Sono state settimane decisamente intense, non è nemmeno stato necessario dedicare articoli e servizi a uno dei consueti “delitti dell’estate”, con cui gli organi di informazione riuscivano di solito a passare la stagione calda. Gran parte dell’attenzione si è concentrata – inevitabilmente e giustamente - sulla crisi economica e sulle soluzioni che i governi e le istituzioni internazionali hanno provato a mettere in campo per attutirne gli effetti.
C’è qualcosa d’altro su cui - almeno per me - varrebbe la pena soffermarsi. Il 14 luglio scorso alcuni studenti e giovani lavoratori, molte ragazze, si sono accampati con le loro tende nel boulevard Rothschild, una delle vie principali e più eleganti di Tel Aviv, per protestare contro l’aumento del costo delle case. In pochissimo tempo la protesta si è diffusa in altre città del paese, tra cui Gerusalemme e Beer Sheva: le piazze principali di queste città si sono trasformate in piccoli accampamenti con centinaia di tende, manifesti di protesta e persone che suonavano chitarre e che si riunivano per discutere fino a tarda notte. Purtroppo tra le parole d’ordine della protesta, che ben presto ha travalicato lo scopo iniziale legato ai prezzi degli alloggi, non c’è stato nessun riferimento a quei giovani cittadini israeliani che, essendo di nazionalità araba, godono oggettivamente di meno diritti. Comunque queste manifestazioni, che hanno dimostrato un’adesione e una tenuta nel tempo assolutamente imprevedibili, hanno riportato Isreale al centro del dibattito politico, ricollegando idealmente le piazze delle città israeliane a quelle delle altre città del Medio Oriente, tutte animate da giovani che non accettano più uno stato di cose che mette a rischio il loro futuro.
Il 7 agosto, nel quartiere londinese di Tottenham, dopo la morte di un tassista, ucciso in circostanze non ancora chiarite dopo essere stato fermato dalla polizia, sono scoppiati durissimi scontri, con incendi e saccheggi, che sono durati per giorni e si sono diffusi in varie zone di Londra e in molte altre città inglesi. I politici della Gran Bretagna sono rimasti sorpresi dalla forza della rivolta, mentre la polizia - già decapitata a seguito dello scandalo delle intercettazioni del gruppo Murdoch - è stata accusata di non aver saputo fronteggiare i giovani arrabbiati, lasciando anzi “sfogare” i partecipanti ai saccheggi senza intervenire. Cercare le ragioni della violenza non significa certo giustificarla, come recita un sillogismo caro a certa stampa moderata. Forse non è un caso che i tumulti siano cominciati a Tottenham, dove la chiusura di diversi centri sociali giovanili ha lasciato senza luoghi di aggregazione e attività sociali molti giovani disoccupati del quartiere. Gli scontri delle periferie inglesi dimostrano che una politica - indipendentemente dal colore del governo che la porta avanti - che non ritenga come sua centrale responsabilità l’attenuazione delle differenze di ricchezza e di classe, la creazione di opportunità per i più deboli e di posti di lavoro e occasioni di occupazione, che tagli indiscriminatamente le spese sociali, è una politica che si dispone a ignorare un problema enorme, o a pensare di affrontarlo solo con periodiche repressioni, buone soltanto a tranquillizzare i “bravi cittadini”.
