domenica 4 novembre 2012

Considerazioni libere (318): a proposito di una diversa politica del lavoro...

Un tedesco su tre non lavora; i disoccupati in Germania sono 18 milioni, il 34% della popolazione attiva. Evidentemente non si tratta di una notizia di attualità, dal momento che il tasso di disoccupazione in quel paese ha raggiunto a ottobre di quest'anno il 6,9%, preoccupando comunque il governo di Berlino. Questi dati drammatici si riferiscono al 1932, l'anno in cui il partito nazional-socialista vinse le elezioni; dopo sette anni, poco prima di invadere la Polonia, Adolf Hitler poteva constatare compiaciuto che il tasso di disoccupazione in Germania era stato praticamente azzerato. Secondo gli ultimi dati pubblicati il tasso di disoccupazione nella zona euro supera l'11%, trascinato da Grecia, Spagna, Italia meridionale, paesi in cui ormai una persona su quattro non lavora. Sono passati ottant'anni dalla vittoria elettorale di Hitler e la storia non si ripete - anche se dovrebbero far riflettere il successo di un partito apertamente nazista in Grecia e l'astensione di un elettore su due alle elezioni siciliane - ma certamente il problema della disoccupazione, in tutta la sua drammaticità, dovrebbe essere la questione centrale del dibattito politico, non solo per le sue possibili ricadute sulle democrazia. Ecco un tema su cui poter dire "qualcosa di sinistra".
Come ci ha insegnato la storia europea del primo novecento e come ci mostrano le cronache di questi giorni, la disoccupazione di massa è uno scandalo perché è capace di scardinare - e potenzialmente di sovvertire - oltre che le vite delle persone e delle loro famiglie, le strutture economiche e sociali di un intero paese. Senza la possibilità di un lavoro stabile e retribuito in maniera dignitosa le persone mature e anziane non riescono più a garantire la propria indipendenza personale, mentre i giovani non riescono neppure a raggiungerla, tutti perdono la possibilità di accedere per sé e per i propri figli a una vita migliore; senza il lavoro si perde il futuro non solo delle persone, ma dell'intera comunità. Gli economisti calcolano che nel nostro paese avere quasi tre milioni di disoccupati comporta una riduzione del pil potenziale dell'ordine di 70-80 miliardi l'anno, perché i disoccupati non solo non lavorano, ma soprattutto perché se sono giovani non imparano neppure a farlo e se erano già entrati nel mondo del lavoro rischiano di veder logorate le loro capacità professionali, che sono tanto più difficili da recuperare, quanto più è lungo il periodo di inattività. Al di là della retorica dei suicidi - il cui numero viene in maniera oscena sopravvalutato o sottovalutato a seconda delle convenienze politiche - la disoccupazione di massa è un dramma e francamente questo governo non ha la cultura politica per affrontare questi temi. I rimedi proposti, dalla riduzione del cuneo fiscale alle facilitazioni per creare nuove imprese, dagli sgravi di imposta per chi assume giovani alla semplificazione delle procedure per l'avvio di cantieri e grandi opere, non affrontano davvero il tema: si tratta di pannicelli caldi che non curano la malattia. E' comprensibile che un governo di questo tipo, con questo orizzonte culturale, non assuma il tema del lavoro come centrale; meno comprensibile che questo tema non sia al centro dell'azione politica di un partito che si definisce riformista. Per questo in Italia abbiamo bisogno vitale di un partito che metta al centro il tema del lavoro.
Mi pare ormai abbastanza evidente che le ricette di austerità imposte dai teorici del neoliberismo, più o meno esasperato, non abbiano finora contribuito né a far crescere l'occupazione né a fermare la crescita della disoccupazione. Occorre un approccio completamente diverso: occorre che sia lo stato a creare direttamente occupazione. Su questo tema c'è un'elaborazione teorica molto vivace, anche se non in Europa, e queste teorie vanno sotto il nome di "lavoro garantito" o job guarantee. A essere sinceri per l'Italia questo approccio non è esattamente rivoluzionario, dal momento che l'art. 4 della nostra Costituzione - uno dei meno attuati nella storia repubblicana - dice che "la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto". Intendiamoci bene, per sgomberare il campo da una delle più consuete - e banali - critiche a questo approccio teorico: né la Costituzione né la teoria del lavoro garantito significano che deve esistere una garanzia per uno specifico posto di lavoro, ma che viene garantito a tutti un posto di lavoro dignitoso e ragionevolmente retribuito. 
Secondo la teoria del lavoro garantito il lavoro deve essere accessibile a tutti coloro che, essendo disoccupati, sono in grado di lavorare; per fare questo è necessario creare da un lato un'agenzia centrale che definisca le regole di assunzione - è realistico pensare che all'inizio debbano essere assunti coloro che da più tempo sono disoccupati e coloro che hanno più bisogno - e i livelli di retribuzione, e dall'altro lato far nascere le imprese che assumano direttamente questi lavoratori, formandoli quando necessario, oppure dei centri di servizi o delle agenzie locali che possano assegnare questi lavoratori a imprese private; in questo secondo caso i centri di servizi e le agenzie locali devono tutelare i lavoratori assunti dai privati, gestendo anche la successiva fase di passaggio del dipendente dal pubblico al privato. Tutti questi lavoratori devono essere utilizzati in progetti di immediata e rilevante utilità collettiva: si può dare la preferenza a settori che richiedono un minor bisogno di capitali, dai beni culturali ai servizi alla persona, oppure partire dal recupero dei centri storici, dalla ristrutturazione di scuole e di ospedali, dalla tutela del territorio. Come vedete per l'Italia questo tipo di approccio servirebbe per intervenire in situazioni su cui c'è enorme necessità.
