Nel 1914, almeno secondo il mio libro di testo delle scuole medie, l'omicidio dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo fu la miccia che fece scoppiare la prima guerra mondiale. Non fu così: francamente alla corte di Vienna non importava molto di quel principe che si era fissato di sposare la donna che aveva scelto lui e non quella che era stata scelta per lui e che quindi non poteva garantire la discendenza della dinastia asburgica. Vi consiglio di leggere Gli ultimi giorni dell'umanità di Karl Kraus, un'opera teatrale praticamente non rappresentabile - tentò l'impresa molti anni fa Ronconi a Torino - per la sua epica lunghezza: viene descritto come la società austriaca fosse ormai pronta per la guerra e che l'episodio di Sarajevo fu il pretesto da tempo atteso. L'opera di Kraus è interessante perché ci fa vedere, con la vivacità della testimonianza diretta, che la guerra era un avvenimento atteso, auspicato, quasi agognato, non solo - e comprensibilmente - dalle élite politiche, militari ed economiche del paese, ossia da coloro che avevano solo da guadagnarci, ma da larghissimi strati della popolazione, ossia quelli che la guerra l'avrebbero fatta davvero e che invece avevano tutto da perderci. E lo stesso avvenne in tutti gli altri paesi europei; come hanno sottolineato gli storici più attenti di quel periodo - a partire da Benedetto Croce - la guerra finì per essere inevitabile perché l'idea della guerra si era ormai diffusa, quasi in maniera endemica, tra i popoli europei. In Italia ad esempio l'adesione all'idea intervista fu animata da un fermento culturale e artistico che ha lasciato un'eredità importante e da un forte idealismo: la bandiera del ritorno all'Italia di Trento e Trieste non fu soltanto un felice espediente retorico, di stampo patriottardo, sfruttato dalle classe dirigenti, ma fu un sentimento diffuso e sinceramente sentito da tanti italiani.
Scusate se l'ho presa un po' alla lontana, ma ciclicamente negli ultimi anni, almeno a partire dal 2001, un clima favorevole alla guerra, simile a quello vissuto dall'Europa all'inizio del secolo scorso, si è affermato anche nel nostro mondo. Dopo l'attentato alle Torri gemelle fu facile per le classi dirigenti degli Stati Uniti portare quel paese - in cui storicamente tende a prevalere, nel profondo, uno spirito isolazionista - verso la catastrofe dell'Afghanistan prima e dell'Iraq dopo. Sinceramente temo che qualcosa di simile stia succedendo anche adesso. Quello che è successo in questi ultimi giorni tra l'Egitto e la Libia, che è successo in questo venerdì in praticamente tutti i paesi dell'Africa settentrionale e del Medio oriente e quello che succederà - temo - nei prossimi giorni non è il frutto di una ribellione spontanea, ma il risultato di una pianificazione molto astuta. I giorni non sono scelti a caso: è l'anniversario dell'11 settembre, c'è la visita di Benedetto XVI in Libano, tra pochi giorni sarà il trentesimo anniversario del massacro di Sabra e Chatila, tra poche settimane si voterà per il presidente degli Stati Uniti e la storia di Carter è ben nota, non solo ai media occidentali: evidentemente ce n'è abbastanza per dar fuoco alle polveri. Non so se chi ha pianificato tutto questo ha pensato anche di uccidere l'ambasciatore Stevens, forse no, perché non credo sia facile immaginare che un diplomatico così importante sia praticamente indifeso il giorno dopo l'11 settembre: temo sia stato, dal loro punto di vista, un incredibile colpo di fortuna.
Le anime peggiori dell'integralismo sono in movimento, alcune probabilmente - di parte islamista - sapevano che qualcosa sarebbe successo ed erano pronte, molte altre - occidentali e islamiche - erano semplicemente in sonno e l'attentato di Bengasi è stata la scintilla che le ha messe in moto. Era prevedibile la reazione di Romney, che spera di incassare i dividendi dell'operazione pianificata dall'altra parte del mondo - come successe a Reagan nell'autunno del '74 - così come era prevedibile la reazione della destra conservatrice di tutto il mondo, che ha fatto della paura dei musulmani uno dei propri punti di forza e uno dei più efficaci spunti ideologici. Per l'Italia basta dare un 'occhiata ai giornali "lepenisti" o ai titoli degli editoriali di Magdi Allam. Francamente non mi aspettavo nulla di meno da tutti costoro.