A Salonicco i giovani che protestano sono stati sgomberati da piazza Syntagma alla fine di luglio, ma la Torre Bianca, il simbolo della città, l’antica fortificazione del XV secolo utilizzata come posto di guardia dei Giannizzeri e come prigione per i condannati a morte, è ancora circondata dalle tende dei manifestanti e coperta di striscioni con le scritte “in vendita” e “non in vendita”, in attesa che il prossimo 10 settembre il premier Papandreou inauguri la fiera internazionale della città, con un discorso in cui rilancerà la politica dei tagli e dei sacrifici. In Spagna gli indignados, gli iniziatori della protesta in Europa, non hanno ancora ripiegato e anzi hanno rilanciato con forza i loro slogan, in occasione della visita di Benedetto XVI per la Giornata mondiale della gioventù: la forza della loro protesta ha comunque segnato la politica del paese iberico e sarà interessante vedere quale sarà l’effetto nelle prossime imminenti elezioni legislative. In Cile da settimane ci sono manifestazioni degli studenti universitari che protestano perché gli atenei del paese sono i più costosi dell'intero continente, subito dopo quelli statunitensi; protestano contro un'istruzione superiore sempre più classista, contro chi si arrichisce con l'istruzione privata e chiedono che la costituzione, ancora in gran parte figlia della dittatura, preveda un'educazione pubblica, gratuita e di qualità. Il governo di destra è intervenuto con violenza per bloccare le manifestazioni, ma ai giovani si sono uniti i sindacati, compresi i minatori delle miniere di rame, e sono stati proclamati due giorni di sciopero generale che hanno bloccato il paese.
Vedremo che impatto avrà in Italia lo sciopero generale del prossimo 6 settembre, proclamato con coraggio dalla Cgil, nonostante i tanti appelli a mantenere l’unità del paese in un momento così delicato: è come chiedere alle pecore di stare uniti con i lupi. Vedremo se questo sciopero riuscirà a catalizzare le energie delle giovani e dei giovani che non ne possono più, speriamo che queste energie si incanalino in maniera positiva e pacifica, come è avvenuto in Spagna, in Israele, in Cile; il rischio che prevalgano pulsioni violente e ribelli, come è avvenuto in Gran Bretagna, o che ci siano scontri condizionati e organizzati dalla criminalità organizzata - una specificità tutta italiana - è purtroppo sempre presente e dovremo fare attenzione a non permettere che nelle manifestazioni ci siano degenerazioni di questo tipo.
Verrebbe voglia di citare l’incipit dell’opera di Marx ed Engels: “uno spettro si aggira per l'Europa”, aggiornandolo per includere il nord Africa e il Medio Oriente. E allo stesso modo, come nel ‘48 “tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro”, comprese le armate degli organi di informazione. Purtroppo, come ho già avuto modo di scrivere altre volte, questa voglia di cambiare le cose, questo desiderio di un altro futuro non trova una sponda nella politica di sinistra né nell’elaborazione di intellettuali e di uomini di cultura. Non solo in Italia - dove pure questo fenomeno è ancora più evidente - siamo prigionieri di un riformismo debole, che accetta supinamente le regole del mercato, senza avere il coraggio di metterle in discussione, che subisce regole che altri hanno imposto e che sono riusciti a far diventare assolute. Abbiamo bisogno di altro, di riforme vere - per un paradosso tutto italiano, riforme è diventato un termine di destra - che abbiano la forza di cambiare in profondità certi rapporti sociali.
Provo a fare un semplice esempio, legato alla stretta attualità italiana. Capisco che un governo di destra e profondamente classista come quello che abbiamo in Italia voglia tagliare le tasse ai più ricchi, compensando le mancate entrate con l’aumento dell’Iva: è la destra che fa il suo mestiere, tutelando i più ricchi della società. Non capisco perché a sinistra non si avvii una discussione seria sulla ridistribuzione delle ricchezze, che non significa togliere ai ricchi i loro beni, ma vuol dire semplicemente che chi ha di più deve pagare di più. Un’imposta diretta progressiva non può essere messa sullo stesso piano di un’imposta indiretta a carattere universale: per una persona di sinistra questo scambio dovrebbe essere uno scandalo, per alcuni dirigenti politici di sinistra questa è un’ipotesi di lavoro, che si giudica in base all’efficacia. Abbiamo bisogno di scandalizzarci per le cose che non vanno, abbiamo voglia di arrabbiarci perché vadano diversamente.
