere, se leggessimo con maggior attenzione quello che succede nelle nostre società - questo problema, non vuol dire che nel mondo questo problema non investa masse enormi. La crisi globale in Europa ha significato per molte persone la perdita del lavoro, per altri la perdita della casa, per moltissimi l'impossibilità di mantenere lo stesso tenore di vita, in paesi come l'Egitto ha significato - e significa - morire di fame. Sarà che il Novecento è finito e quindi la povertà non c'è più e c'è la rete che ha spinto troppi commentatori a leggere queste rivolte con una lente distorta. In Egitto il Novecento non è ancora cominciato.
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