venerdì 25 settembre 2009

La democrazia ateniese ai tempi di Pericle e Protagora (IV di V)

Durante gli anni della Pentecontaetia l'aristocrazia ateniese si spaccò, si formarono due schieramenti, due gruppi politici che solo con un'anacronistica forzatura si potrebbero definire partiti. Questi gruppi non solo sostenevano linee politiche contrapposte, ma si facevano anche interpreti di due culture, di due stili di vita diversi: è proprio di una civiltà totalizzante come quella della polis il fatto che le strutture ideologiche fossero così marcate e importanti. È difficile dare delle etichette a questi due gruppi, che avevano rispettivamente in Cimone, figlio di Milziade, e in Efialte e in Pericle, nipote di Clistene, i loro leaders: i termini moderati e progressisti, destra e sinistra, che pure sono stati a volte utilizzati, possono essere usati solo a patto che sia ben chiaro che si tratta di convenzioni moderne.
Il gruppo di Cimone, pur non disdegnando il consenso popolare, senza il quale non si regge una democrazia, cercava di guadagnarlo facendo leva su una politica di rapporti, all'esterno dell'Attica, orientata in senso conservatore e all'interno basata sulla difesa di un'etica e di una religiosità conservatrice, che sosteneva la coscienza del limite e l'acquiescenza al proprio stato. Cimone, secondo la testimonianza di Plutarco, “era conciliante verso tutti e sapeva farsi benvolere dalla massa grazie alla dolcezza e alla semplicità del suo carattere”, a cui univa una ben calcolata prodigalità. In politica estera Cimone si atteneva a un'interpretazione scrupolosa dei fini della lega delio-attica, che erano quelli di proteggere gli alleati e di tenere a bada la minaccia persiana; le azioni militari che lo videro impegnato con coraggio e con abilità nel corso di un lungo periodo furono sempre rivolte contro il Gran Re. Gli eroi di Cimone erano i maratonomachi, i valorosi, duri, incolti e pii contadini che stretti nella falange oplitica avevano sconfitto il nemico persiano a Maratona. Per lui la ricchezza stava nel lavoro della terra piuttosto che nel mare. La società ideale per Cimone era quella spartana, saldamente ancorata ai valori della terra e all'obbedienza alla legge delfica del “nulla troppo”: era una Sparta idealizzata che, come ogni società perfetta, non esisteva (e non esisterà mai). Così quando nel 464 gli iloti si ribellarono, in seguito a un grande terremoto che sconvolse la Messenia, Cimone convinse gli ateniesi a mandare un contingente in aiuto degli spartani. Di fronte a quanti sostenevano che era un vantaggio per Atene il crollo della potenza spartana, Cimone “antepose il bene dei lacedemoni all'espansione della propria patria”; Plutarco cita una frase pronunciata allora da Cimone agli ateniesi, li esortò “a impedire che l'Ellade diventasse zoppa, e Atene perdesse la compagna di traino, con cui era aggiogata”.
Il poeta che meglio di tutti si è fatto interprete di questo alto sentire etico e religioso è stato Sofocle. Egli, di fronte all'immagine dell'uomo data da Anassagora e dai sofisti, che nelle loro visioni del mondo escludevano ormai completamente gli dei, e alla sempre più evidente laicizzazione dello stato portata avanti da Pericle, ha levato alta la sua voce, creando due assoluti capolavori della tragedia antica: l'Antigone e l'Edipo re. L'arrogante Creonte, sensibile soltanto a una ferrea ragion di stato, certo di possedere la verità, spregiatore delle profezie, guida uno stato senza tener in alcun conto gli dei e le leggi non scritte che prescrivono di onorare gli avi e i congiunti; Sofocle chiama Creonte “stratega”, titolo assurdo per indicare il re di Tebe, ma il tragediografo si voleva riferire a Pericle, lo stratega per antonomasia, e agli ateniesi doveva essere ben chiaro. Edipo è l'uomo che grazie alla sua intelligenza ha fatto quanto la sapienza degli indovini non è riuscita a fare: risolvere l'enigma della Sfinge e salvare Tebe; ma la sua intelligenza non serve a nulla quando gli dei decidono che è il momento di punirlo e allora, in virtù di una drammatica peripezia, Edipo scopre di essere un mortale in balia del destino