C’è qualcosa d’altro su cui - almeno per me - varrebbe la pena soffermarsi. Il 14 luglio scorso alcuni studenti e giovani lavoratori, molte ragazze, si sono accampati con le loro tende nel boulevard Rothschild, una delle vie principali e più eleganti di Tel Aviv, per protestare contro l’aumento del costo delle case. In pochissimo tempo la protesta si è diffusa in altre città del paese, tra cui Gerusalemme e Beer Sheva: le piazze principali di queste città si sono trasformate in piccoli accampamenti con centinaia di tende, manifesti di protesta e persone che suonavano chitarre e che si riunivano per discutere fino a tarda notte. Purtroppo tra le parole d’ordine della protesta, che ben presto ha travalicato lo scopo iniziale legato ai prezzi degli alloggi, non c’è stato nessun riferimento a quei giovani cittadini israeliani che, essendo di nazionalità araba, godono oggettivamente di meno diritti. Comunque queste manifestazioni, che hanno dimostrato un’adesione e una tenuta nel tempo assolutamente imprevedibili, hanno riportato Isreale al centro del dibattito politico, ricollegando idealmente le piazze delle città israeliane a quelle delle altre città del Medio Oriente, tutte animate da giovani che non accettano più uno stato di cose che mette a rischio il loro futuro.
Il 7 agosto, nel quartiere londinese di Tottenham, dopo la morte di un tassista, ucciso in circostanze non ancora chiarite dopo essere stato fermato dalla polizia, sono scoppiati durissimi scontri, con incendi e saccheggi, che sono durati per giorni e si sono diffusi in varie zone di Londra e in molte altre città inglesi. I politici della Gran Bretagna sono rimasti sorpresi dalla forza della rivolta, mentre la polizia - già decapitata a seguito dello scandalo delle intercettazioni del gruppo Murdoch - è stata accusata di non aver saputo fronteggiare i giovani arrabbiati, lasciando anzi “sfogare” i partecipanti ai saccheggi senza intervenire. Cercare le ragioni della violenza non significa certo giustificarla, come recita un sillogismo caro a certa stampa moderata. Forse non è un caso che i tumulti siano cominciati a Tottenham, dove la chiusura di diversi centri sociali giovanili ha lasciato senza luoghi di aggregazione e attività sociali molti giovani disoccupati del quartiere. Gli scontri delle periferie inglesi dimostrano che una politica - indipendentemente dal colore del governo che la porta avanti - che non ritenga come sua centrale responsabilità l’attenuazione delle differenze di ricchezza e di classe, la creazione di opportunità per i più deboli e di posti di lavoro e occasioni di occupazione, che tagli indiscriminatamente le spese sociali, è una politica che si dispone a ignorare un problema enorme, o a pensare di affrontarlo solo con periodiche repressioni, buone soltanto a tranquillizzare i “bravi cittadini”.
A Salonicco i giovani che protestano sono stati sgomberati da piazza Syntagma alla fine di luglio, ma la Torre Bianca, il simbolo della città, l’antica fortificazione del XV secolo utilizzata come posto di guardia dei Giannizzeri e come prigione per i condannati a morte, è ancora circondata dalle tende dei manifestanti e coperta di striscioni con le scritte “in vendita” e “non in vendita”, in attesa che il prossimo 10 settembre il premier Papandreou inauguri la fiera internazionale della città, con un discorso in cui rilancerà la politica dei tagli e dei sacrifici. In Spagna gli indignados, gli iniziatori della protesta in Europa, non hanno ancora ripiegato e anzi hanno rilanciato con forza i loro slogan, in occasione della visita di Benedetto XVI per la Giornata mondiale della gioventù: la forza della loro protesta ha comunque segnato la politica del paese iberico e sarà interessante vedere quale sarà l’effetto nelle prossime imminenti elezioni legislative. In Cile da settimane ci sono manifestazioni degli studenti universitari che protestano perché gli atenei del paese sono i più costosi dell'intero continente, subito dopo quelli statunitensi; protestano contro un'istruzione superiore sempre più classista, contro chi si arrichisce con l'istruzione privata e chiedono che la costituzione, ancora in gran parte figlia della dittatura, preveda un'educazione pubblica, gratuita e di qualità. Il governo di destra è intervenuto con violenza per bloccare le manifestazioni, ma ai giovani si sono uniti i sindacati, compresi i minatori delle miniere di rame, e sono stati proclamati due giorni di sciopero generale che hanno bloccato il paese.
