lunedì 17 febbraio 2014

Verba volant (64): terremoto...

Terremoto, sost. m.

Che Poseidone sia il dio del mare è noto ai più, anche a quelli che hanno soltanto un'infarinatura di mitologia; ed è altrettanto noto che Poseidone è lo stesso dio che gli antichi Romani chiamavano Nettuno e che i bolognesi chiamano ancora oggi il Gigante.
Invece credo sia meno noto il fatto che Poseidone era anche il dio dei terremoti; veniva infatti chiamato Enosìctono o Enosigeo, che significa letteralmente Scuotitore della terra. Infatti nell'età del bronzo, probabilmente era proprio lui il più importante degli dei; in quei tempi antichissimi la coppia divina era costituita da Poseidone e Demetra, nei cui nomi micenei Po-Se-Da-Wo-Ne e Da-Ma-Te, si ritrova la radice da, che indica appunto la terra. Quando si impose l’ordine di Zeus e quindi il cielo divenne più importante della terra, a Demetra fu associato il culto della fertilità dei campi, mentre a Poseidone fu affidato il governo del mare, anche se, attraverso la forza dei terremoti, continuava a far sentire la propria terribile influenza sulle vicende degli uomini, qui sulla terra.
Non è un caso che al più importante, e quindi temuto, degli dei fossero associati i terremoti, specialmente in un territorio così sismico come le terre intorno all’Egeo. Secondo gli studiosi fu proprio una serie devastante di terremoti una delle cause principali della caduta della civiltà minoica e probabilmente anche Troia subì un sisma distruttivo, che provocò il crollo delle mura e la fine di quella città; e dal momento che uno dei simboli di Poseidone era proprio il cavallo, è realistico pensare che sia nata così la storia del cavallo di Troia.
Vi prego di credermi: questa non è una digressione inutilmente pedante ed erudita. Ho raccontato queste storie antiche per dire che il terremoto è un fenomeno naturale che ha sempre spaventato noi uomini, ci ha messo di fronte alle nostre debolezze, al nostro essere polvere.
Io credo che sia giusto avere paura della natura e che anzi sia un errore molto grave non volerne avere, come troppo spesso facciamo noi. Uno dei peccati più gravi della modernità è proprio quello di comportarsi come se la natura non esistesse e di credere che gli uomini siano diventati più forti di lei. Gli uomini dovrebbero sempre saper riconoscere i propri limiti. Questa umiltà di fronte alla natura l’abbiamo persa.
Badate bene, il mio non è un atteggiamento fatalista o rassegnato, ma credo sia necessario capire fin dove la nostra specie può arrivare. Scrissi qualcosa a proposito nell’aprile del 2010, quando l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjöll bloccò il traffico aereo per un paio di settimane tra l’Europa e il nord America. Ricordate gli articoli preoccupati dei giornali in quei giorni? Pareva che stesse per iniziare la fine del mondo. Semplicemente non accettavamo il limite che ci era imposto dalla natura. E’ proprio indispensabile che ogni giorno, ad ogni ora, si levino in volo centinaia di aerei? Forse no. Forse dovremmo imparare ad accettare che, a causa di un’eruzione vulcanica, ossia un fenomeno squisitamente naturale, gli aerei non possono viaggiare e noi non possiamo volare, che peraltro è un fatto innaturale. In quell’occasione - come in molte altre - la natura ci ha semplicemente fatto sentire la propria potenza e ha messo ordine dove noi uomini abbiamo creato disordine.
Anche i terremoti sono destinati a continuare e continueranno ad essere imprevedibili. Anche su questo occorre accettare i nostri limiti umani e i limiti della scienza. Spesso ci culliamo nell’idea che tutto sia conoscibile, tutto sia prevedibile, ma non è così.
