Capisco - non approvo né giustifico, mi limito a cogliere le ragioni - che le cosiddette cancellerie occidentali, ossia i nostri distratti e disastrati governi, tacciano su quello che sta succedendo in Siria. La Siria non è la Libia, che, nonostante i suoi importanti giacimenti petroliferi, rimane alla periferia del mondo, almeno di questo mondo con le sue complicate strategie geopolitiche. Poi c'è un mondo fatto di donne e di uomini, un mondo fatto di poveri e di deboli, ma questo difficilmente è oggetto di studio e di analisi. Il mondo - questo e quello, senza differenza - non può permettersi una guerra in quel paese, che finirebbe per coinvolgere - volenti o nolenti - le tre potenze regionali tra cui si trova sempre più stretta quell'antica nazione: Israele, Iran e Turchia. Nel 2007, tra il silenzio dell'opinione pubblica e la colpevole distrazione dei governi occidentali e delle Nazioni Unite, Israele distrusse un impianto nucleare in territorio siriano, costruito probabilmente grazie all'aiuto iraniano; pensate cosa potrebbe succedere oggi, dal momento che anche il governo degli ayatollah dispone di armi nucleari. Questa "nuova" guerra finirebbe naturalmente per coinvolgere gli Stati Uniti e, questa volta, anche Russia e Cina. La Russia "zarista" di Putin non può permettersi di perdere l'unico alleato nella regione e uno dei suoi maggiori clienti nel commercio delle armi. Russia e Cina poi non possono accettare che succeda in Siria quello che è successo in Libia, quando la loro posizione attendista e sostanzialmente pro-Gheddafi è stata di fatto aggirata dall'intervento franco-inglese, coperto politicamente da Obama. Infine le due più grandi e influenti dittature del mondo non possono certo vedere di buon occhio questi popoli che reclamano libertà e diritti: l'esempio delle varie "primavere" rischia di essere pericoloso anche per l'impenetrabile ed immutabile regime cinese. I nostri piccoli governi europei non hanno certo tempo e voglia per occuparsi della Siria, visto che la crisi economica incombe, mentre Atene letteralmente brucia. La guerra in Siria non ci sarà e francamente credo che sia un bene, viste le condizioni e i rischi sempre incombenti in quella tormentata regione. Questo naturalmente non risolve il problema del popolo siriano.
Quello che non capisco - e che non approvo - è il "nostro" silenzio sulla Siria. I giornali e i media parlano molto poco della Siria, gli intellettuali non ne parlano affatto - Bernard-Henri Lévy ha ingigantito per umana vanità il proprio ruolo come ispiratore della guerra contro Gheddafi, ma certo la sua voce è stata importante e soprattutto non isolata - non ne parlano i politici progressisti - i socialisti francesi e tedeschi perché contano di tornare tra poco tempo al governo dei loro paesi, gli italiani perché non esistono - noi, ossia l'opinione pubblica genericamente intesa, non parliamo della Siria. Eppure in Siria si muore, tutti i giorni.
In quel paese si compiono da quasi un anno delitti contro l'umanità. A essere precisi la dittatura della famiglia Asad è cominciata nel 1970 e già nel 1982 Asad padre ha ordinato il massacro di Hama: un terzo della città fu rasa al suolo e furono uccise circa 40mila persone, considerate oppositori del regime. Diciamo pure che questa è storia, qualcosa di cui è meglio non occuparsi. Partiamo da quando i giovani tunisini hanno costretto alle dimissioni Ben Ali. Asad figlio - a cui i governi occidentali davano credito perché si era laureato in oftalmologia a Londra e aveva sposato una sua connazionale bella e "occidentale" - disse che il "contagio" non sarebbe mai arrivato fino in Siria. E mentre cadevano uno dopo l'altro Mubarak, Gheddafi, Saleh, alcuni ragazzi di Deraa hanno cominciato a scrivere slogan sui muri, poi i loro genitori hanno protestato contro gli arresti dei loro ragazzi, poi le autorità tribali hanno cominciato ad alzare la voce contro gli arresti degli uomini che avevano protestato e così il "contagio" è arrivato fino all'esercito, nelle cui fila ci sono state diserzioni tali da portare alla costituzione del "Libero esercito siriano". Ci sono stati arresti arbitrari, torture, esecuzioni sommarie. In questi giorni in Siria c'è una guerra civile: Homs - l'antica Emesa, patria di Eliogabalo - viene bombardata da giorni dall'esercito regolare. Ci sono combattimenti ad Aleppo, città patrimonio dell'umanità. La Siria, bisogna ricordarlo, è un luogo ricco di storia, Damasco è il più antico insediamento umano che continua a essere abitato. In questi undici mesi ci sono stati migliaia di morti, prevalentemente civili, decine di migliaia di profughi, edifici distrutti: ci sono ragioni per indignarsi, per scendere in piazza, per firmare appelli. Anche con il rischio di essere velleitari. E invece nulla.
