Chi legge con una qualche regolarità questo blog sa che spesso provo a capire quello che succede ai nostri giorni attraverso quello che è successo negli anni passati e chi mi segue su Twitter e su Facebook sa anche che ho una discreta attenzione, a volte un po' maniacale, per gli anniversari, specialmente quelli che altrimenti sfuggirebbero alle celebrazioni correnti. E comunque sulla scelta degli anniversari da ricordare rivendico la mia faziosità politica e le mie passioni letterarie e artistiche. Questa settimana ho volutamente evitato di menzionare un anniversario di cui si è molto parlato, spesso in maniera piuttosto banale a dire la verità: l'11 ottobre 1962 - cinquant'anni fa - si apriva il Concilio Vaticano II. Giornali e televisioni si sono ampiamente diffusi a parlare del celeberrimo "discorso alla luna" di Giovanni XXIII, trascurando il ben più significativo discorso di apertura del concilio in cui il papa tracciava il senso di quell'appuntamento destinato a cambiare la chiesa: naturalmente per i pigri giornalisti italiani era molto più semplice ripetere le frasi fatte attorno alla "carezza del papa". Comunque di questo non voglio occuparmi - meglio dovrei dire non posso - perché da persona che guarda dal di fuori, partendo da una posizione di radicale agnosticismo, mi è impossibile prendere posizioni su temi che non conosco, come ad esempio quanto ancora ci sia da sviluppare di quello che è stato scritto nei documenti conciliari: lascio ad altri il tema, ansioso di capire meglio.
Mi interessa invece un altro aspetto. Tra le altre cose dette in questi giorni, si è ripetuto spesso che si apriva allora un periodo di speranza di pace, di cui erano protagonisti, insieme al papa della Pacem in terris, il presidente degli Stati Uniti Kennedy e il segretario del Pcus Krusciov. Effettivamente questa tesi non è solo frutto della pigrizia dei giornalisti, ma è un tema ricorrente nelle storiografia e condiviso nella memoria storica diffusa: però è anche un mito che ci siamo costruiti in questi cinquant'anni. Certo Kennedy e Krusciov ebbero la capacità e la forza di fermare la guerra che stava per scoppiare a causa della crisi dei missili di Cuba - a proposito proprio il 14 ottobre 1962 un U2 statunitense riuscì ad avere la prova fotografica della costruzione di una postazione per gli SS-4 sovietici nell'isola caraibica - ma, per onestà di resoconto, bisogna dire che furono proprio quei due leader a spingere i loro paesi a un passo dalla guerra nucleare. Perché la storia è sempre molto più complessa di come siamo tentati a volte di semplificarla. Il merito storico di Krusciov di aver condotto l'Unione Sovietica fuori dagli anni della dittatura di Stalin non può cancellare il fatto che fu lo stesso Krusciov a volere la costruzione del Muro di Berlino e che, appunto, portò il suo paese e il mondo a un passo dalla guerra, a causa della decisione di installare batterie di missili a Cuba. Allo stesso modo, il mito di Kennedy e la tragedia della sua morte non possono farci dimenticare la sua durezza in questa vicenda e il fatto che fu quell'amato presidente a far cominciare la guerra in Vietnam. Sarebbe stato necessario "Tricky Dick" Nixon a chiudere quel conflitto. Forse ci sarebbe piaciuto di più che Nixon l'avesse cominciata e Kennedy finita, ma non è così.