Una parte dell’opinione pubblica ha attaccato duramente i sismologi per non essere riusciti a prevedere il terremoto dell’Aquila. Io sono uno di quelli che ha considerato un’errore la sentenza con cui sono stati condannati i membri della Commissione grande rischi. So bene - e lo denuncio di continuo, nel mio piccolo  che in quell’evento, come succede troppe volte nel nostro sventurato paese - c’è stata una miscela letale di incompetenza, pigrizia, arroganza, accondiscendenza al potente di turno. Quella sentenza ha dimostrato una volta di più che in questo paese i cittadini non possono fidarsi delle istituzioni, non possono credere a uno stato che, per dolo e per negligenza - ma più spesso per dolo - li ha sistematicamente ingannati, negando la verità. Questo stato di cose non lo può risolvere una sentenza, per quanto coraggiosa - anche se temo sbagliata - di un giudice di provincia.
In Italia ogni terremoto rischia di trasformarsi in una catastrofe dagli esiti terribili e non quantificabili, perché non c’è la cultura per affrontare questi eventi naturali, che sono sì imprevedibili - e chi dice il contrario è ignorante - ma sono allo stesso tempo affrontabili, nell’accettazione dei nostri limiti, come ho provato a spiegare prima. Per non parlare di quegli eventi che, pur essendo prevedibilissimi - come le piogge - rischiano di trasformarsi anche loro in catastrofi. Manca ad esempio nel nostro paese, che pure è altamente sismico, qualsiasi forma di educazione dei cittadini, anche perché troppo spesso le autorità - scienziati compresi - hanno sempre adottato lo stile di comunicazione messo in pratica in Abruzzo, teso a nascondere la verità e a rassicurare comunque i cittadini, che evidentemente non sono ritenuti abbastanza intelligenti da conoscere quello che succede, o che potrebbe succedere. Figurarsi poi se siamo in grado di costruire le case e gli edifici pubblici seguendo criteri antisismici: troppo costoso e troppo poco redditizio.
Se non fossi amico di Antonella Cardone e di Filippo Manvuller e se non avessi avuto la fortuna di collaborare a Laboratorio politica Bologna, non avrei notizie su come sta avvenendo - o dovrei dir meglio, come non sta avvenendo - la ricostruzione in Emilia, a seguito del terremoto del 2012.
Un terremoto infatti può succedere: è nell’ordine delle cose, come ho detto. Ma dopo un terremoto bisogna ricostruire - possibilmente meglio di come è stato fatto prima - quello che è stato distrutto e ricominciare. Gli archeologi ci dicono che anche Troia è stata ricostruita, verosimilmente dopo aver fatto grandi sacrifici in onore di Poseidone.
In Emilia gli unici che fanno i sacrifici sono le persone che tentano di ricostruire le proprie case e gli artigiani e gli imprenditori che provano a rimettere in piedi le proprie aziende. Nella nostra regione è stato risolto in maniera brillante - anche se forse in un modo troppo radicale e sbrigativo - il rischio che qualcuno si approfitti dell’emergenza e rubi i soldi messi a disposizione per la ricostruzione: è stato stanziato pochissimo e quindi non c’è nulla da rubare.
Passati i primi giorni dal terremoto i metaforici riflettori dell’informazione sono stati spenti sull’Emilia. Nel caso dell’alluvione poi, che ha colpito - sfortunatamente - lo stesso pezzo di territorio non sono mai stati accesi: meglio, così abbiamo risparmiato corrente. Non per essere campanilista o criptoleghista, eppure quel pezzo d’Italia che ha subito in pochi mesi delle trombe d’aria, un terremoto e un’alluvione non è proprio una zona marginale del paese, ma produce una quota significativa del Pil italiano. Apparentemente questi sono dati a cui quelli della troika prestano attenzione, eppure stavolta neppure i sacerdoti dello spread si sono particolarmente preoccupati della questione.
Un terremoto quindi non solo ci mette di fronte alle nostre debolezze, ma questo terremoto - come, per altri versi, quello dell’Abruzzo - ci ha messo di fronte alle nostre meschinerie, alle nostre incapacità, alle nostre disonestà. Per fortuna che ci sono alcuni amici che sono ostinati e continueranno a parlare del terremoto. Ovviamente ne hanno bisogno quei territori, ma ne abbiamo bisogno anche noi che quel terremoto non l’abbiamo subito, ne ha bisogno la crescita civile del nostro paese.

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