sabato 3 dicembre 2022

Verba volant (821): dinastia...

Dinastia
, sost. f.

Anche se suo padre vuole farne un avvocato, per Oscar Hammerstein II il teatro è una carriera inevitabile, un destino che si porta nel nome, che è lo stesso di suo nonno, l’uomo che ha creato Broadway. E nel caso del vecchio Hammerstein non si tratta di un’iperbole retorica.

Ma facciamo un passo indietro. Questa storia comincia a metà dell’Ottocento, in Pomerania, nel Regno di Prussia, al tempo di Federico Guglielmo IV. A Stettino per la precisione, dove Oscar - il primo Oscar di questa nostra storia - nasce l’8 maggio 1846. Il giovane ha la passione per la musica, suona il flauto e il violino, ma suo padre Abraham ne vuole fare un mercante e un uomo d’affari. A diciotto anni i dissidi in famiglia diventano insostenibili e quando Abraham frusta il figlio perché un pomeriggio è andato a pattinare, contravvenendo a un suo divieto, la misura è colma. Oscar vende il violino e fugge da Stettino. Arriva a Liverpool e da qui, salito su un piroscafo, parte per l’America.
Oscar nel 1864 è a New York, senza un soldo. Trova lavoro in una fabbrica di sigari in Pearl Street, nel Lower Manhattan. Adesso questa strada è nel cuore finanziario di Wall Street, ma allora era uno dei quartieri industriali della città. Il ragazzo fa carriera, in pochi anni diventa direttore e poi crea una sua fabbrica. Registra numerosi brevetti che rendono più efficiente la produzione dei sigari e dopo vent’anni è uno dei maggiori produttori degli Stati Uniti. Abraham non lo saprà mai, ma suo figlio è diventato quello che lui aveva sperato: un ricco e rispettato uomo d’affari.
Oscar però non ha mai dimenticato la sua passione per la musica. E così nel 1889 decide di investire i guadagni della sua fabbrica di sigari per costruire un teatro, l’Harlem Opera House, sulla 125esima Strada, e un paio d’anni dopo, su quella stessa via, il Colombus Theatre. Harlem in quegli anni non è ancora il quartiere dei neri, ma è abitato dalla ricca borghesia bianca che non vuole più stare nel centro della città, che sta diventando troppo caotico. I due teatri vanno abbastanza bene, ma Oscar sogna di diventare un grande impresario, vuole portare l’opera a New York. Nel 1893 costruisce il Manhattan Opera House, vuole farne un importante teatro lirico, ma per gestirlo deve associarsi con gli impresari John Koster e Albert Bial, che ne fanno una sala per il vaudeville. Oscar non si arrende e nel 1895 costruisce il suo quarto teatro, l’Olympia: si tratta di un vasto edificio in stile rinascimentale che ospita un teatro, un music hall, una sala da concerti e un giardino pensile per gli spettacoli all’aperto. Per l’Olympia Oscar scrive un’operetta, intitolata Santa Maria, che, anche se incontra il favore del pubblico, è per Hammerstein un disastro finanziario. Non bada a spese: ingaggia una stella come Camille D’Arville - la grande cantante di origini olandesi che ha lavorato a lungo a Londra - impiega un’orchestra di più di cinquanta elementi - mentre di solito ce ne sono la metà - e per il terzo atto fa costruire un “palazzo di ghiaccio” in alluminio, una cosa mai vista fino a quel momento in un teatro.
