Questi appunti sono il seguito della storia che ho raccontato nella "considerazione" nr. 18 o meglio sono il tentativo di raccontare come i lavoratori - uso volutamente questa parola dal sapore antico, perché mi pare ormai uscita dal lessico politico - stanno affrontando la sempre più probabile chiusura della loro azienda. Rispetto ad alcuni giorni fa, quando ho scritto la nota precedente, l'azienda non si è presentata a un nuovo tavolo convocato presso il Ministero per lo sviluppo economico ed è cominciato uno sciopero a oltranza che ha bloccato di fatto ogni attività. Prima di entrare nel vivo del racconto, voglio scusarmi se qualcuno dei miei sporadici lettori, riconoscendosi nelle mie descrizioni, riterrà le mie valutazioni sbagliate o, peggio ancora, offensive: non è certo mia intenzione. Voglio semplicemente provare, pur rischiando di non esserne capace, a ricavare alcune considerazioni di carattere generale da una vicenda particolare.
La cosa che mi pare emerga con più evidenza dalle vicende di questi giorni è il fatto che manca quella che un tempo si sarebbe chiamata "solidarietà di classe": questo è dovuto in parte a limiti evidenti delle persone coinvolte, che tendono a pensare esclusivamente ai propri problemi, senza farsi carico di quelli degli altri, ma in parte anche da scelte consapevoli portate avanti dalla proprietà (è molte forte la tentazione di usare un'altra parola antica, padrone). Intanto i call center interessati sono quindici, dislocati in differenti parti d'Italia, dal nord al sud: la prospettiva cambia molto se si guarda da Novara o da Vibo Valenzia. Poi ci sono molte tipologie di contratto: chi ha un contratto a tempo indeterminato fatica a legare la propria lotta con quella di chi ha un contratto a progetto, e viceversa. C'è una precarietà del lavoro, ma c'è anche una precarietà della lotta e della protesta.
Tra chi non viene pagato e presto forse non avrà più un lavoro, ci sono studenti universitari che hanno bisogno di un lavoro per essere (e per sentirsi) più autonomi dai propri genitori e ci sono madri separate per le quali questo lavoro è l'unico sostegno della propria famiglia: è evidente che tra questi due poli le differenze di valutazione sono notevoli. Nessuno di questi partecipa di fatto allo sciopero, se ne sono andati. I primi stanno cercando un lavoro simile, che garantisca loro lo stesso salario; le seconde valutano che partecipare a una manifestazione o a un presidio è per loro un costo che non possono permettersi, non possono fare viaggi a vuoto e dedicano ogni loro energia, con lucida disperazione, per cercare un nuovo posto di lavoro.
Rimangono così in pochi. Alcuni tentano di continuare a lavorare. Non sono crumiri - sarebbe ingeneroso definirli così - sono persone che in maniera acritica vogliono credere che la situazione si risolverà e non vogliono essere considerati responsabili del tracollo dell'azienda. Alcuni in più, ma comunque pochi, partecipano alle iniziative; l'unica spinta unitaria è venuta dalla decisione, sostenuta dal sindacato, di avviare un'azione legale per ottenere un'ingiunzione di pagamento per gli stipendi non pagati. Attorno a questi si muove poco: la Cisl e la Uil non esistono, la Cgil fa qualcosa, ma potrebbe fare di più, i mezzi di informazione non sono particolarmente attenti, il Pd non conosce la situazione, solo Rifondazione si è schierata, ma è debolissima, gli enti locali sono preoccupati, ma non hanno gli strumenti per intervenire. Peraltro in alcune regioni gli enti locali hanno dato contributi molto ingenti a questa azienda nell'ambito delle politiche per il sostegno all'occupazione e quindi, nella migliore delle ipotesi, sono anch'essi parti lese, mentre nella peggiore, sono complici.
La sostanza è che quasi tutti i lavoratori ormai, presi dai loro serissimi problemi, pensano a trovare una soluzione a questi problemi, magari accettando un nuovo contratto a progetto e condizioni di lavoro peggiori di quelle che hanno lasciato, e non pensano a difendere quel posto di lavoro, la professionalità che hanno accumulato, l'esperienza che hanno fatto in questi anni: sono stati divisi e di conseguenza si muovono in maniera autonoma. Temo sia evidente capire chi ha vinto questa partita.
