giovedì 25 marzo 2010

Considerazioni libere (91): ancora a proposito di colonialismo...

A leggere le pagine economiche dei giornali pare che ormai l'economia giri unicamente attorno alla finanza o all'alta tecnologia; sarà forse così in quei paesi che, con un eufemismo che sarebbe ormai da rivedere, continuiamo a definire sviluppati. In America latina, in Asia, in Africa c'è una corsa ad accappararsi i beni primari: l'acqua e la terra. I protagonisti di queste vere e proprie guerre per l'acqua e la terra sono i grandi investitori, gli istituti di credito, le multinanzionali, che spesso godono di aiuti pubblici destinati allo sviluppo: le donne e gli uomini che vivono in quei territori ne pagano quasi sempre le conseguenze negative, senza alcun vantaggio.
Mi sono occupato in diverse "considerazioni" delle grandi opere che sono state costruite e che sono in progetto per ricavare energia dall'acqua.
Nella "considerazione" nr. 34 invece ho raccontato la storia dei latifondi in Paraguay.
La situazione è purtroppo molto simile in Africa. In questo continente nel solo 2009 è stata acquistata da investitori stranieri una superficie di circa 50 milioni di ettari, pari all'1,6% dell'intera superficie africana, secondo i dati raccolti dall’Istituto internazionale per l' Ambiente e lo Sviluppo, dalla Coalizione internazionale per l'accesso alla terra, da ActionAid e da altri gruppi non governativi. L'aumento del petrolio nel 2008 ha portato da un lato i grandi investitori internazionali a diversificare i propri interessi tornando a produrre materie prime alimentari, il cui costo è tornato a crescere dopo un periodo di stasi, e dall'altro lato a cercare nuovi fonte energetiche, in particolare nel settore dei biocombustibili. Naturalmente per produrre nuovi prodotti agricoli serve terra, tanta terra, e in Africa ce n'è moltissima, a un prezzo contenuto.
Così ad esempio il governo etiope ha concesso a due aziende indiane una concessione ventennale per lo sfruttamento di 15mila ettari di terreno nella regione di Gambela, nell'Etiopia occidentale. L'obiettivo degli indiani è impiantare delle piantagioni di pongamia pinnata, da cui si ricavano biocombustile e prodotti per l'industria chimica. La regione di Gambela però non è né incolta né disabitata. Questa è la testimonianzia di Nyikaw Ochalla, un’anauk indigena che vive in Gran Bretagna, ma è in contatto con agricoltori della sua regione.
Tutta la terra nella regione Gambella si utilizza. Ogni comunità possiede e si prende cura del proprio territorio, dei fiumi e terre da coltivazione al suo interno. Dire che esiste terra sprecata o non usata a Gambella è un mito diffuso da governo e investitori.
Le compagnie estere arrivano in gran numero e privano le persone della terra che hanno utilizzato per secoli. Non ci sono consultazioni con la popolazione indigena. Gli accordi si chiudono in segreto. L’unica cosa che le persone del posto vedono è gente che arriva con numerosi trattori per invadere le loro terre. Tutta la terra che circondava il villaggio della mia famiglia, Illia, è stata presa ed è svuotata. Adesso la gente deve lavorare per una compagnia indiana. La loro terra è stata presa con la forza e senza alcun compenso. La gente non può credere a quanto sta succedendo. Migliaia di persone ne saranno colpite e soffriranno la fame.

Inoltre una parte della regione di Gambela è parco nazionale e non si sa che effetto avranno sull'ecosistema della regione né la trasformazione in agricoltura intensiva né gli insediamenti degli stabilimenti per la produzione del biocombustibile e dei prodotti chimi che pure sono in progetto.
Lo stesso governo etiope ha concesso per 99 anni 1.000 ettari all'imprenditore Mohammed al-Amoudi, uno dei cinquanta uomini più ricchi al mondo. In quell'area, nella valle di Rift, si sta costruendo una serra di 20 ettari. A regime si prevede si raccogliere 50 tonnellate di alimenti al giorni, pomodori, peperoni, vegetali che in 24 ore saranno nei mercati di Dubai e di altre grandi città del Medio Oriente. Questa fattoria modello a regime utilizzerà da sola la quanità d'acqua necessaria per 100.000 etiopi.
In sintesi l’Etiopia è uno dei paesi più affamati nel mondo, dove più di 13 milioni di persone hanno bisogno di aiuti alimentari, eppure il suo governo offre almeno 3 milioni di ettari della sua terra più fertile a paesi ricchi e a alcuni degli individui con più soldi nel mondo perché esportino alimenti fuori dal loro paese.
Gli esempi sono moltissimi. Investitori arabi producono cereali per il proprio paese nelle terre che hanno acquistato in Sudan, in Egitto, in Etiopia e in Kenia. La Cina ha firmato un contratto con la Repubblica Democratica del Congo per la coltivazione di 2,8 milioni di ettari di olio di palma per biocombustibile. Compagnie indiane, coperte da prestiti governativi, hanno comprato o affittato centinaia di migliaia di ettari in Etiopia, in Kenia, in Madagascar, in Senegal e in Mozambico dove coltivano riso, canna da zucchero e lenticchie per alimentare il loro mercato interno. Azienda britanniche, danesi, statunitensi hanno acquistato terreni per la produzione di biocombustile.
Questa corsa ad acquistare terre in Africa è una nuova forma di colonialismo.
L’agricoltura industriale su grande scala separa la gente della terra, richiede l’uso di prodotti chimici, pesticidi, fertilizzanti, un uso intensivo dell’acqua e dei mezzi di trasporto, con danni ambientali non prevedibili. Chi fino ad ora ha coltivato la terra ne viene espropriato: questo porterà più povertà e possibili nuove cause di conflitto. Ancora una volta si stanno facendo grandi affare, sulla pelle degli africani.

p.s. p.s. devo queste considerazioni al giornalista John Vidal, autore di un articolo su Mail & Guardian; ve ne consiglio la lettura

Nessun commento:

Posta un commento