Immagino avrete letto qualche articolo sulla vicenda delle due gemelli siamesi nate poco più di due mesi fa all'ospedale Sant'Orsola di Bologna. Fortunatamente per le due bambine, e soprattutto per quella famiglia, la loro vicenda non è diventata un caso mediatico e le notizie che le riguardano sono in genere di taglio basso e rimangono nelle pagine interne dei quotidiani. Speriamo continui così anche quando - tra poco tempo ormai - la vicenda avrà un esito tanto drammatico quanto prevedibile, con la morte di una delle due, la più debole, e la sopravvivenza della sola che potrà continuare a usare il loro unico cuore. Pochissimi giorni fa, al compimento dei due mesi, l'ospedale ha diramato un comunicato per dire che le bambine stanno crescendo, sono arrivate a un chilo di peso; "è evidente l'accrescimento corporeo - si legge nel bollettino medico - e, pur con le limitazioni legate alla congiunzione toracica e addominale, si muovono spontaneamente e mostrano qualche attenzione per l'ambiente circostante". Pur nel rispetto dei sentimenti di quella famiglia e anche del lavoro dei medici, credo sia necessario fare qualche riflessione su una vicenda che, pur avendo caratteri di eccezionalità, presenta degli elementi su cui sempre più dovremo confrontarci nel prossimo futuro.
Credo sia onesto partire da un dato di fatto difficilmente controvertibile: le due bambine sono nate vive e sopravvivono, pur in una situazione così difficile e clinicamente critica, solo perché hanno avuto l'opportunità - direi la fortuna, se tale termine non suonasse offensivo - di nascere ora in un paese che dispone di tecnologie e di conoscenze mediche estremamente avanzate. Se questa gravidanza fosse avvenuta in gran parte degli altri paesi del mondo - e temo anche in qualche altra regione del nostro paese - o se fosse avvenuta nello stesso luogo soltanto dieci anni fa, le due bambine non sarebbero mai sopravvissute e anzi un tale parto avrebbe rischiato di mettere a repentaglio anche la vita della loro madre. In qualche modo il comunicato del Sant'Orsola esplicita questo fatto in maniera lampante, pur nella prosa asettica di un bollettino medico: le due neonate "mantengono necessariamente il drenaggio addominale, la ventilazione meccanica, il supporto farmacologico della funzione cardiocircolatoria e nutrizionale artificiale attraverso accessi venosi centrali"; al di là di tutto questo, si conclude che "non si sono presentate ulteriori complessità da trattare". Le bambine stanno bene.
La natura avrebbe già preso una propria decisione, drammatica e crudele quanto la natura sa essere, ma gli uomini hanno adesso la forza per avere il sopravvento sulle leggi della natura. Il dibattito si è spostato su un altro piano: è tutto degli uomini. Non si può invocare la natura, dicendo che farà il suo corso e che sceglierà quale delle due bambine potrà sopravvivere, non possiamo più chiamare in causa la natura, quando gli uomini hanno deliberatamente deciso di forzarne gli esiti. E' altrettanto evidente che gli uomini che hanno deciso di prendersi questo enorme potere, questa responsabilità così terribile, non sanno come usarlo o almeno non sanno come affrontare le conseguenze delle proprie decisioni.
Il Comitato di Bioetica dell'università di Bologna ha espresso il proprio autorevole parere, spiegando che ci sono due opzioni: "la prima è quella in cui le due neonate non versino in condizioni di imminente e grave pericolo di vita: in questo caso, il Comitato ritiene eticamente corretto che i medici non intervengano per procedere ad una separazione, che provocherebbe la morte di una delle due gemelle"; la seconda, nel caso in cui ci sia "imminente e grave pericolo di vita", prevede che i medici possano salvare la bambina più forte, sacrificando la più debole. Anche le gerarchie cattoliche, attraverso l'arcivescovo Fisichella, si sono espresse a favore di questa soluzione; ha detto l'eminente esponente cattolico che "davanti alla reale possibilità della morte per le due neonate, ogni sforzo per salvarne almeno una è da noi considerato come un atto di amore a favore della vita e, come tale, è lecito". Francamente mi sembra una posizione debole e un po' pilatesca. Le due bambine non stanno vivendo da sole, sono letteralmente tenute in vita dai medici che, per usare ancora una volta le loro parole, mantengono "il drenaggio addominale, la ventilazione meccanica, il supporto farmacologico della funzione cardiocircolatoria e nutrizionale artificiale attraverso accessi venosi centrali". Senza questo intervento terapeutico, che potremmo anche definire accanimento, le due bambine sarebbero morte da due mesi e questo dibattito non avrebbe senso.
