Virus, sost. m.
Ci sono parole "giovani". Nonostante il suo aspetto, nonostante quel lignaggio antico che le deriva dal latino, virus è una di queste. Ha circa centoquaranta anni, più o meno l'età che avrebbe il mio bisnonno, Cesare Billi. Peraltro quel mio avo, che faceva il mezzadro nel contado bolognese e non sapeva né leggere né scrivere, non aveva idea di cosa fosse un virus, semplicemente vedeva i cristiani e le bestie ammalarsi, e spesso morire. Se qualcuno gli avesse detto che la causa di quelle morti era un virus, non avrebbe capito - quella parola gli sarebbe suonata strana, simile a quelle che sentiva la domenica a messa - e probabilmente avrebbe pensato che le persone come lui morivano perché erano povere, perché lavoravano fino a sfiancarsi, e mangiavano poco e male. Avrebbe pensato che le persone morivano perché andavano in guerra. Poi certo capitava che qualcuno all'improvviso si ammalasse, cominciasse a bruciare per la febbre, ad avere strane bolle sul corpo, e magari morisse. E non c'era nulla da fare, se non pregare - per chi ci credeva - e sperare. Poteva succedere lo stesso alle donne, tutte le volte che dovevano far nascere una nuova vita. O quando qualcuno di loro si faceva male usando un attrezzo nei campi o semplicemente cadendo: era terribilmente difficile la vita allora, quando non avevano ancora "inventato" i virus. Morivano perché non potevano curarsi, perché non c'erano i dottori, o c'erano solo per i ricchi.
Se io sono qui a raccontare queste storie sulle parole è anche perché mio nonno Carmelo, all'inizio del secolo scorso ha resistito alla spagnola, e soprattutto alla prima guerra mondiale. E credo che anche lui pensasse che fosse più facile morire per colpa degli altri uomini che di questi invisibili virus. E anche mio padre Luigi, che nel 1945 aveva quindici anni, credo pensasse che ne uccidessero più la guerra e la povertà che i virus.
E io, che sono il primo di questa serie di Billi che ha studiato, cosa dovrei pensare? È improbabile ormai che io possa morire a causa della miseria o della guerra. Grazie ai sacrifici dei Billi che sono venuti prima di me, questo lo posso escludere con una certa sicurezza. Forse posso morire per un virus, anche perché ho i soldi per fare un viaggio in Cina e contrarre laggiù quella pericolosa malattia. Certo ho anche i soldi per curarmi e ho la fortuna di vivere in quella piccola parte del mondo in cui i servizi sanitari funzionano bene: se prendo un virus - anche quello che uccide tante persone - posso sperare, con una buona dose di probabilità, di salvarmi.
Visto che non mi ammazzeranno né la guerra né la miseria e posso sopravvivere perfino ai virus, potrei anche pensare di essere immortale. Credo che qualcuno di noi lo pensi, o almeno fa di tutto per non invecchiare o per non sembrare vecchio. No, io certamente morirò, e probabilmente anche a causa di questa ricchezza, ad esempio perché mangio troppa carne - infinitamente di più di quanta ne abbiano mai mangiata le tre generazioni di Billi che mi hanno preceduto - o per le radiazioni di questo telefono che porto sempre attaccato al mio corpo e da cui non riesco a separarmi, perché devo sempre essere collegato con il mondo, devo sempre sapere cosa succede in Cina. O magari morirò a causa dello stress, il logorio della vita moderna, come diceva una vecchia réclame.
In fondo importa poco di cosa morirò io - verosimilmente può interessare me, ma è irrilevante per voi - ma credo, anche in questi giorni in cui parliamo tanto del virus, che il mio bisnonno avesse proprio ragione. Ancora oggi dobbiamo avere paura degli uomini più che dei virus, perché in gran parte del mondo gli uomini muoiono perché lavorano fino a sfiancarsi, e mangiano poco e male. Perché per le donne far nascere una nuova vita è ancora un rischio. Perché la guerra, la miseria, lo sfruttamento sono le cause per cui ogni giorno muoiono donne e uomini nel mondo. E non c'è virus che possa debellarle.
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