La prima obiezione che si fa a uno schema del genere è che sono necessarie risorse finanziarie molto ingenti; è verissimo naturalmente. Il problema però è che un'ipotesi del genere non viene neppure presa in considerazione dalle attuali forze politiche e dai teorici del pensiero unico e quindi è impossibile studiarne la fattibilità e i costi. Si tratta evidentemente di fare delle scelte, di gestire delle priorità. Ci sono teorici che, pur non accettando assolutamente l'idea dell'assunzione pubblica - vista come una sorta di tappa intermedia verso il socialismo - dicono che sono necessari forti investimenti pubblici in infrastrutture e una politica di sussidi e di aiuti economici per i poveri e per i disoccupati: questa opzione è parimenti molto costosa e non garantisce in sé la diminuzione della disoccupazione. Poi ci sono gli studiosi che sostengono l'introduzione del salario minimo garantito, come alternativa alla creazione dei posti di lavoro pubblico; secondo loro se diamo alle persone un salario minimo, queste possono scegliere di lavorare e quale lavoro fare. Si tratta di una libertà solo apparente: se non ci sono posti di lavoro, la loro possibilità di scelta è un'arma spuntata. Il disoccupato ha bisogno di un posto di lavoro, non di un salario minimo teorico in un lavoro che non c'è: lavoro garantito e salario minimo possono coesistere, ma questa è già un'altra prospettiva. Altri economisti che si oppongono al lavoro garantito dicono che la disoccupazione si combatte con il solo stimolo alla domanda: se il governo spende abbastanza - e comunque anche in questo caso servono molte risorse - per incentivare la domanda, viene creato un numero sufficiente di posti di lavoro in modo tale che tutti quelli che ne vorranno uno, l'avranno. Questa teoria ha un difetto, perché anche i più entusiasti devono ammettere che non saranno proprio tutti, ma che comunque il tasso di disoccupazione involontaria sarà ridotto in maniera sufficiente: ovviamente sufficiente per chi ottiene il posto di lavoro. Questa teoria ha un fondo di darwinismo sociale: quelli che non ottengono un posto di lavoro non se lo sono meritato; andrà meglio per loro la prossima volta. Un'altra obiezione è che il lavoro garantito crea lavori a bassa retribuzione che non utilizzano tutte le competenze dei lavoratori. Forse, ma sicuramente la disoccupazione non sviluppa le competenze dei lavoratori. Il lavoro garantito crea posti di lavoro per chi li vuole e forma i lavoratori sul campo; naturalmente se il lavoratore si qualifica al punto da poter fare un lavoro migliore, con una retribuzione più alta, può uscire dal sistema del lavoro garantito per entrare nel mercato del lavoro vero e proprio. C'è un motivo tutto italiano per avversare il lavoro garantito e - devo ammettere - rischia di essere il più convincente di tutti: nel paese delle partecipazioni statali, dell'inefficienza delle istituzioni, della corruzione imperante, un progetto di questo genere sembra destinato al fallimento. Ammetto che su questo non so bene come controbattere: forse siamo davvero troppo italiani perfino per sperimentare una cosa rivoluzionaria come il lavoro garantito. Oppure questo schema può servirci finalmente per affrontare mali consolidati del nostro paese, con una generale assunzione di responsabilità, da parte delle forze politiche, dei sindacati, delle imprese, dei cittadini, superando schemi ormai consolidati e sclerotizzati: non può esistere una sorta di "via italiana" al lavoro garantito; l'esperimento fallirebbe prima ancora di cominciare.
C'è infine un'obiezione politica alla teoria del lavoro garantito, particolarmente sviluppata negli Stati Uniti: questo sistema sarebbe intrinsecamente autoritario e porterebbe al socialismo, perché sarebbe lo stato a determinare cosa produrre, con che costi e quindi a definire i prezzi. Se si parte dalla prospettiva che lavorare è un diritto umano, la nostra società, che non garantisce tale diritto, viola i diritti umani e quindi una soluzione che sia in grado di risolvere in maniera radicale questo problema è comunque un passo avanti nella crescita democratica di un paese. Poi la storia - come ho detto - ci insegna che è avvenuto il contrario: è la mancanza del lavoro che ha portato alla fine delle democrazie. Infine - e questo mi sembra l'argomento più solido - credo che un popolo in cui tutti abbiano la possibilità di lavorare sia più consapevole dei propri diritti, ma anche dei propri doveri, più attento a cosa succede nella propria comunità e nel proprio paese. A me piacerebbe che un partito di sinistra si confrontasse su un tema come il lavoro garantito, penso sarebbe una prospettiva per cui varrebbe la pena tornare a combattere e a far politica.

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