mercoledì 21 novembre 2012

Considerazioni libere (321): a proposito di una possibile pace...

Francamente speravo che la cosiddetta primavera araba, con la sua spinta potenzialmente rivoluzionaria, sarebbe potuta essere un aiuto alla risoluzione del problema palestinese, almeno per due ordini di ragioni. Prima di tutto pensavo che spostare l'attenzione da quel conflitto avrebbe permesso a quelli che sono seriamente impegnati per costruire la pace di lavorare meglio, perché in genere queste trattative si conducono meglio se non sono continuamente sotto l'occhio dei riflettori; pensavo poi che fino a quando la questione palestinese fosse rimasta al centro del dibattito politico mediorientale e soprattutto fosse continuata a essere il parafulmine per ogni altro problema - quante volte abbiamo sentito ripetere "questo aspetto potrà essere risolto solo quando lo sarà anche la questione palestinese", con l'obiettivo di rimandare anche la soluzione di quella singola questione - fino ad allora insomma, sarebbe stato più difficile trovare un accordo. Mi era sembrato che le varie "primavere" si fossero messe in moto indipendentemente da quell'annosa questione, quasi a prescinderne, a differenza di quello che era avvenuto negli anni precedenti, quando ogni sollevazione di piazza del mondo arabo metteva sempre al centro la rivendicazione dello stato di Palestina, con i conseguenti attacchi ad Israele; il fatto di non vedere bruciare in piazza né le bandiere degli Stati Uniti né quelle di Israele mi era parso un segnale incoraggiante in questa direzione. Il secondo motivo di ottimismo era legato alla caratteristica peculiare di quelle rivolte, l'elemento unificante, pur in un quadro molto diversificato: la volontà dei giovani manifestanti di affrancarsi dai loro vecchi leader, che erano legati agli schemi del passato e fautori di un rigido status quo. E bisogna ammettere che i capi palestinesi negli ultimi anni sono stati dei veri campioni di questo conservatorismo: si tratta di un gruppo dirigente chiuso nei propri privilegi e sempre più lontano dai bisogni e dalle aspettative del loro popolo. La reazione, ugualmente miope, di Netanyahu e di Abu Mazen di condanna delle rivolte di piazza Tahir e la loro comune solidarietà al regime di Mubarak aveva dato maggior solidità alla mia convinzione.
Evidentemente nessuna di queste condizioni si è verificata in questo modo, visto che in questi giorni guardiamo con il fiato sospeso a quello che succede a Gaza, contro cui il governo Netanyau ha sferrato una ritorsione significativamente più dura dell'attacco che ha colpito le città israeliane, compresa Tel Aviv. Forse ci sarà una tregua, speriamo ci sia, ma sarà solo una parentesi in attesa del prossimo bombardamento. A questo punto suona anacronistico e ipocrita il consueto appello delle Nazioni Unite e dei governi occidentali - a proposito Tony Blair ha ancora un qualche incarico diplomatico? se sì, sarà meglio richiamarlo a casa, visti i risultati - affinché israeliani e palestinesi si rimettano attorno a un tavolo per discutere dell'opzione "due popoli, due stati". A questa soluzione evidentemente non credono più né gli uni né gli altri, ma rimane la nostra foglia di fico, all'indomani di un attacco, da qualsiasi parte provenga. In questi anni i governi di Gerusalemme - con un ampio accordo del paese - ha lavorato in maniera metodica ed efficace affinché fosse impossibile anche solo pensare di tornare ai confini del '67: la politica degli insediamenti e delle colonie e la gestione delle risorse naturali, specialmente delle acque, ha segnato l'interruzione de facto del processo di pace basato sulla formula "due popoli, due stati", perché non c'è più un territorio su cui pensare di costruire il futuro stato palestinese o sarebbe così povero e malridotto da costringerlo in una posizione di sudditanza di fronte al suo ben più potente vicino. D'altra anche i palestinesi hanno ormai abbandonato il progetto "due popoli, due stati", visto che loro stessi si sono ormai organizzati in "due stati", si sono abituati a vivere come enclaves: da una parte Gaza e dall'altra i territori della Cisgiordania; se diventassero davvero un unico stato o Fatah o Hamas dovrebbe rinunciare al proprio piccolo pezzo di potere e ai loro - non troppo piccoli in questo caso - affari, dal momento che gli altri stati arabi mandano moltissime risorse economiche a queste fragilissime strutture.
Sono sempre più convinto che alla lunga questa soluzione, per quanto "politicamente corretta" e apparentemente giusta, finisca per essere irrealizzabile e comunque incapace di risolvere davvero il problema. Se anche arrivassimo alla soluzione "due popoli, due stati", il giorno successivo comincerebbe una guerra, ben più drammatica di quella che funestò gli appena nati India e Pakistan, all'indomani dell'indipendenza dalla Gran Bretagna. Penso che, come succede tutte le volte che ogni altra strada sembra preclusa, occorra fare la mossa del cavallo, anche se forse questa volta bisognerebbe proprio cominciare a giocare un nuovo gioco, con nuove regole. Io immagino una soluzione perfino più semplice di quella "due popoli, due stati", anche se probabilmente perfino più difficile da realizzare: ebrei e palestinesi devono vivere in quell'unico paese insieme, come stanno facendo bianchi e neri in Sudafrica o cattolici e protestanti in Irlanda del nord. La soluzione per quelle donne e quelle donne a cui dovremmo tutti noi democratici cominciare a pensare - e lottare affinché si realizzi - è "un popolo, uno stato". Fare una grande campagna per raggiungere finalmente questo obiettivo. Coloro che sostengono Israele - sia quelli che lo fanno acriticamente sia quelli che lo fanno ponendosi dei dubbi - hanno un argomento difficilmente oppugnabile: quel paese va difeso perché è l'unica democrazia della regione. Proprio perché questo è vero, qual miglior occasione di questa per espandere la democrazia? Pensate cosa succederebbe se ci fosse questo unico stato democratico, piccolo, ma dalla storia così significativa, in quella regione? Credo proprio che dovremmo cominciare a una pensare a una soluzione rivoluzionaria, perché le mezze misure rischiano di portarci a un punto morto. E poi, ogni tanto, le rivoluzioni si riescono anche a fare.

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