Ho letto le due considerazioni “sulla precarietà” e, mi permetto di aggiungere, “in questo mondo di ladri”.
RispondiEliminaSono amareggiata e, ovviamente non approvo, ma non sono sorpresa perché vedo queste cose da 16 anni, chi lavora in uno studio di commercialisti ha l’onore di gustarsi queste situazioni molto spesso.
Che situazioni sono?
-dichiarazioni dei redditi con utili che vanno dai 5 mila ai 10 mila euro l’anno, però sotto il materasso ce ne sono almeno dieci volte tanti … questi soggetti non pagano le tasse e la gente onesta deve pagarle anche per loro;
-dipendenti a chiamata, della serie “facciamo un contratto per cui se mi servi ti chiamo”, la verità è che quei poveretti lavorano tutta la settimana ed il loro lavoro viene retribuito in nero al 90% quindi niente contributi pensionistici e sono pure sottopagati perché in questo periodo, e non solo, la domanda è superiore all’offerta per cui la frase tipo è “se non ti sta bene di sostituti ne ho a centinaia”;
-contratti a tempo determinato, sono meglio di quelli sopra, ma il lavoratore non ha garanzie per il futuro, non può chiedere un mutuo per comprarsi una casa, le coppie che vogliono figli devono rimandare e poi ci sentiamo dire che non facciamo figli … chissà come mai?
-cassa integrazione: è diventata la moda del momento: è vero che ci sono aziende in crisi economica, ma ce ne sono tante altre che approfittano di questi momenti per mettere in cassa integrazione i dipendenti “hanno talmente tante richieste che le approvano tutte”, questa è un’affermazione di una mia cara amica che si occupa di elaborazione paghe e sono mesi che passa ore a far domande di cassa integrazione e licenziamenti;
- studi di settore revisionati, perché in questo periodo non si possono pretendere i ricavi che vengono richiesti quando l’economia va bene (giustissimo) è che i furbetti ne approfittano;
- poi ci sono gli ingegnosi, e non sono pochi, che chiudono l’azienda e dopo qualche giorno, guardacaso, ne aprono una nuova, con un altro nome e un’altra sede.
Potrei elencarti decine di altre situazioni, ma credo sia sufficiente così.
Cosa ne penso?
Innanzitutto che siamo pieni di evasori fiscali che non pagano le tasse ed è una cosa che non tollero, perché pesano sull’economia, sulle risorse finanziarie del paese e sui cittadini.
Poi che i sindacati e i sindacalisti si muovono molto poco in questo senso, tante parole e pochi fatti, la conseguenza è che i padroni padroneggiano e il lavoratore o sciopera o si adatta; ma la scelta non dipende solo dal lavoratore, ma anche dalle sue condizioni economiche, dalla famiglia e dall’ambiente in cui lavora. Chi lavora nelle aziende di piccole dimensioni se sciopera viene eliminato, direttamente o con il mobbing.
Per onestà ci tengo a dirti che io non ho mai manifestato per lavoro, ho sempre preferito il confronto (in alcuni casi anche lo scontro) diretto, ma non tutti hanno questa possibilità.
Cosa mi auguro? Che la situazione migliori.
Cosa mi piacerebbe? Che i furbetti abbiano la sfortuna di trovarsi faccia a faccia con esperti come il mio ex capo che ha avuto il coraggio, l’onestà e la professionalità di denunciare e promuovere azioni di responsabilità contro soci, banche, sindaci, revisori e commercialisti (anche suoi amici) al fine di fare emergere la sporcizia per poter pagare a 2.500 lavoratori tutto quello che a loro era dovuto, e ci è riuscito. E’ che questa è un’utopia, lui è l’unico uomo e professionista di mia conoscenza che ha avuto il coraggio di mettersi contro "tutti quelli che contano", inutile dire che lo stimo tantissimo per questo … e per tanto altro.
Chiudiamola con un giochetto, per sdrammatizzare, se indovini chi sono (non è difficile) scrivi qualcosa, anche ":)", sulla mia bacheca.
Grazie davvero...
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