ed è sprofondato nell'abisso della propria nullità. Attraverso Edipo, Sofocle mostra che nell'uomo non vi può essere alcuna grandezza se manca la pietà divina. L'uomo dei sofisti, esaltato come mai era stato fatto prima nella sua intelligenza e nella sua autonomia, viene spogliato della sua superbia, la sua intelligenza, tanto presuntuosa, viene confutata, e gli occhi accecati di Edipo diventano la metafora della cecità della ragione umana di fronte al mistero del mondo. Edipo può redimersi, addirittura salire al cielo come un eroe, soltanto nell'Edipo a Colono, quando, dopo aver errato come un mendico per la Grecia, accetta fino in fondo la sua nullità e allo stesso tempo la sovrumana potenza degli dei. In qualche modo Edipo è stato trasformato non in un determinato personaggio storico, ma nella stessa città di Atene, colta nella sua grandezza e nei suoi difetti: una costante volontà d'azione, fondata sull'esperienza, ispirata dal coraggio, espressa nella rapidità e nell'impazienza, ma informata dalla riflessione intelligente, dotata della sicurezza di sé, dell'ottimismo e della versatilità del dilettante brillante, ma guastata da un'eccessiva sospettosità e da scoppi occasionali di collera demoniaca sono le virtù e i difetti di Edipo, e al tempo stesso sono quelli della democrazia ateniese. Sofocle era un aristocratico cimoniano e come tale non ha mai rifiutato la prospettiva cittadina: questo è evidente dal primo stasimo dell'Antigone. L'ingegno dell'uomo non è neutro, può essere volto al bene come al male, e il banco di prova per misurare la moralità dell'uomo è proprio il bene della polis: chi non rispetta le leggi non è più un uomo, in quanto non è più un cittadino. L'orizzonte di Sofocle, come quello di Protagora, è racchiuso dai confini della città; ma mentre per il sofista la polis ha in se stessa la propria giustificazione, per il tragediografo esistono dei principi più alti che si realizzano nella città, ma non nascono in essa.
Rispetto a Cimone Pericle era meno affabile, più riservato, ma aveva un'eloquenza che gli permetteva di dominare l'assemblea. Giova riportare il celebre giudizio di Tucidide: “Pericle, potente per dignità e per senno, chiaramente incorruttibile al denaro, dominava il popolo senza limitarne la libertà, e non era da lui condotto più di quanto egli stesso non lo conducesse, poiché Pericle non parlava per lusingarlo, come avrebbe fatto se avesse ottenuto il potere con mezzi illeciti, ma lo contraddiceva anche sotto l'influsso dell'ira, avendo ottenuto il potere per suo merito personale [...] vi era così ad Atene una democrazia, ma di fatto un potere affidato al primo cittadino”. Queste considerazioni tucididee portano molti studiosi a ingigantire la figura e il ruolo di Pericle e a tener in minor conto il complesso sistema costituzionale della polis. Il potere, anche nei lunghi anni in cui Pericle venne rieletto anno dopo anno alla strategia, non sfuggì mai al controllo dei cittadini riuniti in assemblea: Pericle, e Cimone prima di lui, non ha mai avuto poteri eccezionali. Grazie alle sue doti riusciva a influenzare i suoi concittadini, a imporre le sue linee politiche, che venivano poi tradotte in una serie di disposizioni e di decreti dell'assemblea.
Non deve stupire se alcune decisioni dell'assemblea non erano in linea con gli indirizzi politici in quel momento prevalenti. Cimone e poi Pericle avevano un controllo dell'assemblea tutt'altro che assoluto, potevano essere approvati dei decreti che stridevano con quelli assunti i giorni precedenti: questo era uno dei rischi del sistema democratico ateniese. Un cittadino poteva un giorno votare a favore di una proposta di un oratore e il giorno successivo votare contro una proposta dello stesso oratore. Pericle nel 430 fu messo in minoranza, fu accusato di condurre male la guerra e fu multato: evidentemente in quei giorni tra i cittadini si era sollevato del malumore contro di lui, che gli oratori avversari seppero alimentare e sfruttare in maniera particolarmente efficace, ma poco dopo Pericle fu rieletto stratega, il suo prestigio aveva ripreso posto nell'animo degli ateniesi.
