Nonostante alcune persone continuino a chiederne l'introduzione, la pena di morte è fortunatamente considerata nel nostro paese un fatto esecrabile, per cui molti di noi sostengono le iniziative e le campagne per arrivare a una moratoria prima, e all'abolizione poi, di questa pena in tutto il pianeta. Credo sia giusto continuare a condannare quegli stati che ancora la applicano, ma penso anche che non ci si debba fermare a questo tema: il trattamento che uno stato riserva ai carcerati è una cartina di tornasole del livello di democrazia in quello stesso paese. Le condizioni delle carceri italiane sono purtroppo lo specchio fedele delle inefficienze e delle ingiustizie del nostro paese
Mettere una persona in completo isolamento deve essere considerato una forma di tortura, e come tale condannata. Diversi studiosi hanno verificato che una persona che ha vissuto alcuni mesi in isolamento completo, senza alcun contatto con un altro essere umano, perde progressivamente ogni capacità di organizzarsi, tende a stare in una condizione di apatia, che può sfociare sia nella rabbia irrazionale sia nella depressione. Anche quando questa persona esce dall'isolamento fà un'enorme fatica a riprendere i contatti con le altre persone, fatica persino a ricominciare a parlare con loro. Certamente l'uso dell'isolamento è un metodo sbrigativo e sul momento efficace per reprimere fenomeni di violenza dentro un carcere, ma non risponde alle esigenze di umanità e di rieducazione che queste strutture dovrebbero perseguire.
Gli Stati Uniti sono un paese con un enorme numero di persone in carcere e soprattutto con un altissimo tasso di detenzione: il 25% della popolazione carceraria del mondo contro il 5% della popolazione mondiale. Nonostante nel 1890 (non è un errore, mi riferisco a più di un secolo fa) la Corte suprema avesse già affrontato il problema dell'isolamento, arrivando quasi a dichiararlo illegale, attualmente nelle supercarceri statunitensi ci sono dai 75 ai 100 mila carcerati in isolamento completo. Non esistono dati ufficiali, anche perché il sistema federale demanda l'ordinamento della giustizia ai singoli stati e i sovrintendenti delle varie carceri hanno ampi livelli di autonomia nell'applicazione di questa pena aggiuntiva. Solitamente l'isolamento è giustificato come un modo per reprimere la violenza dentro le carceri. Però non esistono dati che mettano in relazione la diffusione della violenza e l'uso dell'isolamento e neppure dati che confermino che un uso massiccio dell'isolamento faccia diminuire la violenza dentro le carceri (in alcuni stati anzi è avvenuto il contrario). Purtroppo il sistema dell'isolamento è popolare negli Stati Uniti, se un sovrintendente non lo applica si trova di fronte un'opinione pubblica che ne richiede l'utilizzo. Esistono invece studi che dimostrano come chi è uscito dai supercarceri, dove è frequente l'applicazione dell'isolamento e comunque i sistemi di controllo sono molto duri, ha una maggiore probabilità di tornare al crimine, anche perché è aumentato il suo senso di estraneità alla società e la sua voglia di ribellarsi.
In Gran Bretagna fino alla fine degli anni settanta il sistema carcerario prevedeva l'utilizzo frequente dell'isolamento, contro sia i criminali più violenti sia i terroristi dell'Ira. In seguito, per la necessità di ridurre i costi di detenzione e di fronte al fatto che non si riduceva il livello di violenza nelle carceri (ma anche grazie a un movimento dell'opinione pubblica), è cambiata radicalmente la strategia: ai detenuti più pericolosi e turbolenti vengono concesse maggiori opportunità di lavoro e di formazione, alloggiandoli in piccoli reparti di una decina di persone. Questa strategia ha pagato: il livello di violenza nelle carceri inglesi è diminuito in maniera costante e il numero di detenuti in isolamento di tutta la Gran Bretagna è inferiore a quello del solo Maine.
p.s. devo queste considerazioni al medico e scrittore Atul Gawande, che ha pubblicato un lungo articolo su The New Yorker, ripreso e tradotto nel nr. 815 di Internazionale; ve ne consiglio la lettura
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