venerdì 1 aprile 2011

Considerazioni libere (218): a proposito di profughi e dei loro diritti...

Chi ha avuto la pazienza di leggere la "considerazione" che ho pubblicato ieri sera, sa già cosa intendo con l'espressione "la storia che dà i brividi". Non si può rimanere indifferenti di fronte agli uomini e alle donne che lasciano la loro terra, i loro affetti, le loro famiglie, che spendono tutti i loro soldi, guadagnati in una vita di lavoro, che mettono a rischio la loro vita e, a volte, quella dei loro figli. Queste persone meritano il nostro rispetto e il nostro aiuto.
Avere rispetto per queste persone e per le sofferenze che stanno incontrando significa anche affrontare il tema con parole chiare, senza infingimenti e tatticismi. Prima di tutto chi fugge la miseria, la fame, le malattie, ha gli stessi diritti di chi fugge da un paese in guerra o da una dittatura: non si può chiamare il secondo rifugiato e il primo clandestino. Tutti hanno gli stessi diritti. Nessuno può essere lasciato in mare o può essere respinto senza averne stabilito nome e nazionalità. Nessuno deve morire in mare e a nessuno possono essere rifiutati il primo soccorso e le cure mediche. Tutti devono essere nutriti e dissetati. Francamente sotto questa soglia credo non sia eticamente possibile scendere.
Poi c'è un passo in più: tutte queste persone devono godere dello stesso rispetto. Rispetto significa prima di tutto non usare più quei disperati a propri fini, in politica estera o interna. La decisione del governo francese di chiudere le proprie frontiere e la ritorsione italiana di allestire un campo a Ventimiglia rispondono evidentemente a piccole velleità di potenza di sapore ottocentesco, che risultano ridicole di fronte all'enormità del movimento storico a cui stiamo assistendo. Allo stesso modo temo che il ritardo con cui il governo italiano ha affrontato l'emergenza di Lampedusa non sia frutto soltanto della cronica inefficienza italica, ma sia stato il tentativo, peraltro maldestro, di drammatizzare la situazione a fini elettorali. Il rispetto infine si misura anche nelle parole. Un clandestino è qualcuno che arriva di nascosto, con l'inganno, mentre i disperati della Tunisia, della Libia, dell'intera Africa arrivano alla luce del sole, affinché tutto il mondo li possa vedere. Chiamare i campi profughi "campi concentrazionali" è un eufemismo che offende l'intelligenza dei profughi, che sanno benissimo di essere tali, e dei cittadini, ma soprattutto offende la memoria dei popoli che hanno conosciuto i campi di concentramento. Infine spero che la violenza delle parole di Bossi abbia fatto capire agli apprendisti stregoni del Pd che il leader leghista non può essere un interlocutore della sinistra: troppo distanti sono i valori.
Naturalmente, anche mentre si gestisce - bene o male - l'emergenza, bisogna saper guardare oltre. E anche in questo bisogna essere chiari. L'Italia è un paese che invecchia sempre più rapidamente e che quindi ha bisogno di energie giovani, ma è anche un paese con una struttura economica e sociale molto fragile: i cittadini stranieri sono una risorsa, ma è possibile accogliere stabilmente solo una parte di quelli che arrivano. Riporto alcune parole di grande saggezza di Enzo Bianchi, il priore della comunità monastica di Bose.
Siamo consapevoli che quasi mai il pane va verso i poveri e quasi sempre i poveri vanno verso il pane, così come siamo sempre più coscienti della radicale uguaglianza di tutti gli esseri umani di fronte a Dio e dell'universalità dei loro diritti, ma questo non significa praticare un'accoglienza passiva, acritica e illimitata degli immigrati. [...] Occorre riconoscere che esistono dei limiti nell'accoglienza: non i limiti dettati dall'egoismo di chi si asserraglia nel proprio benessere e chiude gli occhi e il cuore davanti al proprio simile che soffre, ma i limiti imposti da una reale capacità di fare spazio agli altri, limiti oggettivi, magari dilatabili con un serio impegno e una precisa volontà, ma pur sempre limiti.

Nei prossimi anni ci toccherà fare delle scelte, ma queste scelte saranno giustificate e giustificabili agli occhi di chi le subirà e all'esame della nostra coscienza, soltanto se avremo fatto in modo, come ho scritto concludendo la "considerazione" di ieri, che la situazione in Africa tra vent'anni sia diversa da quella di oggi. Tra l'altro, tra vent'anni non sarà più un problema etico, di quello che ci dice la nostra coscienza, ma quell'onda di disperazione ci travolgerà.

p.s.
per non perderne la memoria, metto il link al bellissimo articolo che Adriano Sofri ha scritto per la Repubblica del 2 aprile...

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