martedì 2 febbraio 2016

Considerazioni libere (407): a proposito di come è cambiato quel mondo piccolo...


Se non siete di questa zona, se non conoscete la bassa emiliana, in particolare i paesi lungo la riva del Po, forse il nome Brescello non vi dice nulla, ma sicuramente conoscete la sua piazza, perché è una delle più famose della storia del cinema. Non esagero. Provate ad andare una domenica in questo piccolo paese in provincia di Reggio - a proposito, se venite da queste parti, fatemelo sapere, Zaira ed io vi saluteremo volentieri e vi daremo qualche consiglio su dove andare a mangiare - e incontrerete turisti stranieri che si fanno le foto davanti al carro armato o che guardano la campana, quella senza il batacchio naturalmente, ricordando in maniera precisa la scena in cui Peppone ci rimane sotto, perché i film tratti dalle storie di don Camillo sono conosciuti davvero in tutto il mondo.
Brescello non era il paese in cui il parmense Guareschi aveva immaginato le sue storie, ma venne scelto perché aveva le caratteristiche migliori da un punto di vista cinematografico e così è diventato, per tutto il mondo, il paese di Peppone e don Camillo. Ed il paese stesso, con la chiesa, la stazione, il municipio, le case, le botteghe, la grande piazza, è diventato in qualche modo uno dei protagonisti del film, il terzo personaggio, anche perché Peppone e don Camillo non sanno immaginarsi e non potrebbero vivere in un altro posto. Appena si allontanano, ne sentono immediatamente la nostalgia; e debbono tornarci. E' una nostalgia che prende talvolta anche noi, che pure non siamo nati a Brescello.
Quel piccolo paese ha quindi avuto l'opportunità, per molti anni, di rappresentare l'Italia - un'Italia bella, di cui amiamo considerarci figli - grazie alla capacità di Giovanni Guareschi di raccontare le storie del mondo piccolo e a quella di un formidabile gruppo di registi, sceneggiatori, attori, tecnici, che le hanno sapute trasformare in racconti cinematografici. Quei libri e soprattutto quei film hanno avuto un tale successo, non solo in Italia, perché raccontano storie universali, pur partendo dalle vicende di un paese lungo le rive del Po. E quelle storie hanno ancora un tale successo, perché sono vere, perché Guareschi racconta un'Italia vera, un'Italia che oggi naturalmente non c'è più. Fortunatamente non c'è più. E non c'è più anche per merito di persone come Peppone e don Camillo. Io ho avuto la fortuna di conoscerne molti di Peppone, alcuni di loro mi hanno insegnato la politica. E non solo.
Quell'Italia là non era migliore dell'Italia di oggi, come qualche volta potremmo pensare, sprofondati nello schifo in cui ci troviamo. O almeno nessuno di noi vorrebbe davvero tornare a vivere in quegli anni: ci siamo abituati troppo bene. Pur essendo commedie e dovendo finire bene, quei film raccontano un'Italia in cui c'era una miseria terribile, in cui per tante famiglie mangiare tutti i giorni non era affatto scontato, perché magari la terra era cattiva come quella della Bruciata o perché un fittavolo poteva essere sfrattato, con tutta la sua famiglia, senza sapere dove andare. Racconta un'Italia di contrapposizioni politiche e sociali molto dure, in cui gli scioperi duravano giorni e mettevano a rischio la vita delle persone, anche perché facevano morire le mucche che non venivano munte, e in cui la violenza era un aspetto non secondario della lotta politica, e di questo si poteva morire, come il giovane comunista per cui Peppone e don Camillo suonano le loro campane. Nel mondo piccolo raccontato da Guareschi si viveva con la paura, perché il grande fiume incombeva sulle vite di quei territori e poteva trasformarsi da fonte di vita a pericolo mortale. C'era generosità, rispetto per le persone, senso della memoria, ma c'erano anche tante meschinerie, tante