Temo che tanti "bravi democratici" progressisti stiano zitti perché hanno visto che in Tunisia, come in Egitto, quando le persone sono andate a votare hanno premiato partiti e movimenti conservatori e moderati di impronta islamica. Questi bravi democratici sono convinti che i tunisini e gli egiziani si siano "sbagliati" e quindi che nessuno di quei popoli - compresi i siriani quindi - meriti la democrazia. Si tratta di un errore molto grave che denota stupidità e razzismo. In democrazia vale sempre la regola che i cittadini non si "sbagliano"; possono essere ingannati, ma questa è un'altra storia. Non possiamo avere la presunzione di dire che una democrazia non è tale solo perché non ci è piaciuto l'esito delle elezioni. E poi si può essere conservatori e democratici, i due termini - e lo dico da uomo di sinistra - non sono necessariamente in contrasto. Alcune settimane fa ad esempio abbiamo dato l'ultimo saluto a Oscar Luigi Scalfaro, che è stato indubbiamente un difensore strenuo delle regole democratiche, ma con altrettanto rigore un conservatore in campo politico e morale. In Egitto come in Tunisia ci sono state delle elezioni, ci sono dei nuovi partiti e c'è un parlamento. Nonostante le delusioni della sinistra laica, sarà difficile tornare indietro, perché il fattore scatenante la rivolta, ossia una nuova generazione con un radicato spirito di contestazione, connessa alla rete, è ancora presente; i movimenti islamici agiscono in uno spazio democratico che non hanno creato, ma hanno ormai accettato.
Chi ha un po' di memoria ricorderà le grandi manifestazioni tra l'autunno del '90 e i primi giorni del '91 contro l'invasione statunitense dell'Iraq. Fu un momento importante per tanti di noi, inutile sul piano pratico perché quella mobilitazione non fermò il conflitto, ma politicamente significativa: l'opinione pubblica fece sentire la propria voce, fece capire che era in disaccordo con la decisione dei governi che vollero e sostennero quella campagna militare. Chi criticava quel movimento, oltre a molta retorica filoamericana, aveva ragione su un punto fondamentale: non eravamo stati altrettanto determinati e numerosi nel criticare il regime di Saddam. Era un argomento che non eravamo in grado di contrastare efficacemente. E' un errore che non possiamo permetterci con la Siria: non dobbiamo in alcun modo essere complici di Asad, e anche il nostro silenzio rischia di rafforzare la convinzione di quel dittatore che la fine del suo regime significherebbe la caduta nel caos dell'intera regione. Qualunque cosa succeda - e ci auguriamo per le siriane e i siriani che avvenga il prima possibile - noi dobbiamo poter dire che abbiamo fatto il possibile, per quanto possa essere poco, per far allontanare Asad dal suo paese. Chi crede nella pace - e pace vuol dire anche impedire che un altro popolo sia schiacciato dal proprio tiranno - deve chiedere che si trovi una soluzione politica che permetta l'esilio di Asad, ossia quello che non si è voluto fare né con Saddam né con Gheddafi. Asad meriterebbe di essere punito per quello che ha fatto e per quello che ha permesso di fare, ma si possono anche accettare compromessi, quando ne va di mezzo la salvezza di un popolo. La politica è anche questo. L'importante è non rinunciare, non cedere al silenzio.
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