Per fortuna qualcuno ci sta pensando, anche se probabilmente questi studi sono destinati a rimanere nei cassetti di qualche agenzia internazionale. Un-Habitat è il Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani: è nato nel 1978, ha sede a Nairobi, in Kenya, e attualmente è diretto dalla tanzaniana Anna Tibaijuka. Secondo un recente rapporto di Un-Habitat, da qui al 2050 la popolazione dell'Africa aumenterà di circa un miliardo. Già questo dato da solo dovrebbe far riflettere, ma a preoccupare ulteriormente è la distribuzione della popolazione africana: nel 2050 il numero degli abitanti delle grande aree metropolitane è destinato a salire fino a 1,3 miliardi. Stando alle attuali proiezioni Ougadougou, la capitale del Burkina Faso, passerebbe dagli attuali 1,9 milioni di abitanti a 3,4 milioni già nel 2020, tra soli dieci anni. Niamey, in Niger, Kampala, in Uganda, Dar-el-Salaam, in Tanzania, avranno un livello di crescita vicino al 60%, mentre Lagos, in Nigeria, Kinshahsa, nella Repubblica Democratica del Congo, Luanda, in Angola, cresceranno tra il 40 e il 50%.
Oltre alla crescita della popolazione, secondo gli esperti delle Nazioni Unite, assisteremo al progressivo trasferimento di popolazione dalle campagne alla città. Ho già avuto modo di raccontare in alcune altre "considerazioni" come si sta trasformando il territorio africano: la costruzione di grandi dighe per la produzione di energia elettrica costringe ogni anno migliaia e migliaia di contadini a lasciare le loro terre, che vengono o sommerse dalle acque dei bacini o private dei loro naturali corsi d'acqua; così ad esempio il lago Ciad, al centro del continente, si sta rapidamente restringendo. Le compagnie dei paesi occidentali e di quelli arabi acquistano enormi quantità di terre per avviare coltivazioni intensive (leggete la "considerazione" nr. 91). Non è inutile ricordare che sia l'energia elettrica sia i prodotti coltivati sono destinati solo in minima parte al mercato africano, ma serviranno allo sviluppo dei nostri paesi. Intanto l'Africa viene progressivamente impoverita: in agosto del 2010, anche per rendere fertili i grandi latifondi e sostenere le coltivazioni cosiddette water-intensive, sono finite le risorse naturali che la terra può fornire e reintegrare nel corso di dodici mesi.
Per molti africani l'unica possibilità sarà quella di trasferirsi nelle enormi periferie delle città, dove già ora c'è una povertà incredibile, con tutti i rischi di carattere sanitario e sociale che sono facilmente immaginabili. Il rapporto di Un-Habitat descrive l'Africa del 2050 come "un oceano di miseria con isole di benessere".
Questi problemi sono i nostri problemi, non soltanto perché fatalmente molte di queste persone saranno costrette a fuggire dai loro paesi e cercare una qualche forma di sopravvivenza nei nostri paesi. E' un problema nostro perché questo pianeta non è più in grado di reggere questi livelli di sviluppo, e quando si arriverà al collasso, non sarà molto differente vivere a Roma, a Milano o a Ougadougou.
Se vogliamo immaginare l'Africa come a una speranza, bisogna che mettiamo al riparo lo spazio riproduttivo, arginiamo la conquista della terra, difendiamo la sovranità alimentare e le economie locali.
Voglio concludere citando un programma "rivoluzionario".
Una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all’occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l’occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.
Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base.
Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l’indigenza, ne deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo – ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio – quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova.
Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo cosi ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un’opera di trasformazione sociale.
Questo lo diceva nel 1977 Enrico Berlinguer.
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