Vedremo che impatto avrà in Italia lo sciopero generale del prossimo 6 settembre, proclamato con coraggio dalla Cgil, nonostante i tanti appelli a mantenere l’unità del paese in un momento così delicato: è come chiedere alle pecore di stare uniti con i lupi. Vedremo se questo sciopero riuscirà a catalizzare le energie delle giovani e dei giovani che non ne possono più, speriamo che queste energie si incanalino in maniera positiva e pacifica, come è avvenuto in Spagna, in Israele, in Cile; il rischio che prevalgano pulsioni violente e ribelli, come è avvenuto in Gran Bretagna, o che ci siano scontri condizionati e organizzati dalla criminalità organizzata - una specificità tutta italiana - è purtroppo sempre presente e dovremo fare attenzione a non permettere che nelle manifestazioni ci siano degenerazioni di questo tipo.
Verrebbe voglia di citare l’incipit dell’opera di Marx ed Engels: “uno spettro si aggira per l'Europa”, aggiornandolo per includere il nord Africa e il Medio Oriente. E allo stesso modo, come nel ‘48 “tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro”, comprese le armate degli organi di informazione. Purtroppo, come ho già avuto modo di scrivere altre volte, questa voglia di cambiare le cose, questo desiderio di un altro futuro non trova una sponda nella politica di sinistra né nell’elaborazione di intellettuali e di uomini di cultura. Non solo in Italia - dove pure questo fenomeno è ancora più evidente - siamo prigionieri di un riformismo debole, che accetta supinamente le regole del mercato, senza avere il coraggio di metterle in discussione, che subisce regole che altri hanno imposto e che sono riusciti a far diventare assolute. Abbiamo bisogno di altro, di riforme vere - per un paradosso tutto italiano, riforme è diventato un termine di destra - che abbiano la forza di cambiare in profondità certi rapporti sociali.
Provo a fare un semplice esempio, legato alla stretta attualità italiana. Capisco che un governo di destra e profondamente classista come quello che abbiamo in Italia voglia tagliare le tasse ai più ricchi, compensando le mancate entrate con l’aumento dell’Iva: è la destra che fa il suo mestiere, tutelando i più ricchi della società. Non capisco perché a sinistra non si avvii una discussione seria sulla ridistribuzione delle ricchezze, che non significa togliere ai ricchi i loro beni, ma vuol dire semplicemente che chi ha di più deve pagare di più. Un’imposta diretta progressiva non può essere messa sullo stesso piano di un’imposta indiretta a carattere universale: per una persona di sinistra questo scambio dovrebbe essere uno scandalo, per alcuni dirigenti politici di sinistra questa è un’ipotesi di lavoro, che si giudica in base all’efficacia. Abbiamo bisogno di scandalizzarci per le cose che non vanno, abbiamo voglia di arrabbiarci perché vadano diversamente.
Bello questo riepilogo, soprattutto si sente che c'è un idem sentire in diversi paesi del mondo... c'è sempre più ingiustizia sociale e di classe. Sottoscrivo poi il paragrafo sull'Italia e mi dico che la sinistra italiana non sa che fare perché per anni, in buona misura, ha cercato di fare una politica di destra diciamo con la faccia raccomandabile... e tra la copia sbiadita e l'originale è meglio l'originale, come Platone docet nella Repubblica...
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