La grande facciata dell’Olympia Theatre occupa una buona parte di un’ampia piazza triangolare all’incrocio tra la Settima Avenue e Broadway; allora quella piazza si chiama ancora Longacre Square, ma che nel 1904 verrà ribattezzata Times Square. E poco lontano da quella piazza Hammerstein costruisce negli anni successivi altri tre teatri, il Victoria, di cui mantiene la gestione, per gli spettacoli di vaudeville, il Theatre Republic, che invece viene ceduto a David Belasco, il prete diventato drammaturgo, regista, attore, scopritore di talenti - e che è l’autore dei drammi che diventeranno, grazie al genio di Puccini, Madama Butterfly e La fanciulla del West - e infine il Lew Fields Theatre, ceduto appunto al celebre attore e produttore che vuole dare il proprio nome a un teatro. In breve altri impresari decidono di aprire le loro sale in quella zona di Midtown Manhattan, che si riempie, oltre che di teatri, di locali notturni, ristoranti, night club, facendo di Times Square il cuore della Great White Way, perché l’illuminazione pubblica, i cartelloni pubblicitari e le insegne dei teatri – grazie a quella diavoleria moderna dell’elettricità – illuminano a giorno quel breve tratto di strada. E così in pochi anni, grazie all’intuizione del primo Oscar, nasce quella che noi chiamiamo Broadway, una delle metonimie più famose del Novecento.
Il rispettato produttore di sigari, che intanto ha fondato anche un quotidiano, l’United States Tobacco Journal, continua a covare l’idea di costruire un grande teatro dell’opera che possa stare alla pari del Metropolitan, anzi che lo possa superare. Oscar considera il Met troppo elitario, vuole che tutti i cittadini di New York possano andare all’opera, come vanno agli spettacoli di vaudeville. Costruisce così il suo ottavo teatro, al 311 West della 34esima Strada, il secondo Manhattan Opera House. Il debutto avviene il 6 dicembre 1906 con una storica edizione de I puritani di Vincenzo Bellini, con la direzione del parmigiano Cleofonte Campanini - che nel 1903 è il successore di Toscanini alla direzione della Scala - e un cast di grande rilievo, in cui spiccano il tenore Alessandro Bonci e il baritono Mario Ancona. In pochi anni il Manhattan Opera House si afferma come un importante teatro d’opera: ospita le prime americane di Pelleas et Melisande, Elektra, Salome. E il debutto dell’operetta Naughty Marietta di Victor Herbert. Hammerstein vuole i migliori cantanti, ingaggia Mary Garden e Luisa Tetrazzini e “strappa” al Metropolitan Nellie Melba, il celebre soprano australiano, a cui Escoffier ha dedicato uno dei suoi dolci più famosi. Queste ricche e dispendiose produzioni - a cui corrispondono prezzi dei biglietti decisamente popolari - rischiano di far fallire il teatro, ma anche il Met soffre, perché, per sostenere la concorrenza di Hammerstein, è costretto ad aumentare i costi dei propri spettacoli. Nel 1910 Arthur, il figlio a cui il vecchio Oscar ha affidato la gestione di quel teatro - così come ha fatto con William per il Victoria - riesce a salvare il Manhattan Opera House trovando un accordo proprio con il Met. Il Metropolitan versa agli Hammerstein 1,2 milioni di dollari in cambio dell’impegno a non produrre opere liriche per dieci anni.
Ma Oscar vuole continuare a costruire teatri. Nonostante l’insuccesso finanziario del Philadelphia Opera House, che apre nel 1908 e vende due anni dopo, grazie ai soldi del Metropolitan va a Londra e nella capitale inglese costruisce il suo decimo teatro, il London Opera House. E anche qui vuole far concorrenza con uno storico teatro, addirittura il Royal Opera House di Covent Garden. Ma dopo due anni Oscar chiude anche questa impresa, torna a New York e apre il suo undicesimo - e ultimo - teatro, il Lexington Opera House. Ma i soldi per produrre le opere sono finiti e così questa sala diventa subito un cinema. Oscar muore nel 1919. Sta aspettando che finisca il “contratto” con il Met: nel 1920 potrà finalmente produrre una grande opera lirica a Broadway.

William nasce a New York il 26 settembre 1875, è il quartogenito di Oscar e Rosa Blau. Anche il padre di Rosa è tedesco ed è un produttore di sigari. Il giovane Hammerstein, come il padre, ama il teatro e l’opera, ma non condivide l’ostinazione paterna a voler rendere accessibile al maggior numero di persone questo tipo di spettacolo. William conosce meglio di Oscar i gusti del pubblico e decide di assecondarli. Il suo teatro non vuole parlare alla testa e al cuore del pubblico, ma, nel migliore dei casi, alla pancia. E con questo è convinto di poter salvare le spericolate “avventure” teatrali del padre.