paure, tanta ignoranza, che Guareschi racconta senza ipocrisie. Però quella Brescello lì raccontava l'Italia uscita dalla guerra, anzi che di guerre ne aveva combattute due; e quelli che vivevano a Brescello erano sempre stati sconfitti, perché i poveri le perdono sempre le guerre. Raccontava un'Italia che lavorava, in cui il lavoro era fondamentale: non per niente era la parola che, per una volta d'accordo, Peppone e don Camillo, avevano voluto nel primo articolo della nuova Costituzione. Raccontava un'Italia che voleva crescere, che voleva studiare, che voleva far studiare i propri figli - e per questo accettava ogni sacrificio - che voleva finalmente uscire dalla miseria, ma tutta insieme, cercando che nessuno rimanesse indietro. E ci sono anche riusciti Peppone e don Camillo, hanno fatto tanto e di quello che hanno fatto dobbiamo essere loro grati. Come dobbiamo riconoscerne i limiti, che pure ci sono stati.
Brescello oggi non è solo il paese di Peppone e don Camillo, è anche un paese della 'ndrangheta. E' una di quelle realtà del nord in cui la criminalità ha preso piede, in maniera molto diversa da come aveva fatto storicamente nel Mezzogiorno, ma in maniera non meno permeante. A Brescello i mafiosi non sparano, ma fanno affari, prestano denaro, sostengono aziende in crisi, offrono servizi a basso costo, assumono un ruolo politico. A Brescello i mafiosi sono i nostri vicini di casa, i genitori dei compagni di scuola dei nostri figli, le persone con cui lavoriamo, magari il nostro commercialista o il nostro avvocato, le persone a cui chiediamo aiuto in un momento di difficoltà. Poi possiamo far finta di credere che la mafia qui al nord non esista; non ci chiediamo come mai quell'azienda riesca a smaltire i rifiuti industriali a un prezzo così basso, facendoci risparmiare; non ci meravigliamo di fronte a quei soldi, in contanti, con cui hanno acquistato il nostro bar che da mesi cercavamo di vendere, senza successo; non ci facciamo domande se, d'un tratto, cessano i furti che nelle settimane precedenti ci avevano allarmato; non ci stupiamo se il direttore della banca, mentre ci nega il prestito di cui abbiamo così bisogno, ci spiega che quei soldi possiamo averli comunque, chiedendo alla persona giusta. Possiamo far finta di niente, magari lamentarci che sia finito il tempo di Peppone e don Camillo e alla fine girarci dall'altra parte; e così anche noi abbiamo dato il nostro contributo alle mafie, le abbiamo aiutate a crescere, siamo diventati anche noi un po' mafiosi. Adesso Brescello rappresenta purtroppo questa Italia qui, di cui non amiamo considerarci figli, ma con cui conviviamo, arrabbiandoci sempre meno.
Peppone e don Camillo non riconoscerebbero più la loro Brescello. Certo la piazza è sempre quella, con la chiesa, il municipio, le botteghe sotto i portici bassi, ma la gente è certamente diversa e non è questione del colore della pelle o dell'inflessione dialettale, come qualche sciocco vorrebbe farci credere - c'è una 'ndrangheta che parla dialetto reggiano, come c'è una mafia che parla l'inglese fluente dei manager - è cambiata l'idea che dobbiamo farcela tutti insieme, perché ci siamo abituati a credere che ciascuno deve pensare a se stesso, non c'è più la voglia di non lasciare indietro nessuno, perché se l'altro non ce la fa ce ne sarà più per me. Pensiamo che studiare non serva a nulla, tanto mia figlia farà più successo se andrà al Grande fratello e poi si può diventar ricchi anche senza lavorare. E quella parola là, nel primo articolo della Costituzione, ha sempre meno significato: forse sarebbe perfino ora di cambiarla, di toglierla. Peppone e don Camillo non riconoscerebbero più la loro Brescello, perché vedrebbero la mafia che ha vinto. Ma almeno loro non smetterebbero di combattere.

Nessun commento:

Posta un commento