E si presenta ancora innanzi a me il fantasma
d'Odisseo, gli occhi rossi dal salmastro e da una brama
matura: rivedere ancora il fumo
che affiora dal calore della casa e il suo cane invecchiato
che aspetta sulla porta.
Sta, gigantesco, e mormora di tra la barba imbianchita parole della nostra lingua,
quale già la parlavano tremila anni fa.
Stende una mano incallita dalle gomene e dalla barra,
con la pelle segnata dal tramontano dall'afa e dalle nevi.
Sembra che voglia scacciare di mezzo a noi il Ciclope
titanico, monocolo, le Sirene che danno, se le ascolti,
l'oblio, Scilla e Cariddi:
tanti intricati mostri, che ci tolgono l'agio di pensare
ch'era un uomo anche lui che lottò
dentro il mondo, con l'anima e col corpo.
E il grande Odisseo: colui che disse di fare il cavallo
di legno - e gli Achei presero Troia.
M'immagino che venga a insegnarmi come fare un cavallo
di legno anch'io, per conquistare la mia Troia.
Mi dice l'ardua angoscia di sentire le vele della nave gonfie dalla memoria e l'anima farsi timone.
Ed essere solo, occulto nel buio della notte, a deriva
come festuca all'aia.
L'amaro di vedere naufragati fra gli elementi i cari,
dispersi: ad uno ad uno.
E come stranamente ti fai forte a parlare coi morti,
quando i vivi superstiti non bastano.
Parla... rivedo ancora le sue mani che sapevano, a prova,
se la gòrgone di prora era ben fatta
donarmi il mare senza flutti azzurro
nel cuore dell'inverno.
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