Prima, insieme a suo fratello Arthur, lavora come addetto stampa nei teatri del padre e poi costruisce una sua piccola sala, il Little Coney Island, in cui organizza spettacoli di burlesque. Poi ritorna a lavorare con Oscar quando questi apre l’Olympia: gestisce le attività del locale che si trova nel giardino pensile. Sembra che l’attività sia destinata a fallire e allora William decide che bisogna cambiare strada: “Finora ho provato il meglio ed è andata così, vorrà dire che proverò il peggio”. E ingaggia le Cherry Sisters.
Sono tre sorelle, non particolarmente attraenti, dell’Iowa che portano in giro nei locali di vaudeville del Midwest uno spettacolo scritto da loro intitolato Something Good, Something Sad: è un’accozzaglia di canzoni religiose, patriottiche, sentimentali, composte dalle tre sorelle, che viene accolto in genere piuttosto rumorosamente dal pubblico. E anche i giornali scrivono critiche molto pesanti contro di loro, tanto che le sorelle Cherry decidono di denunciare per diffamazione l’editore del Des Moines Leader. Il caso arriva fino alla Corte Suprema dell’Iowa che stabilisce che un giornale “ha il diritto, e il dovere, di pubblicare commenti equi e ragionevoli” su chiunque. La “Cherry vs. Des Moines Leader” è una sentenza che farà storia nella giurisprudenza americana a favore della libertà di stampa, facendo guadagnare, in maniera assolutamente inaspettata, alle tre sorelle un posto nella storia dello spettacolo americano.
William le conosce bene e proprio per questo ingaggia il trio, assicurandosi di installare una rete di protezione tra loro e il pubblico, che fermi gli ortaggi e gli oggetti che gli spettatori più facinorosi gettano contro le sorelle. William ha ragione: quello spettacolo registra ogni sera il tutto esaurito, salvando, almeno per qualche anno, l’Olympia.
E così nel 1904 Oscar affida a suo figlio la gestione del Victoria Theatre, l’unico teatro della zona di Times Square a presentare spettacoli di vaudeville. In pochissimo tempo, grazie anche ai prezzi molto bassi dei biglietti, il Victoria diventa uno dei teatri più frequentati della nascente Broadway e una sicura fonte di reddito per la famiglia Hammerstein, provvidenziale, visti i dispendiosi tentativi di Oscar di diventare il più importante impresario di opere liriche della città.
I conti vanno bene anche perché William produce spettacoli dove accanto a poche celebrità, c’è un gran numero di giovani sconosciuti. La forza degli spettacoli di William è che ogni giorno e ogni sera il pubblico può trovare un po’ di tutto: le gag di un giovanissimo Buster Keaton e la bellezza conturbante di Mae West, le acrobazie con il lazo di Will Rogers e le canzoni di Irving Berlin. E Don il cane parlante, un incrocio tra un setter e un pointer, che può vocalizzare otto parole in tedesco, oltre a dire ja, nein e il proprio nome. Poi ci sono ballerine, molte ballerine, vestite il meno possibile, acrobati, comici, animali ammaestrati, suonatori di ragtime, fenomeni da baraccone: nelle “extravaganze” del Victoria potete trovare davvero ogni genere di curiosità. E il pubblico vuole credere che quella ragazza dalla bellezza esotica sia proprio Shekla, la maga di corte dello Scià di Persia, o quella giovane poco vestita sia Mademoiselle Fatima, una danzatrice scappata da un harem, o qualsiasi altra bugia Hammerstein sia in grado di inventare. Poi William capisce che il pubblico vuole andare a teatro anche per vedere i protagonisti delle più sordide storie di cronaca nera e così ingaggia la bellissima Evelyn Nesbit, “The Girl in the Red Velvet Swing”, la musa ispiratrice del pittore Charles Dana Gibson, il sogno proibito dell’America di inizio Novecento e soprattutto la protagonista, seppur involontaria, di un efferato omicidio: accecato dalla gelosia, il marito, il milionario Harry Kendall White, ha ucciso un antico amante della donna, Stanford White, il grande architetto che ha progettato tanti edifici a New York, l’esponente di punta del cosiddetto Rinascimento americano. Il pubblico per pochi dollari può sentirsi parte di questo mondo dorato.