Il manifesto politico dell'Atene periclea è l'epitaffio per i caduti ateniesi durante il primo anno della guerra del Peloponneso composto da Pericle e ricostruito da Tucidide. Pericle, in questo lungo discorso, non si limita al ricordo di maniera dei morti, che ricalcava schemi ormai consolidati, ma si lancia in un elogio dei valori che hanno reso possibile il fatto che Atene divenisse lo stato più potente del mondo greco. Significativamente Pericle ricorda gli antenati in maniera sbrigativa e formale e punta l'accento sull'orgoglio di chi lo sta ascoltando: “L'ampliamento dell'impero stesso è opera nostra, di tutti quanti noi che ci troviamo nell'età matura e che abbiamo ingrandito la nostra città, sì da renderla preparata da ogni punto di vista e autosufficiente per la pace e per la guerra”. Una differenza notevole dal culto degli antenati di cui era interprete l'etica delfica e quindi il gruppo di Cimone.
Pericle passa poi a elogiare la costituzione di Atene: “Poiché essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica nell'amministrazione dello stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo, non per la provenienza da una classe sociale, ma più per quello che vale”. Questo passaggio del discorso pericleo è il manifesto ideologico dell'alleanza tra l'aristocrazia e il popolo. Il governo ateniese garantisce l'isonomia nell'ambito delle controversie private e quindi il mantenimento dello status quo, anche quando questo significa la conservazione di privilegi, mentre prevede che all'amministrazione della cosa pubblica partecipi chi è più capace, sia ricco sia povero, perché tutti i cittadini possiedono allo stesso grado rispetto e giustizia. L'isonomia dunque da un lato riflette una realtà sociale, ossia la partecipazione di tutti i cittadini alla direzione della comunità politica, dall'altro nasconde le differenze e le contraddizioni sociali ed economiche che pure esistono tra le varie classi. Questo è una chiara conseguenza di quanto sosteneva Protagora nella sua definizione della democrazia: a una situazione di sostanziale parità e di uguaglianza nel campo politico, corrisponde una precisa divisione dei ruoli, anche con notevoli differenze, in quello economico. Anche nel pensiero del cosiddetto Anonimo di Giamblico si trova l'esemplificazione di questa mescolanza assai singolare tra spirito comunitario e tendenza fortemente individualista. Ad Atene nemmeno nei momenti di maggiore difficoltà si pensò a un qualche provvedimento per la redistribuzione delle ricchezze o si fece ricorso a espropri: provvedimenti di questo genere erano classificati come tirannici e quindi banditi perfino dalla discussione. Ai ricchi venivano concesse tutte le possibilità per aumentare i loro patrimoni, il popolo si impegnava a non toccare i privilegi da loro acquisiti.
Questa alleanza tra poveri e ricchi si reggeva sullo sfruttamento sistematico dell'impero. Era la politica imperialista che univa tutti i cittadini di Atene, indipendentemente dalla loro condizione economica. I tributi degli alleati diedero i mezzi per mantenere il sistema delle indennità e per avviare un grandioso piano di opere pubbliche che è stato probabilmente il progetto più importante condotto in porto da Pericle. La politica estera periclea era aggressiva e mirava a creare un equilibrio nel bacino orientale del Mediterraneo, tale da favorire l'economia ateniese, basata sulla trasformazione e il commercio. Fu quindi necessario reprimere duramente tutti i tentativi degli alleati di sganciarsi, anche parzialmente, dalla lega delio-attica. Atene entrò allora in una spirale da cui non fu più in grado di uscire: a ogni ribellione, doveva inasprire il controllo sull'impero e questo era fonte di nuove ribellioni. La propaganda filospartana durante la guerra del Peloponneso fu tesa a presentare Sparta come la liberatrice dal giogo ateniese; alla fine della guerra, quando Atene venne sconfitta, Senofonte può dire che il giorno della distruzione delle Lunghe Mura ha segnato “l'inizio della libertà per l'Ellade”. Perché il sistema ateniese funzionasse occorreva questo costante e sempre crescente afflusso di denaro: quando esso cessò, la crisi di Atene non si poté non manifestare in maniera drammatica. Questa idea è ben espressa dal discorso di Cleone contro gli abitanti di Mitilene: o Atene fa una politica imperialista o non fa nessuna politica.
