venerdì 22 novembre 2013

Verba volant (14): mito...


Mito, sost. m.

J.F.K. è sicuramente un mito. E’ stato anche un buon presidente?
Su questo il giudizio è oggettivamente più complicato. Anche al netto di quelli che hanno attribuito a Kennedy i rapporti con i peggiori gangster della mafia, l'assassinio di Marilyn e praticamente ogni altra nefandezza successa nel mondo nei due anni e mezzo della sua presidenza, e di quelli che un presidente degli Stati Uniti è "cattivo", a prescindere, non si può dimenticare che mai come in quegli anni il mondo fu sull'orlo di un conflitto nucleare, anche per sua diretta responsabilità. E l'inizio dell’intervento statunitense in Vietnam è da attribuire a Kennedy, anche se poi fu Johnson a dare il via alla vera e propria escalation.
Nonostante tutto questo, nonostante la sua condotta notoriamente libertina, Kennedy è diventato un mito. Ovviamente sono state determinanti le circostanze della sua uccisione, il 22 novembre 1963 a Dallas, giusto cinquant’anni fa. Come diceva Menandro, tradotto da Giacomo Leopardi:
muor giovane colui ch’al cielo è caro
Vale per Kennedy, ma vale anche per altri miti. Fidel Castro è un vecchio leader di cui il mondo attende la fine, un personaggio a cui si guarda con curiosità archeologica. Che Guevara è stato ucciso ed è diventato un mito. La stessa Marilyn Monroe è diventata un mito perché la morte ne ha fissato per sempre l’immagine nel momento in cui la sua bellezza era al massimo del suo splendore.
Io credo però che non basti la morte per fare un mito.
C’è una bella scena del film Nixon di Oliver Stone. Il presidente sente che ormai è tutto finito, sa che dovrà dimettersi, e cammina di notte attraverso i corridoi della Casa bianca, bui e vuoti. Si ferma davanti al ritratto di Kennedy – quello celeberrimo di Aaron Shikler, in cui il presidente è raffigurato a braccia conserte, con lo sguardo verso il basso – e dice
guardano te e si vedono come vorrebbero essere, guardano me e si vedono come sono.
E’ proprio così. Sono le persone comuni che costruiscono i propri miti: è un processo complicato, difficile da interpretare, naturalmente inconsapevole, fatto di migliaia di piccoli gesti, di azioni che prese una per una non avrebbero alcun significato, ma che, in un dato momento, all’improvviso, tutte insieme, costruiscono un mito.
Perché di miti c’è bisogno e quel mito racconta più la società che l’ha creato che la persona che si trova involontariamente a incarnarlo, in questa deificazione postuma. Il mito di Kennedy non ci serve a raccontare quel presidente e la sua storia, ma ci è indispensabile per cercare di capire cosa volevano essere gli americani in quegli anni. Immaginavano una società più aperta, più moderna, più libera, con meno retaggi del passato e si erano convinti che quel giovane presidente, se non fosse stato ucciso, li avrebbe condotti a essere un paese migliore. Che lo siano diventati è tutt’altra storia. E anche che lo potessero diventare è molto dubbio.
Qualcosa del genere è successa in Italia – o almeno a una parte di questo paese, quella di sinistra – con Enrico Berlinguer, diventato un nostro mito, dopo il tragico comizio di Padova e il suo partecipatissimo funerale: in molti continuiamo a pensare a lui come un modello, anche se non l’abbiamo conosciuto, se non abbiamo vissuto quegli anni di militanza, e pensiamo a come la sinistra italiana avrebbe potuto essere e non è stata.
Il mito per nascere ha bisogno di sogni, di ideali. Temo che questi nostri tempi tristi non siano i più adatti a produrre miti.

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