Qualche anno dopo credo che Irving Berlin si sia ricordato di questi spettacoli del Victoria per scrivere il testo di una delle sue canzoni più famose There’s No Business Like Show Business:
The butcher, the baker, the grocer, the clerk
Are secretly unhappy men because
The butcher, the baker, the grocer, the clerk
Get paid for what they do but no applause.
They’d gladly bid their dreary jobs goodbye
for anything theatrical and why?
Non abbiamo fotografie di William, che non ama la ribalta né la vita mondana. Finito lo spettacolo, torna alla sua bella casa al 315 di Central Park West. Non vuole nemmeno che nelle locandine compaia il suo nome. Non riesce proprio a condividere la smania di protagonismo del suo collega Ziegfeld, che invece vuole che tutti gli spettacoli che produce portino il proprio nome. E soprattutto William non vuole che i suoi figli si dedichino al teatro.

E così Oscar Hammerstein II, nato a New York il 12 luglio 1895, nonostante la sua passione per il teatro, obbedisce al padre e si iscrive alla facoltà di giurisprudenza della Columbia University. Ha ottimi voti e quel ragazzone così alto si distingue anche come prima base della squadra di baseball dell’ateneo. Vorrebbe partecipare al Varsity Show, lo spettacolo che ogni anno è allestito dagli studenti della Columbia, ma non vuole disobbedire al padre. William purtroppo soffre di una grave malattia ai reni e nel 1914, a soli trentotto anni, muore. E allora Oscar si unisce alla Columbia University Players. L’anno successivo è uno degli interpreti di On the Way, ma capisce presto che è molto più bravo a scrivere canzoni che a interpretarle. E così per lo spettacolo del 1916, intitolato The Peace Pirates, comincia a scrivere i testi. Nel 1917 lascia la Columbia. Lo zio Arthur lo presenta a Otto Harbach, uno dei più celebri autori di operette, che diventa il mentore del ragazzo, che finalmente, nel 1920, un anno dopo la morte del nonno, debutta a Broadway. Per Always You scrive il libretto e i testi delle canzoni, mentre Herbert Stothart è l’autore delle musiche. Stothart è un prolifico compositore, attivo sia a Broadway che a Hollywood: è l’autore della colonna sonora di The Wizard of Oz, per cui ottiene un meritato Oscar.
Il giovane autore ha l’ambizione di creare qualcosa di nuovo. Come suo nonno, ama l’opera. E come suo padre, conosce bene i gusti degli americani. Il pubblico ama le canzoni che passano alla radio e che vengono presentate negli spettacoli di Broadway - le canzoni che anche lui ha cominciato a scrivere - e Oscar immagina come sarebbe usare quelle canzoni per raccontare una storia.
E così il 27 dicembre 1927 debutta al Ziegfeld Theatre Show Boat. Oscar ha scritto il libretto, la storia di un gruppo di artisti che lavorano sulla Cottom Blossom, una delle più celebri “show boats” - le caratteristiche imbarcazioni con le grandi ruote - che percorrono il Mississipi, fermandosi di città in città per i loro spettacoli: c’è una travagliata e tragica storia d’amore, sullo sfondo delle tensioni razziali degli Stati del Sud. E ha scritto anche i testi delle canzoni, perché in questo nuovo spettacolo canzoni e dialoghi sono tutt’uno, proprio come succede nell’opera tanto amata dal nonno. L’amico Jerome Kern scrive le musiche ed ecco che è nata una cosa assolutamente nuova, che non è né un’operetta né uno spettacolo di vaudeville, in cui i pezzi musicali sono staccati l’uno dall’altro. È nato il musical. E curiosamente i soldi li mette proprio Ziegfeld, il re delle Follies, del vecchio modo di fare teatro, l’unico che abbia i mezzi per farlo e soprattutto l’unico che capisce che quel giovane alto e massiccio sta per fare una rivoluzione. Infatti dopo Show Boat il teatro musicale cambia. Per sempre.
