da Rinascita, 14 novembre 1975
Ma c'è un altro aspetto che forse non è ancora sufficientemente chiaro: e riguarda la necessità che - per uscire dalla crisi economica - si vada a nuove combinazioni (le chiamerei così) di momenti produttivi, a un intreccio originale di diverse competenze settoriali, e - in rapporto a ciò - ad una vera e propria invenzione di nuovi, ruoli sociali e di nuove forme di vita e direzione politica. Non basta insomma un coordinamento dell'esistente. C'è bisogno di una creatività sociale e politica. Quando parliamo di maggiore connessione fra scienza e produzione, dobbiamo pensare ad una maggiore incorporazione nella vita produttiva non solo di nuove tecnologie, ma - vorrei dire - anche di scienza politica, di nuova conoscenza della società e dello Stato.
Gli esempi emergono dai fatti e dalle lotte di ogni giorno. Si parla oggi di una programmazione articolata, decentrata a livello del potere locale, per individuare e realizzare, a livello ravvicinato, un collegamento fra riforma nelle campagne e riconversione industriale, e giungere ad una organizzazione di consumi collettivi che dia un punto di riferimento alla produzione. Questa sembra la strada attraverso cui gli organi di potere locali possono trovare il loro volto moderno e rispondere alla domanda impetuosa che oggi li incalza e a volte li travolge. Ma ciò richiede una creazione diffusa di competenze combinate, che va contro un'organizzazione della direzione politica, concentrata in una somma di carrozzoni ministeriali, i quali agiscono dall'alto e separati.
Ancora. E' possibile che il campo ribollente della scuola possa durare nelle condizioni di caos, di crisi di identità e quindi di spreco che oggi lo travaglia? Sembra logico che si vada ad una ridefinizione del suo ruolo nella società e quindi del suo rapporto col lavoro produttivo. E' cosa urgente. Un tale cambiamento di contenuti, di ruolo, di collocazione nella società, appare possibile solo con una irruzione ancora più forte della società dentro la scuola (famiglie, organismi sociali, forze culturali) che si colleghi però con una proposta generale, con una idea dello Stato, con una sua riqualificazione.
E così, sembra arduo misurarsi con i problemi della salute, come si presentano ormai al nostro tempo e alla nostra coscienza, senza che si producano livelli diversi e più diffusi e più coordinati di sapere e di pratica medica, i quali colmino l'attuale distanza tra il grande "luminare" e il malato, evitino l'astrazione della malattia e della sua cura dall'ambiente di vita, ci portino fuori dall'ingolfamento che sta riducendo la rete degli ospedali a straripanti "ammucchiate". Ecco allora che la ricerca e la sperimentazione di metodi e ruoli nuovi, che ancora ieri sembrava esercizio utopistico, comincia ad apparire necessità razionale, bisogno di economicità, per evitare assurde dispersioni di ricchezza, materiale ed intellettuale, guasti nelle terapie, crisi delle professioni.
Ecco, insomma, tutta una serie di campi in cui bisogni elementari domandano ormai un altro modo di essere dello Stato che poggi su nuovi modelli di organizzazione sociale. Il privatismo non regge più. Anzi tanti momenti privati della nostra vita rimandano sempre più al modo con cui è organizzato lo Stato: rimandano alla politica nel suo significato più generale, nel senso che, per affrontare e risolvere certi problemi, diviene indispensabile non fermarsi a visioni settoriali, ma risalire alle connessioni fra l'uno e l'altro aspetto dello Stato, alle forme politiche e giuridiche più complesse in cui si realizza oggi il rapporto Stato-società e Stato-economia. Parlavo del voto del 15 giugno. Credo che ciascuno di noi potrebbe portare esempi di gente che ha votato per noi, a sinistra, perché nella sua vita privata, e ancora più nella sua "professione", si è scontrata più di ieri con una disfunzione dello Stato, che non gli appare più settoriale, particolare, ma che comincia ad apparirgli generale, per così dire organica. Questa è la conferma di come la politica, nel suo senso più consapevole e più profondo, c'entri sempre di più nelle cose. Ma proprio perché tanti momenti della nostra vita sembrano intridersi sempre più direttamente di politica, essa non può restarsene confinata in alto, né ridursi a una delega a gruppi illuminati di vertice. Quella incorporazione di scienza politica, di direzione programmata nell'attività produttiva e sociale, che è la grande spinta che scaturisce dai problemi, se vuole essere effettiva, deve diventare diffusa e penetrante, deve diventare processo di massa che coinvolga e trasformi milioni di uomini e di donne e si realizzi in una molteplicità di livelli e di sedi. Il bisogno di "socializzazione della politica" si presenta sempre meno come sogno generoso, come astratta domanda di democrazia, e sempre più come necessità pratica, "economica". E d'altra non è proprio questo processo diffuso di "socializzazione della politica" la via vera non solo per dare concretezza alla democrazia, ma anche per giungere dalla confusione attuale a quello che noi chiamiamo un ordine nuovo e cioè per far camminare una disciplina reale, che sappia fare fronte ai rischi enormi di disgregazione, di frantumazione corporativa, che è poi spazio aperto all'autoritarismo?
Leggendo questo articolo, ho due sentimenti: da un lato, ammirazione per la lungimiranza e la capacità profonda di analisi che Ingrao mostrava 40 anni fa. Il suo insistere sull'importanza del governo "locale" è geniale.
RispondiEliminaDall'altro, desolazione, perché credo che potrebbe essere scritto oggi... si parla di "crisi" economica, di una "scuola" che non funziona più, di una "sanità" in difficoltà, di uno Stato pieno di disfunzioni.
E mi abbatto pensando alle riforme che sono state sbandierate come novità in questi 40 anni, compresa la riforma della PA iniziata nel 1990, nel nome della trasparenza, efficacia ed efficienza...