Faccio questa "considerazione" perché troppo spesso siamo abituati a dare giudizi netti - io lo faccio spesso anche qui - e facciamo fatica a inquadrare le vicende in un quadro più complesso. A sentire le voci che arrivano da L'Avana e da Miami - e comunque tenendo conto delle leggi di natura - tra non molto tempo ci divideremo sul giudizio da dare al defunto Fidel Castro. Per alcuni sarà soltanto il dittatore che ha costretto Cuba a un duro regime comunista, per altri il campione della lotta contro le dittature fasciste dell'America latina. Mentre è stato l'uno e l'altro. Qualcosa di simile sta avvenendo sul giudizio in merito alla decisione di assegnare il Nobel per la pace all'Unione europea. Io da subito mi sono iscritto tra coloro che ha guardato con scetticismo a questa decisione, che francamente mi è parsa poco opportuna proprio quando abbiamo ricordato - in pochi purtroppo - che vent'anni fa è cominciato nel cuore dell'Europa, e anche per responsabilità dirette e indirette della Comunità europea, il più lungo assedio nella storia bellica moderna, quello di Sarajevo, che sarebbe finito quasi quattro anni dopo. Certo gli anniversari possono essere tirati dalla parte che si vuole, perché c'è quasi sempre un anniversario adatto e quest'anno è il cinquantesimo anniversario del discorso che De Gaulle rivolse in tedesco ai giovani tedeschi a Ludwigsburg. Il conflitto tra Francia e Germania è stato il motivo dominante della storia europea dalla metà dell'Ottocento fino al 1945 e certamente il fatto che da allora questi due paesi non si combattano più e anzi abbiano instaurato un sistema di cooperazione istituzionale è un segnale importante, tale da meritare il Nobel. Naturalmente sarebbe anche necessario dire che il conflitto tra quei due paesi è cessato, perché dopo il 1945 il mondo è radicalmente cambiato e l'Europa è diventata impotente di fronte al crescere delle due nuove superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica. In fondo sono stati questi due paesi a garantire i sessant'anni di pace che celebra oggi il Nobel. E forse ci sarebbero anche altre ragioni per giustificare questo premio: la fine del lungo conflitto tra cattolici e protestanti nell'Irlanda del nord e la fine del terrorismo separatista in Spagna. E anche la capacità con cui la cosiddetta Europa occidentale, spinta soprattutto dalla Germania che aveva un interesse diretto, ha saputo rispondere alla fine dei regimi comunisti nella cosiddetta Europa orientale; anche se l'allora Comunità Europea non ha svolto nessun ruolo positivo nel contribuire alla caduta di quei regimi, ha semplicemente reagito, e anche con qualche ritardo, a fenomeni storici che avvenivano oltrecortina.
C'è spesso un disegno politico, più o meno esplicito, che sta dietro le assegnazioni dei Nobel per la pace, a volte tali disegni si possono condividere, altri no. Io ho condiviso - e molto - le scelte degli ultimi due anni: Liu Xiaobo nel 2010, Ellen Johnson Sirleaf, Tawakkul Karman e Leymah Gbowee nel 2011. Mi pare che l'idea che sta dietro la decisione di quest'anno sia quella di "giustificare" il ruolo che l'Europa sta giocando nella sovranità di alcuni paesi, la Grecia soprattutto, e poi gli altri dell'area mediterranea, tra cui naturalmente l'Italia. Temo però ci sia una confusione: il commissariamento diretto della Grecia e indiretto dell'Italia non ha come protagonista l'Unione Europea, ma la Bce e, se mi permettete, c'è una bella differenza. Per questo, per quel poco che vale la mia opinione, io non sono soddisfatto di questo premio, perché serve a mascherare, con una retorica dai toni suadenti e per molti aspetti condivisibili, una storia che porterà alla fine del sogno europeista che è stato alla base della nascita delle istituzioni europee che sono diventate sempre più in questi ultimi anni gusci vuoti. Può sembrare un paradosso, ma proprio chi crede nell'Europa oggi temo senta sempre più come propria avversaria questa Europa, che altro non è che il mascheramento di una tecnocrazia con un preciso disegno antidemocratico e iperliberista, ma di questo ho già parlato.
Ultima notazione: suona stridente - almeno per me lo è - che questa celebrazione dell'Europa avvenga proprio nel momento in cui in Grecia, un paese che per molte ragioni è lo specchio della storia migliore e peggiore di questo continente, rinasca e si stia facendo sempre più forte, più baldanzoso, più sfrontato, un movimento di tipo fascista, un fenomeno assolutamente di origine e di cultura europea, per stroncare il quale alcuni europei lungimiranti avevano immaginato sessant'anni fa gli Stati Uniti d'Europa.
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