Nell'epitaffio Pericle esalta il consumismo e l'edonismo. “Abbiamo dato al nostro spirito moltissimo sollievo dalle fatiche, istituendo abitualmente giochi e feste per tutto l'anno, e avendo belle suppellettili nelle nostre case private, dalle quali giornalmente deriva il diletto con cui scacciamo il dolore. E per la sua grandezza, alla città giunge ogni genere di prodotti da ogni terra, e avviene che noi godiamo dei beni degli altri uomini con non minor piacere che dei beni di qui”. Pericle era lontano dalla tradizionale idea dell'autarchia, dell'autonomia economica basata sull'agricoltura. Un animoso oligarca nemico della democrazia conferma: “Quanto c'è di delizioso in Sicilia, Italia, Cipro, Egitto, Lidia, Ponto, Peloponneso e altrove, lo si trova raccolto presso di loro, grazie al dominio del mare”.
L'economia ateniese venne rilanciata da un ricco programma di costruzione di opere pubbliche, una sorta di new deal greco. Plutarco ne è testimone prezioso: “Pericle portò e propose all'assemblea piani grandiosi di costruzioni e disegni di opere, la cui esecuzione richiedeva molto tempo e l'intervento di molte categorie di artigiani; in tal modo anche i cittadini rimasti a casa avevano una giustificazione per partecipare al godimento degli utili pubblici, non meno degli equipaggi, delle guarnigioni e degli eserciti. Furono usati come materiali la pietra, il bronzo, l'avorio, l'oro, l'ebano, il cipresso; furono impiegate le arti che li trattano e lavorano, cioè falegnami, scultori, fabbri, scalpellini, tintori, modellatori d'oro e d'avorio, pittori, arazzieri, intagliatori, per non dire di coloro che importano e trasportano tutte queste merci: armatori, marinai e piloti in mare, carradori, allevatori, conducenti, cordai, tessitori, cuoiai, terrazzieri e minatori. Ogni categoria aveva poi schierata sotto di sé, come un generale il proprio corpo d'armata, una folla particolare di manovali, che erano le membra di cui si serviva per disimpegnare la sua mansione”. Questo piano di opere pubbliche fu duramente attaccato da Tucidide di Melesia, erede politico di Cimone. Venne accusato di malversazione Fidia, lo scultore che ha avuto la fortuna di nascere ad Atene, quando Atene aveva bisogno di un grande artista. Tucidide di Melesia riteneva ingiusto prendere soldi dagli alleati per arricchire Atene di monumenti. Pericle gli rispondeva: “I nostri alleati non ci consegnano cavalli o navi od opliti, ma solo danari; e questi non appartengono più a chi li versa, ma a chi li riceve, purché presti il servizio per cui li riceve”.
Il programma di costruzioni di cui l'assemblea si fece carico, su istanza di Pericle, fu impressionante. L'impegno si rivolse a tutta l'Attica: fu dedicato un tempio a Poseidone presso il Sunio, uno ad Ares in una località imprecisata nella parte nord-occidentale dell'Attica, uno alla dea Nemesi a Ramnunte, sul versante nord-orientale, e uno a Demetra presso Torico. Poi vennero costruiti un tempio di Efesto a Colono e l'Odeon sul pendio meridionale dell'acropoli. Comunque il più importante progetto di Pericle fu quello di ridisegnare l'acropoli, il centro religioso e cultuale dell'Attica: vennero allora costruiti, sotto la direzione di Mnesicle, i Propilei, ossia il monumentale accesso all'acropoli, e soprattutto fu messo mano al grande tempio di Atena Parthenos.
Questi lavori dovevano essere il segno tangibile della potenza e della gloria di Atene, dovevano dare ai cittadini la possibilità di ammirare “nell'attività giornaliera la potenza di questa città, divenendone amanti”, dovevano incutere una sorta di timore reverenziale agli alleati che giungevano in città. Questo programma edilizio aveva una funzione propagandistica ed educativa. Protagora ha insegnato a Pericle che i cittadini vanno educati per tutta la loro vita, in ogni modo possibile, e Pericle ha voluto insegnare loro quanto Atene fosse potente. Il Partenone è forse l'edificio che più di ogni altro aveva questo scopo. I lavori ebbero inizio nel 446-45 e furono terminati nel 432. La grande statua della dea, alta ventisei cubiti (circa dodici metri) e rivestita d'oro e d'avorio per un costo di settecento talenti, fu consacrata nel 438. Fidia ebbe l'incarico di coordinare l'intero progetto e in particolare di realizzare la statua criselefantina, le statue dei frontoni, le novantadue metope e il fregio che correva all'interno della cella. Fidia, per dirla con Plutarco, era il generale di un esercito di scultori e di ragazzi di bottega che dovettero lavorare a pieno ritmo. Ictino era l'architetto capo, assistito da Callicrate. La struttura del tempio richiese costi molto elevati: infatti, per poter ospitare l'enorme statua della dea, Ictino costruì un tempio con otto colonne sul frontone e diciassette lungo i fianchi, mentre di solito erano rispettivamente sei e dodici/tredici. Un tempio di quelle dimensioni richiedeva particolari soluzioni tecniche: il pavimento fu arcuato, così come la trabeazione sovrastante, le colonne furono fatte pendere all'interno di alcuni centimetri e le quattro d'angolo avevano un diametro maggiore, per dare complessivamente alla struttura un aspetto più armonioso.