Poi ci sono persone insospettabili schierate a favore della guerra: nella mia bacheca di Facebook mi è capitato di leggere il commento di una persona - che si definisce atea e socialista - in cui sostiene la superiorità della nostra Civiltà (naturalmente la maiuscola è sua), rispetto alla loro; quando ho provato a spiegargli che quell'idea, oltre a essere sbagliata, è pericolosa, è arrivato a citare come prove della sua teoria Aristofane e Plauto, capaci di ironizzare e di prendersi gioco di qualunque cosa, mentre nell'islam non ci sarebbe questa capacità ironica e umoristica. Al di là di queste idiozie, che pure vengono da una persona con cui condividevo molte idee - e che quindi mi preoccupano perché sono il segno che l'idea della distinzione tra "noi" e "loro" ha fatto grandi passi in avanti - la cosa che mi ha lasciato più perplesso e che mi ha fatto molto temere è la timidezza con cui noi abbiamo difeso le ragioni del dialogo. Prendo sempre come riferimento il gruppo dei miei "amici" su Facebook, che naturalmente - a parte alcuni casi sporadici - è fatto per lo più da persone che la pensano in maniera simile a me. L'11 settembre in tanti - e anch'io l'ho fatto - hanno ricordato il colpo di stato in Cile e l'uccisione di Salvador Allende, alcuni hanno perfino ricordato solo quello e non l'"altro" 11 settembre; in questi giorni questo pubblico, che pure non ha problemi a schierarsi su fatti accaduti quasi quarant'anni fa, è stato in gran parte zitto sui fatti successi a Bengasi e su quello che sta succedendo in Medio oriente. Non pretendo che la mia bacheca sia lo specchio sociologico di una parte del popolo della sinistra, ma questo fatto mi è sembrato comunque significativo. La stessa timidezza ho colto in molti esponenti politici e in tanti intellettuali, i cui discorsi di questi giorni sono generici e di maniera. Per non parlare del dibattito a sinistra tutto imperniato sul fondamentale tema delle primarie.
Al di là degli estremisti schierati lancia in resta, mi fa paura questa timidezza e mi fa paura il prevalere della realpolitik, che ho sentito emergere in troppi commenti. Qualcuno dice che in fondo quando c'erano Mubarak, Ben Alì, perfino Gheddafi, nessun ambasciatore occidentale è mai stato ucciso e il primo corollario di questa tesi è che, a questo punto, è meglio evitare inutili rischi in Siria e tenersi l'"usato sicuro" Assad. Io su questo punto non riesco proprio a convincermi, in Egitto, in Tunisia, in Libia, in Yemen prima della "primavera araba" c'erano delle dittature e io continuo a pensare, parafrasando un generale statunitense, che "l'unico dittatore buono è il dittatore morto" o almeno imprigionato, per non turbare troppo i maniaci del politically correct. Personalmente ho sempre considerato una pericolosa illusione l'idea che la fine di quei regimi avrebbe significato il sorgere di società democratiche perfettamente funzionanti: non è avvenuto neppure in Europa, quando sono nate le democrazie parlamentari. Alla guerra si può arrivare per il prevalere dell'estremismo fanatico - da noi e da loro, non ci sono troppe differenze - ma anche per un eccessivo realismo. Io temo che qualcuno pensi che dalla crisi si potrebbe uscire definitivamente soltanto con una guerra; è già successo, negli Stati Uniti, al di là dell'indubbio valore politico e sociale che ebbe il new deal per ricostruire un paese logorato dalla crisi del '29, fu la seconda guerra mondiale a far uscire quel paese dal periodo più tragico della loro storia. Adesso non sarebbe così, ma temo che qualcuno pensi che l'esperimento potrebbe essere tentato.
Tanto più la situazione è difficile quanto più abbiamo bisogno di parlare ai timidi e ai realisti - con i fanatici è inutile parlare, non sono abituati ad ascoltare. Non diamo per persa la carica rivoluzionaria che c'è stata e c'è ancora in quel fenomeno complesso che ci siamo abituati a chiamare "primavera araba". Io pensavo allora - e lo penso tanto più ora - che noi non abbiamo capito del tutto cosa c'era dietro quel movimento: non c'era un "terzo stato", una classe media che non si accontenta più delle proprie ricchezze e aspira ad assumere un ruolo nella vita politica del proprio paese; la "primavera araba" non è la rivoluzione francese. La "primavera araba" è la rivolta di una plebe, di un sottoproletariato - trovate voi il termine che più si addice alle vostre categorie politiche - di persone povere che non ce la fanno più e che trovano insopportabili le differenze di ricchezza tra loro e i pochissimi ricchi dei loro paesi e i tanti "ricchi" - a loro appariamo così anche noi che non ci riteniamo tali - che vedono nell'occidente. Le folle arabe che hanno riempito le piazze delle loro città chiedevano prima di tutto pane e poi anche democrazia, anche perché avevano visto che le dittature avevano peggiorato le loro condizioni economiche, in balia di una classe sempre più ristretta di privilegiati. Noi siamo intervenuti per assicurare loro la democrazia - e abbiamo fatto bene, lo ripeto - ma non abbiamo fatto nulla per assicurare a quelle masse di giovani la possibilità di un futuro diverso.
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