In tutte le lingue indoeuropee - ed è uno dei rarissimi casi in cui c'è questa uniformità - la parola che indica la femmina che ha concepito e partorito deriva dalla radice del sanscrito antico ma. Questa radice ha come primo significato quello di misurare, ordinare, da cui deriva quello di preparare, formare. La madre è appunto colei che forma e prepara, è colei che genera. E' anche quella persona che, per anni, ci fatto mettere in ordine la nostra stanza, ma questa è un'altra storia. C'è evidentemente un valore divino in questo atto e non è un caso che nelle religioni più antiche della nostra civiltà la divinità fondamentale e primigenia sia sempre la Grande madre.
Vale la pena di ricordare che invece la radice pa, sempre nel sanscrito antico, contiene in sé il concetto di proteggere e di nutrire, assegnando così questi compiti al padre - altra parola che troviamo sostanzialmente uguale in tutte le lingue indoeuropee.
A dire la verità, in questo caso ho pensato prima alla definizione che alla parola da definire, cosa piuttosto inconsueta per un lessicografo: sembrerebbe una contraddizione, ma spero di riuscire a spiegarvela arrivando alla fine. Per dire quello che voglio dire, avrei potuto scegliere anche la parola padre o la più neutra genitore, anche se in questo caso non volevo innescare il dibattito su genitore 1 e genitore 2, che so appassionare tanti di voi. Ho deciso alla fine di scegliere madre perché in questa nostra epoca - da pochissimi anni, a dire il vero - ormai non vale più l’antico principio del diritto romano, secondo il quale
mater semper certa, pater numquam.Ammetto che fino a quando non sono venuto a vivere a Salsomaggiore non sapevo quali fossero le proprietà terapeutiche di queste acque termali; ho scoperto da poco che vengono utilizzate da tempo anche per curare l’infecondità femminile. Devo anche dire che i miei amici salsesi, quelli che da più tempo abitano qui e ricordano gli anni d’oro della città, pur senza sminuire gli effetti benefici delle acque salsobromoiodiche, ritengono che al successo delle cure abbia contribuito anche una forma empirica, ma sperimentata da secoli con notevole efficacia, di “fecondazione eterologa”.
A parte questa nota scherzosa, finalmente anche nel nostro paese è stato concesso alla coppie che non possono avere figli di utilizzare questa tecnica - quella moderna, scientifica - senza essere costretti ad andare all’estero; ci sono voluti dieci anni di battaglie legali per raggiungere questo risultato, ottenuto soltanto grazie ad una sentenza della Corte costituzionale, vista l’incapacità della politica di affrontare il tema.
Come ho detto però, ora non solo è possibile avere due padri, ma si possono avere anche due madri, una che concepisce e una che partorisce. Si tratta evidentemente di qualcosa di assolutamente nuovo per la storia della nostra specie, a cui dobbiamo trovare il modo di adattarci. E che ci pone domande a cui dovremo dare delle risposte. Per convenzione si dice che la madre “vera” è quella che ci mette l’ovulo, ma sappiamo anche che in alcuni casi non è stato semplice per la madre “surrogata”, che ha tenuto dentro in sé un bambino per nove mesi e lo ha fatto nascere, separarsene: quel figlio, in qualche modo, è anche suo. Con qualche ragione.
E poi ci possono essere gli errori, che non dovrebbero esserci in casi come questi, ma sono possibili, perché questa è la natura umana e la perfezione, si sa, non è di questo mondo. La paura dello scambio dei neonati è sempre esistita, a volte è stata l’occasione e lo spunto per scrivere opere letterarie, ma cosa succede quando l’errore avviene a monte, in fase di inseminazione e di impianto, come pare sia avvenuto all’ospedale Pertini di Roma? Di chi sono i figli che stanno per nascere? Di quale coppia?
Personalmente non ho mai dato - e non do - un grande valore ai legami di sangue. Non ho ragione di credere che i miei genitori non siano quelli biologici - e anzi alcuni indizi fisiologici e fisiognomici me lo confermano - ma loro sarebbero i miei genitori, indipendentemente dal fatto che mi abbiano generato o meno. Lo sono ormai, nel bene e nel male, per i 44 anni che abbiamo passato insieme fino ad ora e per quelli che passeranno ancora, per i momenti belli e anche per quelli brutti, per i conflitti che ci sono stati e soprattutto per il modo in cui mi hanno cresciuto ed educato. Io sono il loro figlio per questa storia, non per una combinazione cromosomica.
Immagino ricorderete la storia raccontata nel Primo libro dei Re di cui è protagonista Salomone (1Re 3, 16-28). Peraltro, come ci spiegano gli antropologi Frazer e Gressman, questa storia è raccontata con poche varianti, in tradizioni molto diverse.
Due prostitute si presentano di fronte al re di Israele, reclamando ciascuna la maternità di un bambino. Entrambe le donne, che vivono nella stessa casa, hanno avuto un figlio - i padri sono ignoti e comunque ininfluenti per il prosieguo della storia - ma uno dei due è morto alla nascita. Non ci sono stati testimoni né delle due nascite né di quello che è successo dopo e ciascuna delle due donne afferma che di essere la madre del bambino che ancora vive.
Evidentemente il re non può sapere quale dice le verità, in base a valutazioni scientifiche, e quindi Salomone afferra una spada e sentenzia che il bambino sarà diviso a metà tra le due donne. A questo punto l’atteggiamento delle due donne, che nel corso del processo avevano usato le stesse parole, cambia: la prima accetta il giudizio del re, mentre la seconda rinuncia alle proprie pretese e dice che il figlio dev’essere dato all’altra donna. Salomone a questo punto affida il bambino alla seconda, ossia a quella che aveva rinunciato, spiegando che proprio con questa rinuncia ha dimostrato di essere la vera madre.
Era davvero lei la madre del bambino? Naturalmente non lo sapremo mai, ma certo è quella che ha dimostrato di amarlo di più.
Questo è bastato a Salomone. Deve bastare anche a noi.
Anche Brecht ha ripreso questa leggenda nel suo dramma "Il cerchio di gesso del Caucaso". Con qualche piccola variante.
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