Già la scelta di dedicare un tempio ad Atena Parthenos, impiegando mezzi così cospicui, piuttosto che riedificare quello di Atena Polias, distrutto dai persiani, aveva un preciso significato ideologico. Il tempio di Atena Polias era il centro della religione attica: la piccola statua lignea, che, secondo la tradizione, era caduta dal cielo, era l'immagine più venerata della dea, per la quale ogni quattro anni le giovani ateniesi tessevano un peplo. Era dea della fertilità, legata al mondo agricolo. Pericle, come simbolo cultuale della nuova Atene protesa sul mare, preferì Atena Parthenos, armata e con in mano una Nike. La struttura del tempio, in cui si armonizzavano elementi caratteristici dei templi dorici ed elementi dei templi ionici, era dovuta a una soluzione architettonica, ma voleva, anche in chiave propagandistica, ribadire il ruolo preminente di Atene tra gli Ioni delle isole dell'Egeo e della costa dell'Asia Minore. Come l'ordine ionico richiamava alla mente il lusso, la raffinatezza e l'intellettualismo della Ionia, il dorico era associato con la cupa, pesante semplicità dei discendenti di Eracle che abitavano il Peloponneso.
Pericle nell'epitaffio dice: “Amiamo il bello, ma con semplicità, e ci dedichiamo al sapere, ma senza debolezza”. Le scene delle metope richiamavano soggetti tradizionali: la lotta degli dei contro i Giganti a est, dei greci contro le Amazzoni a ovest, dei greci contro i troiani a nord, dei Lapiti contro i Centuari a sud; tutte metafore dello scontro tra i greci e i persiani che gli ateniesi avevano da poco vittoriosamente concluso. Il Partenone era il tempio della vittoria, dell'esaltazione dell'intelligenza e del coraggio degli ateniesi contro la forza dei barbari. Didascalia di queste metope potrebbero essere ancora le parole di Pericle nell'epitaffio: “Noi possediamo questa qualità in modo differente dagli altri, cioè noi siamo i medesimi e nell'osare e nel ponderare al massimo grado quello che ci accingiamo a fare”. La novità più interessante fu il fregio continuo della cella, prima di tutto perché si trattava di un elemento squisitamente ionico, poi per il soggetto contemporaneo: la processione che si svolgeva ad Atene durante le Panatenaiche. Il suo punto di partenza è presso lo spigolo sud-occidentale del sekòs: è qui che la processione con ritmo ancora lento si prepara per abbracciare poi il tempio in doppia direzione con la cavalcata degli efebi sui lati lunghi e per passare, tramite i gruppi degli apobàtai, dei thallophòroi, dei musici, degli offerenti, dei magistrati e delle ergastìnai, al punto d'arrivo sulla fronte orientale della cella. La fronte vede nel fregio l'accolta degli dei, ma sull'intercolumnio centrale, tra le ali divine, è figurato il momento rituale della consegna del peplo tessuto per Atena. Nel fregio sono quindi rappresentati fianco a fianco gli dei e i mortali, ma le divinità appaiono fisicamente e psicologicamente distanti.
Protagora nega la conoscibilità degli dei e questo spirito protagoreo doveva essere diffuso nell'entourage di Pericle, a cui anche Fidia apparteneva. Gli dei del fregio del Partenone hanno ormai perso la loro importanza per sé, non sono più il centro del rituale, ne sono soltanto l'oggetto apparente, perché al centro c'è l'espressione umana della pietà religiosa, la democratica partecipazione alla festa della dea della comunità, che si identifica con la comunità stessa: il rito è diventato manifestazione dell'unità della città. Per Pericle e per Protagora vero dio è la polis, la comunità degli uomini che trovano in essa la realizzazione della propria natura.

continua...

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