venerdì 30 aprile 2010

Considerazioni libere (105): a proposito di madri e di bambini...

Anche se nessuno ha il coraggio di ammetterlo in maniera così secca e brutale, per molte donne indiane fare la madre surrogata è diventato se non un lavoro, certamente un modo per contribuire in maniera rilevante al mantenimento della propria famiglia.
Non lo ammette naturalmente il parlamento indiano, che però era ben consapevole di quello che faceva quando ha approvato, nel 2002, una legge che permette di impiantare gli ovuli fecondati di una coppia nell'utero di un'altra donna, che ha quindi il compito di portare avanti la gravidanza; questa decisione, anche se nessuno lo dichiara ufficialmente, è stata presa per favorire il cosiddetto "turismo medico", che sta diventando una voce importante nell'economia indiana. Non lo ammettono i molti medici che praticano gli impianti e che anzi si proclamano benefattori, perché permettono a tante famiglie di avere figli, naturalmente dietro il pagamento di parcelle in dollari. Non lo ammettono nemmeno le donne che accettano di essere per una o due volte una madre surrogata, di mettere al mondo un figlio che non è loro e che non vedranno mai più, loro non lo ammettono per pudore, sono le uniche in questa storia che ne hanno ancora e sanno cosa significa.
Nel 2007 la più celebre conduttrice tv degli Stati Uniti Oprah Winfrey - una che entra sempre nelle classifiche delle donne con maggior potere nel mondo - ha deciso di parlare in tono estremamente elogiativo della clinica per l'infertilità Akanksha, che si trova nella città di Anand, nella parte nord-occidentale dell'India; da allora la clinica feconda ovuli, impianta embrioni, li fa crescere e infine consegna i bambini al ritmo di quasi uno alla settimana alle riconoscenti famiglie statunitensi che si sono rivolte ad essa. Le famiglie - non solo statunitensi, ma anche inglesi, francesi, israeliane, giapponesi - in lista di attesa sono centinaia e tutte loro alimentano un indotto fatto di viaggi, pernottamenti negli alberghi, cene nei ristoranti e così via.
Le donne che hanno accettato di portare a termine la gravidanza per conto di queste coppie vivono tutte insieme in due edifici della clinica, lontane dalle loro famiglie. Ciascuna di loro riceve 50 dollari al mese e altri 500 dollari alla
fine di ogni trimestre e il saldo dopo il parto; una donna che "lavora" per la clinica Akanksha riceve dai cinquemila ai seimila dollari per ogni parto, un po' di più se il parto è gemellare, cosa per altro abbastanza frequente, dopo le cure contro l'infertilità. Se la donna perde il bambino può tenere i soldi che ha guadagnato fino al quel momento, se decidesse di abortire dovrebbe restituire i soldi e pagare i danni alla clinica, cosa peraltro che non si è mai verificata. Per molte donne indiane cinquemila dollari è molto di più di quanto potrebbero guadagnare in anni di lavoro. Le cliniche mettono annunci nei giornali locali e ingaggiano delle "reclutatrici" che definiscono, in maniera piuttosto ipocrita "assistenti sanitarie sociali".
Durante i nove mesi della gestazione le donne vivono di fatto come recluse in dormitori allestiti dalle stesse cliniche, ufficialmente per poter essere sottoposte a controlli medici, anche se questi sono piuttosto rari, se non al momento dell'"assunzione". Ma nessuna di loro ha dove altro andare; quasi tutte loro vengono dalle campagne e non possono rimanere nei loro villaggi, anche per non alimentare pettegolezzi e voci sulle loro gravidanze. Tutte loro aspettano, sanno che saranno sottoposte a un taglio cesareo, perché più veloce rispetto al parto naturale, anche se più rischioso - soprattutto per loro - e naturalmente sperano di non perdere il bambino, il che significherebbe la perdita del saldo.
La salute e il benessere di queste donne non interessa molto alle cliniche, che devono garantire solo la salute del neonato che dovranno consegnare alle famiglie che hanno pagato per avere un figlio. Nel maggio del 2009 una donna di nome Easwari è morta in seguito a una emorragia seguita al parto, perché la clinica non era attrezzata per affrontare queste complicazioni; le denunce del marito sono cadute nel vuoto e la clinica continua tuttora la sua attività. Il consiglio di ricerca medica dell'India ha presentato una serie di linee guida sulla maternità surrogata che condannano alcune procedure già largamente utilizzate nelle cliniche indiane, ma le autorità non intendono affrontare una legislazione del settore, che rischierebbe di compromettere il settore.
Una coppia statunitense o europea paga tra i 15 e i 20 mila dollari per tutta la procedura, dalla fecondazione al parto. Nei pochi stati degli Usa dove questa pratica è permessa il costo varia dai 50 ai 100 mila dollari. Inoltre le donne indiane non bevono e non fumano e questa è una garanzia per le ansiose mamme statunitensi. Non esistono dati attendibili, ma le cliniche della fertilità in India dovrebbero essere oltre 350, attirando ciascuna centinaia di clienti. La confederazione degli industriali indiani stima che nel 2011 il giro di affari del turismo medico, compreso quello legato alla fertilità, sarà di 2,2 milardi di dollari. Di fronte alla crescita di questo fenomeno le autorità indiane hanno deciso di non esercitare nessun tipo di controllo, di fatto permettendo lo sfruttamento di queste donne.
La Winfrey nel presentare il caso di una coppia americana che è riuscita finalmente ad avere figli grazie alla clinica Akanksha ha detto che tutto si è concluso bene, dal momento che loro sono i felici genitori del loro bambino e la donna indiana è stata aiutata. Purtroppo non è così o almeno non è solo così: le cliniche e i genitori dei paesi ricchi sfruttano la povertà delle donne indiane e ottengono da loro condizioni che probabilmente non accetterebbero, se non fossero in condizione di bisogno per sé e per i propri figli. E' davvero un atto di altruismo da parte delle famiglie statunitensi ed europee o è un modo per risparmiare?
C'è un'affermazione che mi ha molto colpito e con cui voglio concludere questa "considerazione" per lasciarla alla vostra riflessione. Una madre statunitense ha raccontato la sua esperienza e il brevissimo incontro con la donna che per nove mesi avrebbe portato in grembo suo figlio; tra loro non c'è più stato alcun contatto, perché "la clinica preferisce mantenere una linea di separazione, io sono la madre, lei il recipiente".

p.s. devo questa storia al giornalista statunitense Scott Carney, autore di un articolo su Mother Jones, tradotto e pubblicato nel nr. 843 di Internazionale; ve ne consiglio la lettura

1 commento:

  1. finalmente un pensiero ..umano ..sì perchè queste pratiche mi sembrano disumane donne ridotte a recipienti ,la maternità rubata....frutto di egoismo prepotenza piuttosto che amore ...anche la fecondazione eterologa...prevede il 'commercio' di ovuli e non credo che saranno di una ereditiera californiana...ma delle solite povere ragazze che bombardate da ormoni produrranno ovuli da fecondare e poi magari impiantare in un utero pagante....non mi piace ....
    ma non si può vietatre nulla perchè è peggio.... si deve educare al rispetto delle persone anche al rispetto delle donne indiane...

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