Show Boat è un successo, Oscar continua a lavorare con Kern e con altri musicisti, poi nel 1943 ritrova un compositore un po’ più giovane di lui, che aveva conosciuto ai tempi della Columbia, Richard Rodgers, che fino a quel momento aveva lavorato con Lorenz Hart - anche lui, da studente, impegnato nei Varsity - e nasce la “ditta” Rodgers e Hammerstein: Oklahoma!, Carousel, Allegro, South Pacific, The King and I, Me and Juliet, Pipe Dream, Cinderella, Flower Drum Song, The Sound of Music. Questi musical, i film tratti da questi spettacoli e i loro due autori collezionano ben trentaquattro Tony, quindici Oscar, un Pulitzer e due Grammy. Rodgers e Hammerstein sono tra gli autori più importanti del teatro musicale americano. E le loro canzoni, parte fondamentale del Great American Songbook, continuano a essere cantate, in ogni parte del mondo: sono classici intramontabili.
Ma l’opera continua a essere un’ossessione per l’ultimo degli Hammerstein. Oklahoma!, il primo grande successo firmato Rodgers e Hammerstein, debutta il 31 marzo 1943, al St. James Theatre. Ma il 2 dicembre di quello stesso anno debutta al Broadway Theatre un altro musical con il libretto e i testi di Hammerstein II. E questa volta è una cosa che a Broadway non si è mai vista. E che non si vedrà mai più. Perché Oscar prende un’opera, la Carmen di Georges Bizet, tiene la musica del grande compositore francese - nato all’epoca della Monarchia di Luglio, qualche anno prima di suo nonno - e riscrive completamente il libretto e i testi delle arie. Chissà cosa ne avrebbe pensato il vecchio Hammerstein?
Oscar convince Billy Rose a produrre Carmen Jones, dopo che tutti gli altri produttori di Broadway gli hanno sbattuto la porta in faccia. Billy - che ha imparato da William che il pubblico non va educato, ma sedotto - produce riviste, vaudeville, vorrebbe essere il nuovo Ziegfeld, anche se ormai quegli spettacoli non vanno più di moda, però capisce che quello è un musical che entrerà nella storia del teatro. Perché Oscar non si è limitato a riscrivere il libretto, attualizzando la tragica storia della sigaraia - anche questo un destino della famiglia Hammerstein - ma vuole che il cast sia composto solo da attori afroamericani. Per gli anni Quaranta negli Stati Uniti si tratta di una scelta che crea inevitabilmente delle polemiche, ma che è una precisa presa di posizione da parte dell’autore.
Nella rilettura di Hammerstein Carmen e le sue compagne lavorano in una fabbrica di paracaduti nella Carolina all’inizio della seconda guerra mondiale. Carmen è bellissima - e libera - e fa innamorare Joe, un giovane aviatore, che perde la testa per lei, tanto da disertare e abbandonare la sua fidanzata Cindy Lou. Ma la relazione tra Carmen e Joe diventa sempre più difficile, perché della donna si innamora anche Husky, un pugile dalla brillante carriera che la vuole sposare e portare a Chicago. La fine è nota: Joe uccide Carmen, perché non sopporta che sia di un altro.
Carmen Jones è un successo: chiude il 10 febbraio 1945 dopo cinquecentotre repliche. Perché quella storia è eterna e la musica di Bizet riesce a raccontare l’amore e la passione in maniera perfetta. In qualsiasi tempo.
Come canta Carmen sulla musica dell’Habanera.
Love’s a baby that grows up wild
And he don’t do what you want him to
Il giovane Oscar dimostra che aveva ragione il vecchio Hammerstein: l’opera vince sempre.

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