Cittadinanza, sost. f.
Da vecchio internazionalista non ho mai dato un grande valore alla cittadinanza, né alla mia - anche perché non mi sento particolarmente orgoglioso di essere italiano - né a quella degli altri: un uomo - e una donna - valgono per quello che sono, per quello che pensano, per quello che fanno, per quello per cui lottano. E tutti gli uomini sono uguali, indipendentemente da dove sono nati. Però, da ufficiale d'anagrafe, so quanto sia importante la cittadinanza, per i diritti e i doveri che comporta; vedo la soddisfazione degli stranieri quando cambiano finalmente la carta d'identità perché sono diventati, dopo molti anni in cui vivono qui e dopo un iter complicato e costoso, cittadini italiani.
Premetto anche che io sono uno di quelli che vorrebbero che in Italia fosse applicato lo ius soli, ossia credo che possa diventare cittadino italiano chiunque nasca su suolo italiano: mi sembra un criterio oggettivo che prescinde dalla cittadinanza dei genitori - non sempre facile da definire - e da altre valutazioni di natura politica e burocratica. Sinceramente trovo ingiusto che adesso possano votare persone che non hanno mai messo piede in Italia, che sono nate e sempre vissute all'estero, solo perché un loro bisnonno era italiano, e che non lo possano fare persone che vivono in Italia, che lavorano in Italia, che pagano le tasse in Italia, ma i cui genitori sono senegalesi o filippini o ucraini.
Scrivo questa definizione perché, grazie al calcio - l'unico vero argomento di cui pare importare qualcosa alla maggioranza di chi vive in questo paese - si torna a parlare del tema. E ci si divide sull'opportunità o meno di convocare gli oriundi; dal momento che siamo tutti decubertiani, gli oriundi vanno bene quando vinciamo e vanno male quando perdiamo.
Non è questo però quello di cui voglio parlare. Legata a questa vicenda, leggo che il governo appoggia in maniera autorevole la proposta di legge di istituire la cosiddetta cittadinanza sportiva, che garantirebbe di diventare italiani ai minori stranieri tesserati nel nostro paese entro i dieci anni. Viste le premesse non sono tendenzialmente contrario a questa proposta, che comunque allarga la possibilità degli stranieri più giovani di diventare cittadini italiani, ma francamente ne temo le conseguenze. L'opportunità di essere tesserati verrà venduta da società sportive senza scrupoli a famiglie che fanno già fatica a sbarcare il lunario e che dovranno fare questo ulteriore sacrificio per garantire questo beneficio ai loro figli. Succederà - con meno rischi e molte meno possibilità di essere scoperti - quello che succede già con il mercato dei matrimoni: il racket della prostituzione usa le nozze con vecchi italiani, che vengono comprati con pochi soldi - visto il gramo livello delle pensioni dell'Inps - per "regolarizzare" ragazze che arrivano in Italia da ogni paese del mondo.
Al di là del giro di soldi "sporchi" e del malaffare che si muoverà intorno a questa proposta - che servirà naturalmente ad arricchire la criminalità organizzata, che si conferma main sponsor di questo governo - è curioso che lo sport sia l'unico motivo che spinge la nostra malmessa classe politica e la cosiddetta società civile che la vota e la sostiene - ossia ne è complice - ad affrontare finalmente un tema così importante.
Mi rendo conto che entro i dieci anni è difficile valutare altre doti di un bambino e di una bambina, ma perché non istituire anche la cittadinanza scientifica? Se accettiamo l'idea che il nostro paese ha così bisogno di calciatori, da modificare una legge che molti considerano scolpita nella pietra, pur di ingrossare i vivai delle nostre società sportive, non siamo disposti a cambiare la legge per avere più ingegneri, più scienziati, magari più filosofi e perfino più poeti?
Chi conosce i bambini sa bene che non si controllano la cittadinanza a vicenda per diventare amici e per giocare insieme. Non è importante sapere che cittadinanza abbia un bambino o una bambina; la cosa importante è che venga educato per diventare un calciatore o uno scienziato o qualsiasi altra cosa, è importante che diventi una persona che sappia fare il proprio lavoro con coscienza e serietà.
Partiamo dalla scuola e proviamo a immaginare che il criterio per l’attribuzione della cittadinanza sia quello culturale: è cittadino chiunque, nato in Italia, risulti legato ai valori essenziali della nostra comunità, definiti dalla Costituzione. Fatto salvo il principio, dovremmo - senza isterismi e senza ipocrisie - provare a fissare dei parametri per compiere tale valutazione. Personalmente credo che un periodo di alcuni anni - meno di dieci, però - di residenza, lo svolgimento di un ciclo scolastico o universitario, l'inserimento nel mondo del lavoro, la regolarità contributiva, possano essere elementi utili. Non mi sembra irragionevole prevedere anche un percorso per gradi.
In questo modo potremmo costruire una comunità politica che sia prima di tutto culturale, e non più etnica. Perché l'Italia ha bisogno, prima di tutto, di cittadini.
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