E cosa succederebbe se quel momento fatidico, il momento in cui i medici registrano un "imminente e grave pericolo di vita" non arrivasse mai o arrivasse dopo che nelle due bambine si sia sviluppata coscienza e consapevolezza della propria situazione? Sicuramente, se la separazione avvenisse oggi, la bambina superstite, la sopravvissuta, non ricorderebbe le poche settimane in cui una parte del suo corpo è stato condiviso con un'altra persona, un'altra lei; ma cosa succederebbe se la separazione avvenisse tra un anno, quale trauma sarebbe per la bambina più forte il ricordo, per quanto tenue, di quella sua sorella più debole, di quella creatura che non ce l'ha fatta? Noi non sappiamo cosa c'è nella testa di quelle due bambine, i medici dicono che stanno mostrando "qualche attenzione per l'ambiente circostante", ma per ciascuna di loro due l'ambiente circostante è prima di tutto quell'altra, quella strana bambina che esce dal proprio petto. Forse per le due bambine nate a Bologna la crisi arriverà presto e costringerà i medici a intervenire, ma cosa succederà tra dieci anni, quando i progressi della medicina avranno fatto ulteriori passi in avanti? Forse l'ipotesi che quella strana creatura a due teste possa sopravvivere, possa raggiungere l'età dello sviluppo, possa arrivare ad avere consapevolezza di sé non è così peregrina. E allora cosa succederà? Cosa succederà quando avremo tanta forza per impedire la morte, ma non abbastanza per garantire un normale livello di vita?
Come ho detto all'inizio, ho rispetto per i genitori delle due bambine, penso che il loro travaglio in queste settimane e nelle settimane che hanno immediatamente preceduto il parto, dopo che è stata diagnosticata la malattia delle due bambine, sia al di là di ogni comprensione. Con grande franchezza però devo dire che la loro scelta di mettere comunque al mondo le due bambine sia stato un atto di egoismo. Le loro legittime convinzioni etiche e religiose hanno avuto la meglio sulla pietà verso le loro figlie. Queste due persone hanno già dei figli: immagino che anche su questi bambini - di cui non conosco l'età - per quanto sia sviluppata la consapevolezza di quello che sta succedendo, questa vicenda lascerà dei segni, se non altro per il fatto che in queste settimane tutte le energie, fisiche e psicologiche, dei loro genitori sono rivolte a quell'incubatrice dell'ospedale di Bologna. La scelta di non abortire mi pare una sopraffazione anche verso di loro, un modo per salvarsi l'anima, per poter continuare a proclamare i propri principi, senza pensare a nessun'altra conseguenza. Capisco bene quanto possa essere doloroso, specialmente per una madre, decidere di abortire, ma che dolore subirà adesso quella donna, quando una bambina che lei ha visto e accarezzato, una bambina che forse ha imparato a riconoscerla come la propria madre morirà?
Come vedete è una vicenda che ci pone molte domande, a cui è difficile, quasi impossibile trovare una risposta univoca, eppure non possiamo più far finta di niente. E' qualcosa che ci coinvolge, che ci coinvolgerà. E' la nostra storia di donne e di uomini.
Mio parere. La scienza farà sempre i suoi passi avanti e il cuore, sempre più lontano, sarà costretto a stargli dietro. Quando ci prendiamo la responsabilità della vita, che di principio è della natura, ci dobbiamo arrendere al fatto che la natura stessa se la possa riprendere con meno indulgenza. Grazie per la riflessione.
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